Liquidazione equitativa del danno patrimoniale futuro: criteri di valutazione e necessità del loro riscontro in motivazione

22 Dicembre 2015

La liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, pur diretta alla tendenziale integralità del ristoro e non meramente simbolica, può essere solo equitativa trattandosi di danno patrimoniale futuro, sicché essa va condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso (e, in ispecie, della rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione), dovendo il giudice spiegare le ragioni del processo logico sul quale la valutazione equitativa operata si fonda, indicando i criteri assunti a base del procedimento adottato.
Massima

La liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, pur diretta alla tendenziale integralità del ristoro e non meramente simbolica, può essere solo equitativa trattandosi di danno patrimoniale futuro, sicché essa va condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso (e, in ispecie, della rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione), dovendo il giudice spiegare le ragioni del processo logico sul quale la valutazione equitativa operata si fonda, indicando i criteri assunti a base del procedimento adottato.

Il caso

La Corte d'Appello di Milano, quale giudice del rinvio operato da Cass. civ., sez. III, sent., 28 novembre 2008, n. 28399, liquidava il danno patrimoniale, segnatamente quello futuro derivante dalla perdita di capacità lavorativa, subìto da un militare in ferma volontaria prolungata in occasione di un sinistro stradale.

Avverso la pronuncia della Corte di merito il soggetto danneggiato propone ricorso per Cassazione.

La questione

Con i motivi di impugnazione dedotti nel ricorso per Cassazione vengono in rilievo differenti profili problematici concernenti la tematica della liquidazione in via equitativa del danno patrimoniale, segnatamente di quello patrimoniale futuro derivante da perdita della capacità lavorativa.

Nello specifico, la Suprema Corte, nel ribadire i presupposti per la valutazione ex art. 1226 - 2056 c.c., opera un'esaustiva disamina dei criteri (la cui scelta e adozione sono rimesse alla prudente discrezionalità del giudice) cui il giudicante deve attenersi nella liquidazione in via equitativa del quantum del danno. Inoltre interviene a chiarire, al precipuo fine di scongiurare il rischio di decisioni del tutto apodittiche e frutto di arbitrio, se (ed in che modo) il giudice sia tenuto a dare conto nell'iter motivazionale dei parametri posti a base della sua valutazione.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso e cassa la decisione impugnata limitatamente ai primi due motivi di impugnazione articolati. In particolare, la pronuncia de qua viene cassata per aver la Corte territoriale liquidato in maniera simbolica il danno da sinistro stradale subito, durante il servizio, da un militare in ferma volontaria prolungata.

Risulta di tutta evidenza come la Suprema Corte abbia ritenuto che, essendo la liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica un danno patrimoniale futuro la cui liquidazione non può che avvenire in via equitativa, allora, necessariamente, il giudice è tenuto a spiegare le ragioni del processo logico sul quale la valutazione equitativa operata si fonda, indicando i criteri assunti a base del procedimento adottato. Il potere riconosciuto al giudice di determinazione equitativa del danno è un potere discrezionale che non può e non deve sfociare in una delibazione arbitraria. Il giudicante è quindi tenuto ad indicare nella parte motiva della decisione le ragioni del processo logico in base al quale detto potere è stato esercitato.

Per ciò che concerne i criteri e i parametri sottesi ad una siffatta valutazione, la Suprema Corte afferma che gli stessi devono essere in concreto idonei a consentire di giungere ad una valutazione equa e congrua.

Osservazioni

Si intuisce come la liquidazione del danno costituisca il tema centrale della pronuncia in commento. In termini generali essa consiste nell'operazione di traduzione del danno, quale realtà fenomenica, in termini monetari: mediante la liquidazione del danno, quindi, l'originario debito di valore viene trasformato in debito di valuta. Come noto, il modello risarcitorio della responsabilità civile mira ad un integrale risarcimento a favore del danneggiato volto, perlomeno in astratto, a ricostituire lo stato in cui questi si sarebbe trovato senza l'evento lesivo (Cass. civ., sez. III, sent., 19 gennaio 2007, n. 1183). Il danno si distingue in patrimoniale e non patrimoniale. La statuizione in esame ha ad oggetto principalmente la liquidazione del danno patrimoniale che, a sua volta, si suddivide in danno emergente (effettiva diminuzione di patrimonio del danneggiato) e lucro cessante (mancato guadagno del danneggiato). Queste due categorie si compongono poi di diverse sottocategorie di danno, così come, in effetti, quella derivante dalla perdita della capacità lavorativa specifica costituisce una voce del lucro cessante (cfr. Cass. civ., sez. III, sent., 12 giugno 2015, n. 12211). Il caso concreto, oggetto della sentenza in esame, concerne, per l'appunto, la valutazione del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa, la quale, a detta del Supremo Collegio, non può che essere svolta in via equitativa.

Giova precisare, però, che l'attribuzione del potere officioso ex artt. 2056 – 1226 c.c. in capo al giudice va considerato un'eccezione alla regola in un contesto processuale sorretto dal principio dispositivo per cui, in ogni caso, «non è possibile liquidare il risarcimento del danno futuro senza la prova, o, comunque, allegazione, di elementi specifici dai quali dedurre la sussistenza del danno. Soltanto una volta che tale allegazione sia stata fornita, la liquidazione del danno patrimoniale per la perdita della capacità lavorativa specifica, come danno patrimoniale permanente e futuro, può avvenire con criteri equitativi» (Cass. civ., sez. III, sent., 19 febbraio 2013, n. 4033). In buona sostanza l'incertezza che è alla base della valutazione equitativa deve riguardare l'ammontare del danno e non già la sua esistenza. Invero, la giurisprudenza di legittimità ha già da tempo evidenziato che al giudice è consentito ricorrere alla valutazione equitativa soltanto in presenza di un'impossibilità, o motivata grande difficoltà, di procedere all'esatta quantificazione del danno e non già per surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore nella determinazione del ritardo, o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (cfr. Cass. civ., sez. I, sent., 10 luglio 2003, n. 10850). Inoltre, per completezza, si chiarisce che l'equità in questione viene definita “integrativa” o “correttiva”, atteso che si tratta di un apprezzamento teso a colmare lacune, altrimenti insuperabili, nell'iter della determinazione dell'equivalente pecuniario del danno (espressione del potere riconosciuto al giudice ex art. 115 c.p.c.). Questa si distingue dall'equità c.d. “decisoria” – che, invece, consente al giudicante di definire una controversia non secondo diritto – la quale è suscettibile di applicazione soltanto nel caso in cui sia la legge stessa ad attribuire al giudice tale potere (art. 113 c.p.c.), ovvero quando le parti ne facciano concorde e espressa richiesta (art. 114 c.p.c.).

Come anticipato nel paragrafo che precede, il Supremo Collegio ritiene che la valutazione de qua debba essere sorretta da criteri (la cui scelta è comunque rimessa alla prudente discrezionalità del giudice) idonei a far pervenire ad una stima equa e, al contempo, congrua: equa, in quanto la stessa deve risultare adeguata e proporzionata al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subìto dal danneggiato; congrua, atteso che il ristoro deve tendere, in considerazione del caso concreto, alla maggiore approssimazione possibile all'integrale risarcimento. Precisa, inoltre, il Supremo Collegio che, in ogni caso, deve essere esclusa l'applicazione pura di criteri rigidamente fissati in astratto, così come deve ritenersi inidonea una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudicante. A detta di chi scrive, il principio da tenere ben presente per la scelta dei parametri tra i due estremi opposti appena indicati è che, in ogni caso, essi devono consentire di pervenire ad una valutazione improntata a equità.

L'ulteriore profilo problematico affrontato concerne, come già detto, la possibilità di controllo della valutazione del giudice condotta secondo equità. Essendo tale valutazione connotata da un elevato grado di discrezionalità, si intuisce come la possibilità di sottoporla a controllo sia limitata al solo rilievo del vizio di motivazione. In particolare la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., sez. III, sent., 13 dicembre 2012, n. 22896) già da tempo ha ritenuto che la valutazione equitativa del danno, in quanto caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è sotto il profilo del vizio di motivazione suscettibile di rilievi in sede di legittimità, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti da dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria. Su tali basi, allora, il giudicante è tenuto ad indicare nella parte motiva della decisione le ragioni del processo logico in base al quale detto potere è stato esercitato, indicando anche i criteri alla base della propria valutazione. In applicazione dei suddetti principi la Corte di Cassazione è giunta a cassare la pronuncia della Corte di merito, rilevando come la stessa abbia disatteso i principi in questione nel momento in cui ha liquidato il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa in maniera del tutto apodittica e simbolica, omettendo financo di dare conto della base di calcolo in concreto utilizzata.