Reato (risarcimento del danno da)
06 Luglio 2016
Inquadramento BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE La disciplina relativa al risarcimento del cosiddetto “danno da reato” presenta una natura duplice, dal momento che fa riferimento all'ordinamento penale per l'individuazione del suo presupposto, e a quello civile per la definizione delle conseguenze. L' art. 185 c.p. nel sancire il principio di risarcibilità di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, cagionati da un illecito penalmente rilevante è norma autonoma e speciale rispetto all'art. 2043 c.c.: autonoma in quanto, com'è previsto dall'art. 198 c.p., l'estinzione del reato non implica, di per sé, l'estinzione dell'obbligazione risarcitoria che ne sia scaturita; speciale poiché prevede espressamente anche il ristoro dei pregiudizi di natura non patrimoniale. Si tratta di un pregiudizio concettualmente diverso da quello insito nell'offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice (cosiddetto “danno criminale”), tant'è che il soggetto danneggiato dal reato può, ma non deve necessariamente, coincidere con la persona offesa stricto sensu intesa, ossia con il titolare dell'interesse leso dall'illecito. I requisiti imprescindibili di rilevanza giuridica del danno da reato sono, dunque, la sua «ingiustizia» (per la cui definizione si rinvia all'analisi dell'art. 2043 c.c.), e la sua «derivazione, immediata e diretta dal reato», inteso come fatto tipico, antigiuridico, colpevole e punibile. In presenza di entrambi questi profili, il pregiudizio risarcibile può assumere sia contenuto patrimoniale – in termini di perdita subita ovvero di mancato guadagno – sia non patrimoniale.
Il presupposto oggettivo del danno da reato Mentre per quel che concerne gli elementi oggettivi e soggettivi che integrano il danno in questione è sufficiente rinviare alla disciplina generale, per come ormai ampiamente declinata nella prassi giurisprudenziale, la sua cifra distintiva coincide con il presupposto per il risarcimento, rappresentato dalla sua oggettiva derivazione da un fatto di reato. Tuttavia, per la sussistenza di un danno da reato meritevole di tutela risarcitoria non serve che il suddetto presupposto sia stato accertato in concreto, in relazione a tutti i suoi elementi costitutivi, ma è sufficiente riconoscere una fattispecie incriminatrice a cui astrattamente ricondurre, in un rapporto causa – effetto, il pregiudizio concretamente patito dal danneggiato. Ecco perchè la Corte Costituzionale, nella sentenza C. Cost., 30 giugno 2003, n. 233, ha ribadito la legittimità dell'art. 2059 c.c. - in relazione al richiamo implicitamente contenuto all'art. 185 c.p., quale ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale espressamente prevista dalla legge – evidenziando come «il riferimento al “reato” contenuto nell'art. 185 c.p., in coerenza con la diversa funzione assolta dalla norma impugnata, non postula più, come si riteneva per il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all'astratta previsione di una figura di reato. Con la conseguente possibilità che, ai fini civili, la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge». Invero, seguendo il ragionamento della Consulta posto alla base dell'ormai unanime giurisprudenza sulla materia, un'insopprimibile esigenza di “complessiva coerenza di sistema”, che cioè tenga conto dei contenuti e degli obiettivi sottesi all'attribuzione della responsabilità civile, impone di assicurare la risarcibilità del danno non patrimoniale a prescindere dall'accertamento in rerum natura di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa da cui esso sia derivato, poiché è prioritaria la necessità di ristorare eventualmente la lesione di diritti fondamentali patita dalla persona offesa.
La prova del danno da reato L'onere della prova circa la sussistenza e la riferibilità al danneggiante del pregiudizio lamentato in correlazione a una fattispecie di reato spetta al danneggiato nell'ambito dell'azione risarcitoria esperita in sede civile, in coerenza con le regole probatorie e di giudizio che governano tale paradigma processuale. Pur nel rispetto di questa impostazione generale, l'origine peculiare del danno in questione consente all'onerato di avvalersi degli esiti dell'accertamento eventualmente esperito in via prioritaria in sede penale, sia in ordine all'illecito sia rispetto a colui che debba risponderne, riducendo così il suo onere processuale alla prova circa la quantificazione del danno patito, con riguardo alle singole voci eventualmente ravvisabili, in termini di pregiudizio patrimoniale ovvero non patrimoniale. Sotto questo profilo, la giurisprudenza di legittimità ha, in più occasioni, ribadito il contenuto e i limiti della utilizzabilità degli esiti cognitivi raggiunti nel giudizio penale all'interno dell'azione risarcitoria civile, inerente ai danni prodotti dai reati accertati: «la sentenza del giudice penale che, accertando l'esistenza del reato, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all'affermata responsabilità dell'imputato, che non può più contestarne i presupposti (quali, in particolare, l'accertamento della sussistenza del fatto reato), nonché alla "declaratoria iuris" di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni. (Cass., sez. III, 27 agosto 2014, n. 18352: in applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione con cui il giudice di merito aveva escluso la sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno da lottizzazione abusiva, lamentato dal Comune nel cui territorio risultava avvenuto l'illecito insediamento, atteso che la sentenza penale di condanna aveva proprio riconosciuto al Comune, costituitosi parte civile, la legittimazione ad agire per il ristoro del danno ambientale, provvedendo anche alla identificazione dello stesso e disponendo la condanna dell'imputato al risarcimento, sebbene da liquidarsi in sede civile). Così anchela sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. , pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall'onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. (Cass., sez. L., 29 febbraio 2016, n. 3980: nella specie, relativa ad una richiesta di rendita per un infortunio in itinere, la Corte ha confermato la sentenza di rigetto che aveva ritenuto idonea ad interrompere il nesso causale tra evento ed attività lavorativa la condotta del lavoratore che aveva patteggiato la pena per il reato di danneggiamento ai danni dell'altra vettura coinvolta nel sinistro stradale). Un simile evidente “alleggerimento” dell'onere probatorio posto a carico del danneggiato – attore nell'ambito del processo civile si pone a garanzia di un'esigenza di equilibrio di sistema, in quanto l'azione civile promossa nel processo penale per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, implica, per scelta del soggetto danneggiato che abbia deciso di esercitarla costituendosi parte civile nel processo penale, l'accertamento dell'esistenza di un fatto di reato, in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, alla luce delle norme che regolano la responsabilità penale, ossia secondo lo schema, ben più stringente, imposto dal processo penale, governato dalla regola probatoria e di giudizio dell'oltre ogni dubbio ragionevole (cfr. Cass., sez. IV, 1 luglio 2015; analogamente v. pure, ex pluribius, Cass., sez., IV, 10 febbraio 2015, n. 11193). Criteri di liquidazione I criteri di liquidazione del danno da reato corrispondono a quelli applicati dalla giurisprudenza in relazione al tipo di danno lamentato e accertato in sede processuale. Tuttavia, il peculiare presupposto oggettivo per la configurazione di questo genere di pregiudizi determina il più ampio spazio lasciato al paradigma equitativo di valutazione del quantum risarcibile. Ciò soprattutto quando il giudice è chiamato a quantificare il risarcimento rispetto a pregiudizi lamentati da soggetti diversi rispetto alle vittime del reato. In questi casi, ferma restando la necessità dell'accertamento processuale di un nesso di derivazione immediata e diretta del danno patito dall'illecito, l'apprezzamento circa la sua effettiva consistenza è inevitabilmente affidato a criteri di giustizia sostanziale. Ecco perché, ad esempio, ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire "iure proprio" contro il responsabile. La liquidazione di tale tipologia di danno deve avvenire in via equitativa, in forza di una sua valutazione complessiva, potendosi ricorrere a presunzioni sulla base di elementi oggettivi, forniti dal danneggiato, quali le abitudini di vita, la consistenza del nucleo familiare e la compromissione delle esigenze familiari (Cass., sez. III, 5 ottobre 2010, n.20667; conforme a Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972). Il contenuto strutturalmente equitativo di questo genere di quantificazioni ha trovato, da ultimo, un efficace contemperamento – essenzialmente imposto dalla Suprema Corte per scongiurare il rischio di sperequazioni valutative, pur mantenendo ferme le prerogative di discrezionalità del giudice di merito – nella indicazione delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano come parametri vincolanti per la stima dei danni alla persona a tutt'oggi non espressamente calcolabili attraverso il ricorso a criteri normativi espliciti, in quanto si tratta di un modello «già ampiamente diffuso sul territorio nazionale - e al quale la Suprema Corte, in applicazione dell'art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono» (Cass., sez. III, 7 giugno 2011, n.12408). Ne deriva, quale logica conseguenza, la possibilità di censurare le pronunce di merito che disattendano tali indicazioni in sede di giudizio di legittimità, quale vizio di violazione di legge. Ciò non toglie, ovviamente che, proprio in ragione dell'estrema variabilità fenomenica e ontologica dei danni genericamente classificabili come “non patrimoniali”, la valutazione equitativa ricopra un ampio spazio di estrinsecazione pratica. A titolo esemplificativo, si pensi alla risarcibilità del danno conseguente a un'ipotesi di diffamazione. Sul punto, la Cassazione ha sistematicamente ribadito come in tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, la liquidazione del danno morale vada necessariamente operata con criteri equitativi, il ricorso ai quali è insito nella natura del danno e nella funzione del risarcimento, realizzato mediante la dazione di una somma di denaro compensativa di un pregiudizio di tipo non economico”(da ultimo, Cass, sez. I, 27 aprile 2016, n. 8397; analogamente v. pure Cass., sez. III, 5 dicembre 2014, n. 25739). La centrale importanza dei criteri equitativi di valutazione ne determina, peraltro, la residualità, nel senso che questi possono essere invocati dall'attore – danneggiato anche in fase di gravame: infatti, come ha asserito la Corte Suprema, “intervenuta, in sede penale, l'affermazione della responsabilità dell'imputato per il reato di lottizzazione abusiva, con contestuale condanna generica dello stesso al risarcimento del danno ambientale subìto dal Comune nel cui territorio risulta avvenuto l'illecito insediamento, la richiesta di liquidazione del pregiudizio secondo equità, formulata per la prima volta in appello dal soggetto danneggiato, non viola l' art. 345 c.p.c. in considerazione del rilievo espressamente attribuito ai criteri equitativi dall'art. 18, comma 6, della legge 8 luglio 1986, n. 349” (Cass., sez. III, 27 settembre 2014, n. 18352). Aspetti processuali L'accertamento del danno da reato segna la delicata linea di confine fra l'azione risarcitoria esperita nella sua sede, per così dire, “naturale”, ossia dinnanzi al giudice civile, e quella promossa davanti al giudice penale. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità viene sistematicamente interpellata per via della necessità di contemperare il principio di autonomia reciproca delle giurisdizioni nell'ambito dell'ordinamento con quello, potenzialmente contrapposto, di necessaria interdipendenza fra la cognizione affidata al giudice penale circa l'esistenza, in rerum natura, di un fatto di reato, e quella affidata al giudice civile in ordine alle conseguenze, in termini di obblighi risarcitori, dallo stesso derivanti. In argomento, la Suprema Corte ha recentemente ribadito che «il rapporto tra il processo civile e quello penale è ispirato al principio della separatezza dei due giudizi, sicché il giudizio civile di danno deve essere sospeso soltanto quando l'azione civile sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile in sede penale o dopo la sentenza penale di primo grado (art. 75 c.p.p.), atteso che esclusivamente in tali casi si verifica una concreta interferenza del giudicato penale nel giudizio civile, non potendosi pervenire anticipatamente ad un esito potenzialmente difforme da quello penale in ordine alla sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto»(Cass., sez. VI, ord. 17 novembre 2015, n. 23516). Uno dei profili peculiari di interferenza fra l'azione civile e quella penale di accertamento del danno da reato è rappresentato dall'allungamento del termine di prescrizione quinquennale (art. 2947 c.c.) in tutti i casi in cui la norma penale preveda un termine più lungo per la prescrizione del reato da cui il pregiudizio è derivato (Così, ad esempio, cfr. Cass., sez. III, 16/10/2015, n. 20934: «la responsabilità del Ministero della Salute per i danni da trasfusione di sangue infetto in caso di decesso del danneggiato in conseguenza del contagio dà luogo ad un credito risarcitorio soggetto a prescrizione decennale ove sia fatto valere dai congiunti della vittima per conseguire il ristoro del danno subito "iure proprio" a seguito del decesso del soggetto emotrasfuso, trattandosi di pretesa che deriva da omicidio colposo, reato a prescrizione decennale»). Tale allungamento del termine di prescrizione si applica anche nell'ipotesi in cui l'accertamento del reato in sede penale non sia in concreto avvenuto (ad esempio per le ipotesi di illeciti perseguibili a querela di parte, ove questa non sia stata tempestivamente presentata) «purché il giudice civile accerti, ‘incidenter tantum', con gli strumenti probatori ed i criteri propri del relativo processo, l'esistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto- reato in tutti i suoi elementi costitutivi, sia soggettivi che oggettivi» (Cass., sez. V, 12 novembre 2014, n. 24096). Tuttavia, a sostegno del principio generale di perfetta autonomia fra le giurisdizioni, la Cassazione ha precisato come «allorché il soggetto danneggiato non si sia costituito parte civile nel giudizio penale, ma abbia agito in sede civile, agli effetti della prescrizione del credito risarcitorio si deve avere riguardo al reato contestato e non a quello ritenuto in sentenza all'esito del giudizio penale, ove vi sia stata derubricazione dell'originaria imputazione, oppure siano state ritenute applicabili circostanze attenuanti» (Cass., sez. III, 18 giugno 2015, n. 12621) Viceversa, qualora il danneggiato abbia scelto di promuovere l'azione civile nell'ambito del processo penale, nel caso in cui sia stata lì accertata una causa di estinzione del reato (ovviamente diversa dalla prescrizione stessa), il dies a quo per la prescrizione del suo diritto al risarcimento del danno azionabile anche innanzi al giudice civile, rimane ovviamente inciso dalla previa costituzione di parte in sede penale. Ad esempio «in tema di risarcimento del danno da circolazione stradale, qualora il fatto illecito sia qualificabile come reato, e questo sia stato dichiarato estinto in un processo penale, in cui il danneggiato non si sia costituito parte civile, per causa diversa dalla prescrizione (nella specie, per morte del reo), il termine di prescrizione è biennale ai sensi dell'art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il reato si è estinto (nella specie, dalla data della morte del reo) e non da quella in cui l'estinzione è stata dichiarata o, a maggior ragione, in cui il danneggiato ha avuto notizia della causa di estinzione» (Cass., sez. III, 17 dicembre 2015, n. 25340) Casistica
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