È davvero insanabile il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione davanti al Co.Re.Com.?
27 Gennaio 2017
Massima
Non può essere sanato il vizio conseguente al mancato compimento del tentativo di conciliazione davanti al Co.Re.Com. in ottemperamento alla condizione di proponibilità della domanda stabilita dalla legge per le controversie tra consumatore e gestore di servizi di comunicazione elettronica. La lettura dell'art. 1, comma 11, l. n. 249/1997 nel senso di escludere in via definitiva proposizione della domanda in caso di mancato rispetto di tale condizione, oltre che conforme al cristallino tenore letterale della disposizione, è pure l'unica possibile che sia anche costituzionalmente orientata con riferimento all'art. 111 Cost. ed al principio della ragionevole durata del processo, oltre che l'unica idonea ad assicurare il diritto degli utenti ad accedere ad un processo spedito, di cui all'art. 34 dir. UE n. 22/2002 Il caso
Con il provvedimento in commento il Tribunale di Milano ha dichiarato l'improcedibilità di una domanda di accertamento negativo dei crediti vantati dalla convenuta e di una domanda di condanna all'adempimento di una obbligazione pecuniaria in relazione ad un contratto avente ad oggetto servizi di comunicazione elettronica. Il convenuto nel costituirsi aveva eccepito tale improcedibilità perché l'instaurazione del processo non era stata proceduta dall'esperimento del tentavo di conciliazione davanti al Co.Re.Com. ai sensi dell'art. 1, comma 11, l. n. 249/1997, nondimeno proponendo a sua volta nel merito una domanda riconvenzionale di adempimento del medesimo contratto. L'attore, per altro verso, su propria iniziativa aveva provveduto all'esperimento del tentativo di conciliazione nel corso del procedimento e, quindi, in data successiva a quella di proposizione della domanda. La questione
Come deve essere interpretata la previsione che sancisce l'esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione in relazione alle controversie in materia di comunicazione elettronica? È sempre necessario che il tentativo di conciliazione aventi al Co.Re.Com. venga effettuato prima dell'esercizio dell'azione e dell'instaurazione del procedimento giudiziale? Ovvero tale tentativo può essere svolto dopo l'instaurazione del processo, su ordine del giudice o su iniziativa della stessa parte attrice? Le soluzioni giuridiche
Secondo il provvedimento del Tribunale di Milano, il mancato esperimento del tentativo di conciliazione comporta l'improponibilità – insanabile – della domanda giudiziale e la definizione anticipata in rito per tale ragione del processo. In particolare, la rigorosa posizione assunta dal Tribunale ambrosiano su tale questione poggia – oltre che sul dato letterale della disposizione che sancisce l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, secondo cui «non può proporsi ricorso giurisdizionale» in assenza dello svolgimento di tale tentativo (art. 1, comma 11, l. n. 249/1997) – sui principi costituzionali in materia processuale e sulla citata disposizione dell'art. 34 DIR 22/2002, come interpretata dalla sentenza Alassini c. Telecom Italia della Corte di Giustizia (C. Giust. UE, 18 marzo 2010, C-317/08), di cui vengono riportati ampi stralci nella motivazione. Nel dictum appena citato la Corte di Giustizia, infatti, ha affermato che le menzionate previsioni della direttiva europea non ostano alla introduzione nell'ordinamento nazionale di «un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione di ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali» in relazione ai servizi di comunicazione elettronica, avendo riguardo proprio alla disciplina italiana di cui all'art. 1, comma 11, l. n. 249/1997. In proposito i Giudici europei hanno sottolineato che il principio di effettività della tutela giurisdizione ammette delle limitazioni in vista del perseguimento dello «scopo di una definizione più spedita e meno onerosa delle controversie in materia di comunicazioni elettroniche, nonché un decongestionamento dei tribunali, [ossia] legittimi obiettivi di interesse generale». Il Giudice milanese trae conferma da tali considerazioni che la ratio della disciplina del tentativo di conciliazione obbligatoria in materia sia precipuamente deflattiva, osservando poi di ritenere «evidente che l'intento deflattivo in parola è raggiunto compiutamente se – e soltanto se – il tentativo di conciliazione obbligatorio avvenga prima dell'incardinamento della vertenza giurisdizionale. / Diversamente opinando, difatti, lo scopo della disposizione potrebbe essere agevolmente e maliziosamente vanificato, svolgendo l'azione giurisdizionale con la volontaria omissione del tentativo di conciliazione, e curando si svolgerlo (in sanatoria) solo nel caso in cui l'omissione sia eccepita dall'avversario o rilevata d'ufficio dal Giudice. / Non solo: se si accedesse all'opzione ermeneutica dell'improcedibilità, sostenuta dall'odierna Attrice, verrebbe ad essere vanificata anche l'utilità del tentativo di conciliazione in sé (ed anche la possibilità di successo dello stesso), sia per le parti (che non conseguirebbero alcun risparmio delle spese di lite dalla conciliazione, avendo già instaurato la causa) sia per il sistema giudiziario, posto che la causa sarebbe stata – oramai – introdotta. / Peggio: l'opzione ermeneutica dell'improcedibilità appare anche idonea ad appesantire il singolo procedimento (determinando la necessità della sospensione del processo) e, quindi, il complessivo carico del sistema giudiziario». Tale soluzione – ritiene sempre il Tribunale milanese – troverebbe un definitivo avallo nel riferimento all'art. 111 Cost., in relazione al c.d. “principio” della ragionevole durata del processo. Pertanto, non si ritiene di concludere per la sanabilità attraverso l'esperimento del tentativo in corso di causa, da ammettere solo nei casi in cui sia prescritta la “procedibilità”, nonostante la Corte costituzionale in proposito abbia dato chiare indicazioni circa la possibilità d'interpretare secondum Constitutionem la disciplina in parola, nel senso che essa preveda una mera condizione di procedibilità (cfr. C. cost., ord. 24 marzo 2006, n. 125) e malgrado la diversa previsione contenuta nella delibera Agcom n. 597/2011, la quale in seguito all'introduzione della mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali qualifica il tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di comunicazioni elettroniche appunto come condizione di procedibilità. Ed infine viene disatteso il precedente di recente adottato sulla questione dalla Suprema Corte (Cass. civ., 4 dicembre 2015, n. 24711; analogamente Cass. civ., 2 settembre 2015, n. 17480; Cass. civ., 27 giugno 2011, n. 14103) secondo cui l'esperimento del tentativo di conciliazione in corso di causa in materia di servizi di comunicazione elettronica determina una sanatoria del suo mancato preventivo svolgimento. Secondo la S.C. è centrale il rilievo secondo cui in costanza di un «tentativo in concreto effettuato dalle parti, difetta del tutto l'interesse della ricorrente a conseguire una pronuncia di legittimità che accerti la facoltatività del tentativo di conciliazione esperibile dinanzi al diverso organo conciliativo, ai sensi della Delibera n. 182 del 2002, in difetto dell'istituzione del Co.Re.Com competente, dinanzi al quale effettuare il tentativo obbligatorio previsto dall'art. 3 della Delibera succitata. E ciò, in considerazione del fatto che … tale esperito tentativo di conciliazione in corso di causa vale comunque ad escludere che la domanda proposta … in giudizio possa essere considerata inammissibile» (così Cass. civ., 4 dicembre 2015, n. 24711). Sul punto si è, infatti, rilevato che la locuzione «condizione di ricevibilità del ricorso» utilizzata dalla decisione europea Alassini c. Telecom Italia non può essere intesa in senso tecnico e riferita alla previsione di una previsione d'improponibilità, non senza rammentare che per giurisprudenza consolidata della stessa Corte di Giustizia spetta a ciascun ordinamento nazionale stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti, nel rispetto del principio dell'effettività della suddetta tutela, nonché i precedenti della Corte costituzionale favorevoli a considerare la diposizione sul tentativo di conciliazione in materia una mera condizione di procedibilità. Tuttavia, il Tribunale di Milano ha espressamente rigettato le motivazioni del citato precedente della Cassazione, ritenendo prevalente la finalità deflattiva della condizione di proponibilità della domanda. Osservazioni
Uno dei più importanti aspetti della disciplina dei rapporti tra procedura conciliativa obbligatoria e processo attiene proprio alla determinazione delle conseguenze relative al mancato esperimento del tentativo di conciliazione sul processo. In materia – come noto – non è stabilito un regime generale in relazione alle diverse ipotesi di conciliazione obbligatoria ed, al contrario, di caso in caso il legislatore sembra stabilire che dall'esperimento del tentativo dipenda talora la proponibilità, talora la procedibilità del processo. La giurisprudenza in alcuni casi sminuisce il rilievo delle accennate differenze normative. Ciò è avvenuto – limitando lo sguardo alla giurisprudenza di legittimità – proprio a proposito dell'applicazione della disciplina del tentativo di conciliazione stabilito per le controversie in materia di telecomunicazioni di cui all'art. 1, comma 11, l. n. 249 del 1997, ove è sancito che le controversie individuate dall'Autorità garante per le telecomunicazioni «non può proporsi ricorso in sede giurisdizionale fino a che non sia stato esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione da ultimare entro trenta giorni dalla proposizione dell'istanza all'Autorità». La Cassazione ha, quindi, sancito in più occasioni che tale obbligo deve intendersi prescritto per la temporanea procedibilità della domanda giudiziale; pertanto, in caso di mancato esperimento della conciliazione il giudice di primo grado o di appello devono sospendere il procedimento, assegnando – ove necessario – un termine per il compimento del tentativo, restando salvi al momento della prosecuzione del processo gli effetti sostanziali e processuali della domanda irritualmente proposta, rimettendo alle parti e al prudente apprezzamento del giudice di valutare l'opportunità di procedere alla rinnovazione degli atti istruttori già compiuti. Mentre – come si è accennato – il mancato esperimento della procedura conciliativa prima dell'istaurazione del processo diviene irrilevante nel caso in cui il tentativo di conciliazione venga effettuato successivamente (e senza successo) su iniziativa della parte attrice. Non sempre tuttavia i precedenti giurisprudenziali sono altrettanto aperti in relazione alla possibilità di una sanatoria. Ciò è dirsi non solo in relazione a quanto sancito da parte del Tribunale di Milano nel provvedimento in commento, bensì anche dalla stessa Cassazione, ad es., a proposito del tentativo di conciliazione in relazione alle controversie relative ai contratti agrari, ove l'art. 46 l. n. 203 del 1982 prevede che «chi intende proporre in giudizio una domanda relativa a una controversia (…) è tenuto a darne comunicazione, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, dall'altra parte e all'ispettorato provinciale dell'agricoltura competente per il territorio», al quale spetta di convocare entro venti giorni le parti e i rappresentanti di categoria per l'esperimento del tentativo di conciliazione. Diversamente da quanto statuito a proposito del tentativo di conciliazione in materia di telecomunicazioni, in proposito la Cassazione ha ritenuto che la necessità dell'esperimento della conciliazione prima del processo comporti che in caso di mancato svolgimento del tentativo prima del processo, il giudice del merito debba anche d'ufficio rilevare tale difetto, definendo la causa con sentenza dichiarativa d'improponibilità, nell'impossibilità di applicare le regole approntate in relazione alla disciplina dei tentativi di conciliazione relativi ad altre materie (cfr., da ultimo, Cass. civ., 23 aprile 2015, n. 8306). Nei casi considerati la soluzione giurisprudenziale più restrittiva riguardo al regime di sanatoria applicabile al tentativo di conciliazione è legata essenzialmente al dato letterale, che fa riferimento al procedimento di conciliazione quale condizione per la “proposizione” della domanda. Anche il provvedimento del Tribunale di Milano utilizza l'argomento letterale, cercando tuttavia conferme nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e in relazione ad altre considerazioni sistematiche. Tuttavia, nessuno dei menzionati argomenti risulta convincente. Il passaggio nella cit. sentenza Alassini c. Telecom Italia,in cui il tentativo di conciliazione viene qualificato come “condizione di ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali”, non può certo interpretarsi nel senso che l'insanabilità del tentativo di conciliazione costituisca l'unica interpretazione consentita in base alle disposizioni europee, trattandosi peraltro di un aspetto riguardante l'esercizio dell'azione e la disciplina del procedimento, ossia di una materia riservata alla legge degli Stati membri, rispetto alla quale è consentito solo eccezionalmente il sindacato da parte degli organi giurisdizionali europei, cioè ove sia configurabile un'eccessiva e sproporzionata gravosità dei limiti posti all'accesso alla tutela giurisdizionale. Risulta – pertanto – del tutto incongruo sostenere una linea interpretativa diretta a limitare con rigore l'esercizio dell'azione in materia di contratti aventi ad oggetto servizi di telecomunicazione, attraverso un richiamo alla giurisprudenza della Corte lussemburghese. Troppo generico sembra, inoltre, il riferimento al precetto della ragionevole durata del processo: precetto peraltro che nel caso di specie viene applicato in modo formalistico. La declaratoria d'improcedibilità non esclude la riproposizione della domanda, una volta realizzata la condizione del compimento del tentativo di conciliazione, ed anzi apre alla (inutile) duplicazione di attività processuale, quantomeno relativamente alla fase introduttiva del processo già svolta. In ogni caso, appare sopravvalutata la finalità deflattiva delle procedure conciliative in relazione al processo; soprattutto se è presa in considerazione isolatamente e non in funzione del più generale obiettivo di effettività della tutela giurisdizione, il quale deve essere colto soprattutto nella prospettiva individuale del soggetto che è portatore del bisogno di tutela giurisdizionale. Del resto, la Corte Costituzionale ha chiarito che la previsione delle procedure obbligatorie di conciliazione debba essere messa più precisamente in relazione con l'interesse generale al soddisfacimento più immediato delle situazioni sostanziali realizzato attraverso la composizione preventiva della lite rispetto a quello conseguito attraverso il processo (cfr., ad es., C. cost, 13 luglio 2000 n. 276 e C. cost., 30 novembre 2007 n. 403). L'interesse preminente – in altre parole – non è quello delle corti ad evitare nella necessità di procedere alla trattazione e alla decisione delle controversie, bensì della stessa parte, la quale in tal modo viene autoritativamente guidata allo svolgimento di un tentativo finalizzato al migliore perseguimento del soddisfacimento al quale aspira tramite il ricorso alla tutela giurisdizionale. Tale rilievo è confermato da quanto osserva la Corte Costituzionale a proposito delle finalità proprie della procedura conciliativa, in quanto si evidenzia correttamente che essa è diretta principalmente ad assicurare un “elevato livello di protezione dei consumatori e [a] promuovere la fiducia dei consumatori” (così C. cost. n. 403/2007; richiamata da C. cost. n. 51/2009). A supporto della soluzione adottata dal Tribunale di Milano rimane perciò solo l'argomento letterale, che tuttavia, preso isolatamente, non sembra particolarmente efficace. Ed anzi tale argomento perde del tutto la sua forza alla luce delle più valide considerazioni sistematiche. In proposito valga la notazione svolta dalla Suprema Corte nella sent. Cass. civ., 4 dicembre 2015, n. 24711, dal solo punto di vista rilevante, ossia quello degli interessi delle parti del processo: una volta effettuata senza successo la procedura di conciliazione, anche dopo l'instaurazione del procedimento e su iniziativa dell'attore, quale finalità può giustificare l'eccezione dell'operatore dei servizi di telecomunicazione, diretta ad avvalersi dell'originario difetto della condizione di proponibilità? In realtà, nessuno: o meglio nessun interesse meritevole di considerazione da parte dell'ordinamento. |