Lo “stallo” nell’accertamento del nesso causale: la soluzione della Cassazione
28 Gennaio 2015
Massima
Cass. civ. sez. III, 30 settembre 2014, n. 20547 «Laddove la morte del paziente sia tecnicamente riconducibile a più fattori dotati di pari efficacia eziologica, tra cui figuri anche la condotta negligente del sanitario, e non sia possibile stabilire quale di essi abbia effettivamente provocato l'evento, la situazione di stallo in punto nesso causale va risolta in base alle regole sul riparto degli oneri. Ne consegue che l'incertezza graverà sul debitore convenuto (medico / ente ospedaliero) che sarà ritenuto responsabile laddove non abbia provato che il proprio inadempimento non ha provocato il decesso».
Sintesi del fatto
Nell'ambito della struttura ospedaliera di D., la signora M. O. viene sottoposta ad endoscopia da parte del Dott. P.; nel corso dell'esame (non correttamente eseguito), si verifica un'ampia lacerazione del duodeno, che rende necessario un successivo intervento di suturazione; dopo qualche giorno, la paziente muore. Il marito ed i figli della signora citano in giudizio l'ente ed il medico chiedendo il risarcimento dei danni iure proprio (per la perdita del congiunto) e iure hereditario. Gli accertamenti peritali disposti in corso di giudizio non sono risolutivi perché – secondo il CTU – il decesso potrebbe essere dipeso, con identico grado di possibilità, dall'errore del sanitario o da una pregressa “causa naturale”. Il Tribunale rigetta le pretese, ritenendo non provato il nesso causale tra la condotta del Dott. P. e l'exitus; la Corte d'Appello conferma tale decisione. Gli attori ricorrono dunque in Cassazione censurando la sentenza sotto più profili (tra cui anche quello relativo al “consenso informato”; argomento, questo, che avendo – nell'economia della pronuncia – rilievo meno centrale, non verrà trattato in queste brevi note). La questione
Nel caso in esame è pacifico che vi è stato un inadempimento del medico (maldestra esecuzione dell'esame endoscopico). E', tuttavia, incerta la causa della morte. Il CTU ha infatti prospettato due ipotesi, che si pongono sullo stesso piano (in termini di astratta efficacia eziologica, ossia di autonoma capacità di produrre l'evento). Invero, il decesso potrebbe essere dipeso:
Dato che non è tecnicamente possibile stabilire se l'evento sia derivato dall'uno piuttosto che dall'altro dei due fattori, si è di fronte ad un vero e proprio «stallo» - così si esprime la Corte. Resta allora da chiedersi come superare il problema; per consentire il recupero dell'assetto di volo (si perdoni la metafora), è necessario che qualcuno abbandoni l'aeromobile: ma chi dovrà subire le conseguenze di tale scelta? Soluzioni giuridiche
La Cassazione non ha dubbi. La questione va risolta applicando il principio posto dalle Sezioni Unite con la nota pronuncia n. 577/2008: il paziente danneggiato deve provare il contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia, ed allegare un inadempimento astrattamente idoneo a provocare l'evento lesivo. Rimane a carico del debitore dimostrare che la propria condotta negligente non ha avuto efficacia eziologica (perché sono intervenuti altri fattori indipendenti che hanno provocato l'esito infausto). Ne deriva che laddove siano astrattamente ipotizzabili più “cause” dotate di «un identico grado di possibilità» - come afferma la Corte –, le conseguenze dello «stallo» dovranno gravare sul debitore ( medico / struttura) che non sia riuscito ad assolvere il proprio onere. Calando la regola entro le coordinate del caso di specie, la soluzione appare lineare: l'inadempimento del Dott. P. era pacifico (perforazione del duodeno nel corso di maldestra esecuzione di esame endoscopico) ed astrattamente idoneo a provocare l'evento (tanto da essere considerato dallo stesso CTU come una delle possibili cause della morte). Spettava dunque ai convenuti dimostrare che il decesso aveva avuto altra e diversa “genesi” (non correlata al proprio operato): ma tale onere risultava pressoché diabolico perché l'unico fattore alternativo a cui era - astrattamente – riconducibile l'exitus (il preesistente scompenso cardiaco) aveva esso stesso un «identico grado di possibilità». In altri termini: per essere “liberati”, il sanitario e l'azienda ospedaliera avrebbero dovuto provare che era “più probabile che non” (secondo il criterio consacrato da Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619 ) che il decesso fosse dipeso dalla causa naturale pregressa piuttosto che dalla condotta imperita (ma ciò non era sostenibile, avendo la CTU assegnato ad entrambe pari “efficacia eziologica”). I rilievi svolti dalla Cassazione – per come sin qui riportati – si incentrano dunque sulla regola generale di riparto degli oneri probatori nell'ambito della cd. responsabilità sanitaria; può essere peraltro interessante osservare che – da quel che par di comprendere leggendo la sentenza – il profilo in questione non era stato (almeno direttamente ed esplicitamente) considerato dai ricorrenti; i congiunti della signora M. O. non avevano denunciato la violazione o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., quanto piuttosto la insufficienza /contraddittorietà della motivazione in ordine alla valutazione di alcune circostanze di fatto (relative al decorso post-operatorio), nonché alla omissione di accertamenti diagnostici post mortem. In particolare, i danneggiati avevano evidenziato che, essendo dubbia la causa del decesso, i sanitari avrebbero dovuto (per come stabilito dal regolamento di polizia mortuaria) disporre l'autopsia, che avrebbe consentito di fare luce sul punto. La decisione della Corte d'Appello appariva quindi – secondo i ricorrenti - antinomica laddove, da un lato, ammetteva che vi era incertezza sui fattori che avevano provocato la morte e, dall'altro, reputava giustificata la scelta dei medici di non eseguire l'esame necroscopico. Questo specifico aspetto viene affrontato dalla Cassazione solo in seconda battuta e quasi per “completare” l'impianto argomentativo; come si è visto sopra, invero, la Corte ritiene anzitutto di dover chiarire (forse allargando l'indagine oltre i motivi dedotti) che il giudice del merito «non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi in tema del riparto probatorio» posto che avrebbe dovuto porre l'incertezza del nesso a carico dei convenuti (e non degli attori). Poi (“recuperando” le doglianze dei danneggiati) aggiunge che «in questa ottica rileva anche la mancanza di un'autopsia, pur in presenza di un'assunta non certezza della causa della morte, e la non corretta tenuta della cartella clinica». Gli Ermellini richiamano allora sul punto il principio secondo cui, in sostanza, il nesso causale si presume se l'impossibilità di accertarne l'esistenza (cioè di stabilire se l'evento sia derivato dalla condotta del sanitario piuttosto che da un altro fattore dotato, in tesi, di pari efficacia eziologica) sia dipesa dalla non disponibilità di dati che lo stesso medico avrebbe dovuto annotare e/o di accertamenti che egli avrebbe dovuto compiere (Cass. 13 settembre 2000, n. 12103). A ben vedere, tale regola si pone in una prospettiva differente (e non convergente) rispetto a quell'altra enunciata in exordium nella sentenza in esame. In altri termini, se si muove dall'idea secondo cui il paziente deve solo allegare un inadempimento “astrattamente idoneo” (come appunto sottolineato in prima battuta dalla pronuncia annotata), non occorre neppure “scomodare” la questione della incompletezza della documentazione clinica: la causa potrà essere decisa – a favore della vittima- per il sol fatto che il convenuto non abbia assolto il proprio onere (non abbia cioè provato che l'evento è dipeso da altri fattori, indipendenti dalla propria condotta negligente. Ed è anzi assai probabile che tale incombente risulti, per il sanitario stesso, davvero diabolico proprio a causa della lacunosità dei riscontri diagnostici di cui dispone). Il principio che fa leva sulle insufficienze/mancanze della cartella clinica e/o degli accertamenti opera, si diceva, su un terreno diverso perché postula (o comunque è stato elaborato dalla giurisprudenza sul presupposto) che sia il danneggiato a dover dimostrare il nesso causale e che tuttavia egli non possa riuscirvi in ragione di omissioni imputabili ai medici ovvero alla struttura ospedaliera; da qui il dictum per cui tali lacune non possono mai ridondare in danno del paziente (Cass. 13 settembre 2000, n. 12103). Oggi, dunque, alla luce della opposta regola probatoria enunciata da Cass. S.U. n. 577/2008 e ribadita dalla sentenza in esame , tale principio dovrebbe – almeno in teoria - ritenersi superato ed assorbito o, comunque, potrebbe essere utilizzato, per così dire, solo ad colorandum (per rafforzare la conclusione in punto sussistenza del nesso), o in via di subordine. Nei limiti consentiti dallo spazio di queste note, si possono formulare alcune osservazioni: si tratta di brevi spunti critici che meriterebbero maggiore approfondimento e che , per comodità, vengono di seguito illustrati “per punti”.
a) Il modo di intendere il nesso causale e le “istanze sociali”. In una prospettiva “allargata”, ci si può chiedere se, attraverso il gioco del riparto degli oneri, il nesso di causa non finisca, in pratica, con l' “evaporare”. In altri termini, nel caso esaminato dalla pronuncia in questione, la scienza medico legale non è in grado di dare risposte, non può dire, neppure in termini di probabilità, se la morte sia dipesa o no dalla condotta dei sanitari. Cionondimeno, il danneggiato ottiene soddisfazione delle proprie ragioni, grazie alla applicazione di una regola – tutta giurisprudenziale, e relativamente “recente” – che porta a distribuire il carico probatorio in un determinato modo. Solo per inciso: il “vecchio” principio secondo cui il paziente doveva dimostrare il rapporto eziologico è stato “ribaltato” da Cass. S.U. n. 577/2008 sulla base dei seguenti rilievi: «Il punto relativo alla prova del nesso non può essere condiviso poiché esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata (..).Sotto il profilo dell'onere della prova, la distinzione (..) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombeva l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile» (Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, n. 577). In sostanza secondo l'orientamento tradizionale, posto che nelle obbligazioni di mezzi (come quella del medico) il risultato è aleatorio (può esserci o meno indipendentemente dal corretto operare del sanitario), al paziente si chiedeva di dimostrare che l'evento lesivo era dipeso proprio dall'errore del professionista (anziché dalla “sorte”). Secondo le Sezioni Unite, tale principio deve essere rivisto, perché la classica dicotomia su cui esso si fonda deve oggi ritenersi superata. E tuttavia, invertendo l'onere (non è più il malato che deve provare il nesso; è il medico che deve dimostrarne l'inesistenza), Cass. n. 577/2008 arriva, nei fatti, a cancellare il presupposto su cui la regola precedente si fondava, ossia a negare che il “risultato (della prestazione sanitaria) sia aleatorio”; il che significa, in pratica, dare per scontato che la medicina è una scienza esatta, non ha limiti e può guarire sempre (il che, purtroppo, non è). Il fatto è che, come autorevolmente rilevato (Zeno Zencovich, Nesso causale, una prospettiva gius-realista, n. 7 – 2008 – D & Innovazione), il modo di intendere il rapporto causale varia in ragione dei mutamenti economici e sociali, del progresso nelle conoscenze scientifiche, della materia alla quale si applica; la costruzione delle regole che presiedono al suo accertamento, ivi comprese quelle in punto prova, risente delle funzioni che in concreto si vogliono assegnare alla “giustizia” e, quindi, alla responsabilità civile :«Dimmi che regole causali utilizzi, e ti dirò che giudice sei parrebbe un appropriato adattamento del proverbio. Proprio perché le teorie causali sono funzionali all'amministrare una giustizia giusta, da esse comprendiamo il ruolo che il giudice intende avere nella società. Il formalismo piuttosto che l'attivismo, il “medico della società” piuttosto che l'attento allocatore di risorse, il “judicial self restraint” piuttosto che il servitore della legge», Zeno Zencovich, cit.. Ed è allora comprensibile che, più aumentano le istanze sociali “di protezione” (qui, di tutela della salute e del paziente in quanto tale, percepito come soggetto “debole”) più è forte la tendenza verso la “fuga dalla causalità” :«Il mero accadimento fa sorgere una presunzione di responsabilità ed obbliga al risarcimento. Tale presunzione varia di intensità, ma trova il suo più forte alleato nell'inversione dell'onere della prova. Senza scomodare ricostruzioni filosofiche, provare l'inesistenza di un nesso causale (ovvero di ogni diversa causa) è ben più difficile che provare la sua esistenza. Il presunto danneggiante si batterà solo in quei casi in cui ritiene di avere qualche ragionevole probabilità di fornire la probatio diabolica. Negli altri casi lascerà il campo all'avversario e si limiterà a tentare di ridurre i danni», Zeno Zencovich cit.. Ma questa progressiva deriva (anche a fronte di risorse economiche limitate) rischia di portare il sistema al collasso (sia consentito rinviare a M. Hazan, D. Zorzit, Assicurazione obbligatoria del medico e responsabilità sanitaria, Giuffrè, 2013, pp. 5 ss.).
b) Il riparto degli oneri in tema di inadempimento e i “terzi” danneggiati. Potrebbe aggiungersi che nel caso in esame la regola del riparto dell'onere della prova (per come “perfezionata” da Cass. n. 577/2008) viene applicata a soggetti che, verosimilmente, non erano “parti” (il rapporto obbligatorio intercorreva solo tra la paziente poi deceduta e l'ospedale, e - in forza del “contatto sociale”- tra quest'ultima e il medico). Verrebbe allora da chiedersi se si possa disinvoltamente (ed implicitamente) estendere il principio anche a chi è estraneo a detto vincolo (cioè ai congiunti che chiedono il risarcimento iure proprio, rispetto ai quali teoricamente non può configurarsi un “inadempimento” non essendo essi creditori della prestazione). E qui si apre un altro grande tema, quello della “tenuta”, della giustificazione dogmatica del cd. “contratto con effetti protettivi a favore del terzo” che, seppur “sdoganato” dalla Cassazione, ha incontrato, anche di recente, qualche resistenza ( si veda per es. Cass. n. 8 maggio 2012, n. 6914, nel Focus “Il contratto con effetti protettivi a favore del terzo” in Ri.Da.Re.).
c) I riflessi della Legge Balduzzi sulla prova del nesso causale, anche alla luce delle più recenti sentenze di merito. Alla luce della nota pronunzia del Tribunale di Milano 23 luglio 2014, n. 9693 (G. U. Dott. Gattari), viene da chiedersi se il quadro tratteggiato dalla Cassazione nella sentenza in esame possa essere mantenuto fermo anche dopo l'entrata in vigore della Legge Balduzzi (l. n. 189/2012). La risposta dovrebbe essere negativa, almeno se si sposa l'interpretazione dell'art. 3 della Legge 8 novembre 2012 n. 189 che vede nel richiamo all'art. 2043 c.c. un ritorno alla responsabilità aquiliana (per il medico cd. strutturato): in tale ottica, non dovrebbe esservi dubbio alcuno circa il fatto che il paziente che voglia ottenere il risarcimento dal sanitario abbia (questa volta sì) l'onere di dimostrare il nesso. Nel caso, allora, in cui l'evento lesivo sia astrattamente riconducibile a più fattori tutti dotati di pari efficienza eziologica, potrebbe esservi il rischio di decisioni contrastanti: la domanda potrebbe essere accolta contro l'ospedale e rigettata verso il professionista (e pure l'eventuale azione di regresso contestualmente esperita dalla struttura - laddove per es. si tratti di casa di cura privata –dovrebbe incontrare la medesima sorte negativa). Una “scappatoia” per il danneggiato potrebbe però essere data dalla incompletezza della cartella clinica: qui la regola (più sopra ricordata) che porta a presumere il nesso si rivelerebbe di grande aiuto per l'attore che potrebbe così ottenere soddisfazione delle proprie ragioni (anche) contro il medico.
d) I precedenti. Può essere utile ricordare che un caso praticamente sovrapponibile a quello esaminato dalla sentenza qui annotata venne deciso da Cass. 16 gennaio 2009, n. 975: anche qui vi era incertezza sul nesso causale (non era possibile stabilire se il decesso del paziente fosse dipeso dall'imperizia del chirurgo piuttosto che da pregresse cause naturali, presentandosi entrambe come potenziali “candidate”) e tuttavia, la Cassazione escogitò una soluzione “proporzionale” che suona così: il medico dovrà risarcire il danno solo per la parte che potrebbe essere ascritta alla sua condotta, da individuarsi in base ad una valutazione equitativa (il che, nell'incertezza, dovrebbe condurre ad un frazionamento al 50%). Tale impostazione è stata però successivamente stigmatizzata da Cass. 21 luglio 2011, n. 15991, che ha posto in luce come siano inammissibili soluzioni «in salsa equitativa» perché il nesso di causa o c'è oppure no, tertium non datur; tale ultima pronuncia evidenzia che il dubbio (sulla sussistenza del rapporto causale) va risolto attraverso le regole del riparto degli oneri (e in quest'ultimo senso si muove la sentenza qui annotata, che appunto pone l'incertezza a carico del medico convenuto).
Queste brevi riflessioni mirano a porre in evidenza come l'accertamento del nesso (almeno nell'ambito dei giudizi di responsabilità sanitaria) risponda a regole probatorie che, da un lato, si presentano come opinabili e, dall'altro, comunque non appaiono costanti e uniformi (tant'è che nel giro di pochi anni princìpi prima indiscussi sono stati “ribaltati”). Ma anche oggi il quadro giurisprudenziale non è affatto univoco. Al di là dei problemi che l'interpretazione della Legge Balduzzi (l. n. 189/2012) potrà porre, non si può fare a meno di notare che in seno alla stessa Cassazione si registra un contrasto di opinioni: così, se la pronuncia in commento si allinea a Cass. n. 577/2008 (e a molte altre, Cass. 30 dicembre 2011, n. 30267; Cass. 1 febbraio 2011, n. 2334; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17143; Cass. 8 giugno 2012 n. 9290; Cass. 12 settembre 2013, n. 20904; Cass. 12 dicembre 2013, n. 27855; Cass. n. 11363/2014; Cass. n. 21025/2014), vi sono tuttavia altre decisioni che restano fedeli al passato, nel senso che affermano che spetta comunque al paziente dimostrare il rapporto eziologico tra l'evento lesivo e la condotta del sanitario (Cass. 11 maggio 2009, n. 10743; Cass. 24 febbraio 2011, n. 6744; Cass. 27 novembre 2012, n. 20996; Cass. n. 18341/ 2013; Cass. n. 19873/2013). Tutto ciò si traduce – come è comprensibile – in grande incertezza per gli operatori, e favorisce l'allontanamento dal mercato delle Compagnie assicurative (a fronte di rischi che sono difficilmente calibrabili a priori). |