Obbligazione di mezzi / di risultato

Daniela Zorzit
29 Aprile 2014

La distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato venne elaborata dalla dottrina francese intorno alla prima metà del 1900: varcati i confini delle Alpi, essa esercitò una forte suggestione sugli studiosi di diritto italiani, alimentando ampie discussioni. Alcuni insigni autori attribuirono a tale classificazione il carattere di summa divisio tra due “sistemi”, ciascuno governato da regole proprie (in tema di adempimento, criteri di imputazione della responsabilità, prova). Altri, invece, criticarono a fondo tale dicotomia ponendone in luce la artificiosità e gli incerti confini, e proponendo una ricostruzione unitaria.
Nozione

La distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato venne elaborata dalla dottrina francese intorno alla prima metà del 1900: varcati i confini delle Alpi, essa esercitò una forte suggestione sugli studiosi di diritto italiani, alimentando ampie discussioni. Alcuni insigni autori attribuirono a tale classificazione il carattere di summa divisio tra due “sistemi”, ciascuno governato da regole proprie (in tema di adempimento, criteri di imputazione della responsabilità, prova). Altri, invece, criticarono a fondo tale dicotomia ponendone in luce la artificiosità e gli incerti confini, e proponendo una ricostruzione unitaria. Nei più recenti arresti, la Suprema Corte ha ritenuto di dover superare tale distinzione, in quanto fuorviante e priva di sicuro fondamento dogmatico.

Vengono quindi anzitutto illustrate le peculiarità che – secondo l'impostazione tradizionale – caratterizzano le obbligazioni di mezzi e di risultato, le differenze di disciplina, le conseguenze pratiche sul piano della allegazione e del riparto degli oneri; seguendo il filo della evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, si dà poi atto delle severe censure che hanno messo in crisi la bipartizione, sino al suo (almeno apparente) superamento, sancito da Sezioni Unite della Cassazione (Cass. S.U. n. 577/2008).

In base alla classificazione operata dalla dottrina (Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, in Riv. Dir. comm. 1954,I, 185) nelle obbligazioni di mezzi il debitore è tenuto ad un dato comportamento, improntato a criteri di diligenza, perizia e prudenza, a prescindere dal conseguimento della finalità attesa dal creditore (che è aleatoria); in questa categoria viene usualmente ricondotta l'attività dei professionisti intellettuali: si suole affermare, per esempio, che il medico non è tenuto a procurare la guarigione, ma soltanto a svolgere la propria opera secondo le regole dell'arte (al fine di ristabilire la salute del paziente).

Nelle obbligazioni di risultato, invece, il debitore si impegna a realizzare un certo obiettivo, indipendentemente da una specifica attività strumentale. A titolo di esempio, si riporta il caso dell'appaltatore al quale sia stata commissionata la costruzione di un edificio.

La distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato comporta – secondo i suoi fautori- conseguenze di estremo rilievo sul piano della disciplina: nelle prime, come si è detto, la prestazione si sostanzia in una certa attività, a prescindere dal conseguimento della finalità attesa dal creditore. Da tale impostazione discende che il debitore che abbia posto in essere un comportamento diligente, prudente e perito, e non abbia tuttavia raggiunto l'obiettivo sperato, non può essere considerato “inadempiente”. A suo carico non è, quindi, configurabile alcuna responsabilità.

Nelle obbligazioni di risultato, invece, il mancato conseguimento di quest'ultimo integra ex se “inadempimento” : per liberarsi, il debitore non può limitarsi a dimostrare di aver eseguito correttamente l'attività richiestagli, ma deve dare la prova della oggettiva ed assoluta impossibilità sopravvenuta della prestazione, in quanto derivante da un evento a lui estraneo ed inevitabile ex art. 1256 c.c. (Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Scritti giuridici, Milano, 1973). In tal senso appare emblematica una risalente pronuncia della Cassazione, che sembra aver recepito l'orientamento in parola: "a differenza dell'obbligazione di mezzi, la quale richiede al debitore soltanto la diligente osservanza del comportamento pattuito, indipendentemente dalla sua fruttuosità rispetto allo scopo perseguito dal creditore, nell'obbligazione di risultato, nella quale il soddisfacimento effettivo dell'interesse di una parte è assunto come contenuto essenziale ed irriducibile della prestazione, l'adempimento coincide con la piena realizzazione dello scopo perseguito dal creditore, indipendentemente dall'attività e dalla diligenza spiegate dall'altra parte per conseguirlo. Pertanto, l'obbligazione di risultato può considerarsi adempiuta solo quando si sia realizzato l'evento previsto come conseguenza dell'attività esplicata dal debitore, nell'identità di previsione negoziale e nella completezza quantitativa e qualitativa degli effetti previsti e, per converso, non può ritenersi adempiuta se l'attività dell'obbligato, quantunque diligente, non sia valsa a far raggiungere il risultato previsto" (Cass., sez. III, sent., 10 dicembre 1979 n. 6416 in Giust. Civ. , Mass., 1979 Mass, fasc. 12).

Secondo l'impostazione tradizionale (Betti, Teoria generale delle obbligazioni I, Milano 1953), dunque, la dicotomia obbligazioni di mezzi / risultato si atteggerebbe quale summa divisio sul piano della disciplina sostanziale, perché ad essa corrisponderebbero due diversi criteri di imputazione della responsabilità contrattuale:

  • l'art. 1218 c.c. (interpretato in chiave oggettiva) si applicherebbe, in combinato disposto con l'art. 1256 c.c., alle sole obbligazioni di risultato; la prova di aver eseguito la prestazione secondo diligenza non varrebbe a liberare il debitore; questi dovrebbe dimostrare la causa esterna (il caso fortuito, il factum principis) imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile la prestazione;
  • per le obbligazioni di mezzi, varrebbe, invece, il disposto di cui all'art. 1176 c.c.: il debitore potrà considerarsi “adempiente” tutte le volte in cui, a prescindere dal conseguimento del risultato (che non è dedotto in obbligazione), abbia osservato le regole di diligenza, prudenza, perizia che sono richieste nell'espletamento di quel tipo di attività.

Critiche alla tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato

La tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato è stata oggetto di forti critiche ed ha stimolato un vivace dibattito. Si è osservato, anzitutto, che dal punto di vista dogmatico il regime di responsabilità da inadempimento non può che essere unitario: gli artt. 1218 e 1176 c.c. non hanno un campo di applicazione distinto ed autonomo, ma vanno letti in combinato disposto tra loro, perché concorrono ad individuare un unico criterio di imputazione, che è di tipo soggettivo (per colpa) (Di Majo, Delle Obbligazioni in generale, 1988, 454). Sotto altro profilo, si è posto in luce come in realtà la distinzione riposi su confini piuttosto labili ed incerti: da un lato, si è rilevato che un risultato, inteso come momento finale o conclusivo della prestazione, è dovuto in tutte le obbligazioni: così, nell'esempio solitamente addotto dell'intervento chirurgico, esso coincide con l'operazione esattamente eseguita (M. Bianca, Commentario del codice civile Scialoja - Branca, art. 1218 , 32 ss.). Dall'altro, si è evidenziato come in molti casi sia dubbio se l'attività dedotta debba essere ricondotta all'una o all'altra delle categorie prospettate. Così è, per es., per l'obbligazione di custodire (nel contratto di deposito), oppure per quella del vettore (art. 1678 c.c.) o del mandatario (art. 1703 c.c.) (U. Natoli, Trattato di Diritto civile e commerciale Cicu Messineo, vol. XVI pag. 49 ss.). Ancora, si è osservato come spesso i due profili si intreccino tra loro e coesistano: così ad esempio nell'appalto è sì dedotta una obbligazione di risultato, ma nello stesso tempo è pur sempre dovuto, in corso di rapporto, un comportamento diligente, in assenza del quale il committente ben può chiedere la risoluzione, anche prima della scadenza del termine per la consegna dell'opus (M. Bianca, Diritto Civile, vol. 4, 1990). Tali obiezioni sono state, da ultimo, recepite dalla stessa Cassazione che, con una sentenza “programmatica”, ha definitivamente ritenuto di dover abbandonare tale classificazione osservando che "la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata" (Cass. civ. S.U., n. 577/2008, in Resp. Civ. e Prev., 2008, 849.). Sul punto si tornerà infra, allorquando si tratterà specificamente della responsabilità sanitaria.

Onere della prova

La distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato ha esplicato indubbia incidenza anche sul regime della prova. Per avere un quadro il più possibile preciso e chiaro occorre ricostruire brevemente il percorso della dottrina e dalla giurisprudenza nel volgere degli ultimi anni. La questione può essere affrontata — in chiave storica — prendendo in considerazione due diverse “ere”, un prius ed un posterius, tra cui si pone, a guisa di spartiacque, la nota pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 13533/2001(Cass. civ. S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533, Danno e Resp. 2002, 318).

Prima di tale sentenza, la giurisprudenza dominante sosteneva che il creditore che agiva per la risoluzione del contratto e/o per il risarcimento del danno doveva dimostrare (ex art. 2697 c.c.) l'inadempimento, dato che esso si configurava come “fatto costitutivo” della domanda.

L'applicazione del principio comportava significative differenze a seconda che venissero in considerazione obbligazioni di mezzi o di risultato. Giova infatti ricordare che, secondo l'impostazione tradizionale più sopra illustrata, nelle prime l'inadempimento si identifica con l'inosservanza delle leges artis, con l'esecuzione della prestazione in modo non diligente. Nelle seconde, invece, esso coincide tout court con il mancato conseguimento dell'obiettivo atteso.

Da tale impostazione discendeva dunque che il creditore:

  • nelle obbligazioni di mezzi, doveva provare che il debitore aveva violato le regole dell'arte, aveva cioè svolto la prestazione in modo non corretto ed imperito;
  • in quelle di risultato, doveva semplicemente dimostrare che la finalità (es. l'opus) dedotta in contratto non era stata realizzata, posto che ciò costituiva, ex se, “inadempimento”.
Onere della prova nella responsabilità sanitaria

Secondo l'orientamento della giurisprudenza, prima della sentenza della Cass. n. 13533/2001, il creditore aveva dunque l'onere di dimostrare l'inadempimento. Essendo l'obbligazione del medico “di mezzi”, l'applicazione della regola conduceva ad un risultato per certi aspetti sorprendente: il paziente (che avesse subito un vulnus ) doveva provare che l'attività sanitaria non era stata eseguita, nello specifico, secondo le leges artis, non era cioè conforme alle norme di diligenza e perizia richieste (così Cass. n. 1127/1998, Ragiusan, 1998, f. 6, 257; Cass. n. 3957/1974).

Al malato — id est al soggetto che normalmente non possiede le conoscenze tecniche necessarie per individuare l'errore e nemmeno è in grado di seguire “da vicino” e con cognizione di causa le singole fasi dell'operazione — veniva dunque addossato un onere assai gravoso e quasi insostenibile.

Resasi conto di tale incongruenza, la giurisprudenza vi pose rimedio introducendo un correttivo, racchiuso nell'adagio “res ipsa loquitur”: valorizzando (sia pure ai soli fini probatori) la distinzione sottesa all'art. 2236 c.c., la Cassazione prese a sostenere che nel caso di interventi di facile esecuzione la mancata guarigione e/o il peggioramento delle condizioni di salute “parlano da sé”, pongono cioè a carico del sanitario una presunzione (iuris tantum) di inadempimento (in tal senso ex plurimis Cass. n. 6220/1988; Cass. n. 3492/2002).

Viceversa, se il caso era di particolare difficoltà — circostanza, questa, che spettava al medico provare (Cass. n. 8826/2007) - il paziente era tenuto, secondo il principio generale più sopra illustrato, a dimostrare, in modo preciso e specifico, quali erano state le modalità inidonee (si vedano ex plurimis Cass. n. 9085/2006; Cass. n. 10297/2004; Cass. n. 2335/2001; Cass. n. 6220/1988; Cass. n. 1127/1998, Cass. n. 4152/1995).

Non sfuggirà all'attento lettore come tale impostazione, seppur ispirata dalla finalità di alleggerire la posizione processuale del danneggiato, si rivelasse in realtà illogica: essa agevolava il malato nei casi più semplici, ma lo esponeva ad un onere (ancor) più gravoso in quelli complessi.

Ed è proprio questo uno dei motivi che — come risulta dagli arresti più recenti (Cass. n. 8826/2007, cit.) - ha indotto la giurisprudenza ad un radicale ripensamento.

Si è così giunti ad un vero e proprio rovesciamento di prospettiva, attuato dalla già citata sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001: con tale pronuncia gli Ermellini hanno stabilito che il creditore che chiede l'esecuzione del contratto, ovvero la risoluzione o il risarcimento del danno, deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte; spetta invece al debitore dimostrare il fatto estintivo dell'altrui pretesa.

Nell'enunciare tale dictum la Suprema Corte ha fatto applicazione del principio della “riferibilità o vicinanza della prova”, ponendo l'onere ex art. 2697 c.c. « ;a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l'inadempimento e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all'adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno ;». L'estensione di tale nuova regola alla responsabilità c.d. sanitaria ha — come è agevole intuire — sensibilmente modificato gli scenari esistenti, incidendo sulle costruzioni che sino ad allora erano state erette.

Invero, la giurisprudenza successiva a Cass. n. 13533/2001 ha presto chiarito che all'art. 2236 c.c. non può essere assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell'onere della prova (Cass. n. 8826/2007, cit.) perché in ogni caso (sia che l'intervento sia routinario, sia che sia difficile) il paziente deve solo allegare l'inadempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del sanitario e/o della struttura; spetta sempre al medico/ente ospedaliero dimostrare, ai fini dell'esonero da responsabilità, che « ;la prestazione è stata eseguita in modo diligente e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta» (cfr. Cass. n. 22894/2005).

Da qui la puntualizzazione secondo cui « ;è allora da superarsi sotto il profilo della ripartizione degli oneri probatori, ogni distinzione tra interventi facili e difficili, in quanto l'allocazione del rischio non può essere rimessa alla maggiore o minore difficoltà della prestazione ;» (Cass. n. 10297/2004, in Foro It., 2005, 1, 2479; Cass. n. 11488/2004, in Giust. Civ., 2005, 1, I, 121) posto che l'art. 2236 c.c. deve essere inteso come norma che contempla una regola di mera valutazione della condotta diligente del debitore.

L'irrilevanza della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato nel riparto dell'onere probatorio

La giurisprudenza non si è peraltro fermata qui: come si è accennato, da ultimo la Suprema Corte ha definitivamente chiarito che la dicotomia tra obbligazioni di mezzi e di risultato deve ritenersi superata.

Con la sentenza n. 577/2008 gli Ermellini hanno sottolineato che, sul piano del riparto degli oneri, la distinzione in parola aveva una propria ragion d'essere in passato, allorquando si riteneva che, nelle obbligazioni di mezzi, « ;essendo aleatorio il risultato ;», il paziente dovesse provare che il mancato successo era dipeso da scarsa diligenza. Oggi — osserva il Supremo Collegio — tale ricostruzione non si giustifica più perché, alla luce dell'insegnamento della sentenza della Cass. n. 13533/2001, il creditore deve semplicemente allegare l'inadempimento (e, ovviamente, dimostrare il contratto ed il danno); per converso, spetta sempre al debitore (si legga: medico /struttura) dare la prova liberatoria e ciò senza che abbia rilievo alcuno la distinzione tra obbligazioni di mezzi e risultato.

La cancellazione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato: la prova liberatoria richiesta al medico/ente di cura

La presa di posizione attuata da Cass. n. 577/2008 sembra perentoria; resta peraltro un dubbio. Se si esaminano le pronunce più recenti e si sofferma l'attenzione, in particolare, sul regime dell'onere della prova - per come tratteggiato dai Giudici - il quadro non pare affatto chiaro. Al di là delle proclamazioni di principio, l'antico discrimen tra obbligazioni di mezzi e risultato che tanto ha condizionato l'elaborazione dogmatica, non sembra aver smarrito la propria capacità suggestiva e, seppur in modo latente, continua ad esercitare una certa influenza, sia in “fatto che in diritto”.

Sul piano pratico, è agevole notare che nel momento in cui al paziente si chiede solo di allegare l'inadempimento e di dimostrare il danno (peggioramento o mancato miglioramento), non si fa altro che applicare il regime proprio delle obbligazioni di risultato (secondo lo schema un tempo accreditato e più sopra illustrato, ove il creditore doveva semplicemente provare che l'obiettivo perseguito e dedotto non era stato raggiunto).

Sotto altro profilo, non vi è dubbio che la distinzione in parola continua a riverberare i propri effetti almeno nel comune sentire, posto che sembra sempre più diffusa l'idea secondo cui il medico e la struttura ospedaliera “non possono fallire” : il progresso della tecnica e della scienza ha cioè ingenerato nella collettività degli utenti una aspettativa di guarigione che si traduce, a conti fatti, in una pretesa di risultato. Non deve quindi stupire se la giurisprudenza si è negli ultimi decenni assestata su posizioni piuttosto rigide, che agevolano il paziente al punto tale da indurre la dottrina a lanciare un grido di allarme e a denunciare la tendenza alla oggettivizzazione del sistema di responsabilità sanitaria (M. Rossetti, Unicuique suum, ovvero le regole di responsabilità non sono uguali per tutti (preoccupate considerazioni sull'inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica), in Giust. Civ., 2010, 10, 2218). Ed è oltremodo emblematica l'affermazione che si rinviene in uno degli arresti della Cassazione (Cass. n. 8826/2007, cit.), secondo cui « ;Il risultato positivo è una conseguenza statisticamente fisiologica della prestazione professionale diligente ;». Il che equivale a dire che, in presenza di un peggioramento o di un mancato miglioramento, l'inadempimento del sanitario si presume, spettando a quest'ultimo l'onere di dimostrare il contrario.

Ed è proprio in tale contesto che si inserisce il più complesso discorso relativo alla prova liberatoria.

Sullo specifico punto le risposte sono tutt'altro che univoche: compulsando le decisioni dei giudici, emerge un divario piuttosto marcato.

E così, secondo un primo orientamento, il medico/ente ospedaliero è tenuto a dimostrare, ai fini dell'esonero da responsabilità, che « ;la prestazione è stata eseguita in modo diligente e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta ;» (Cass. 19 febbraio 2013, n. 4030; conformi: Cass. 9 ottobre 2012, n. 17143, in D&G, 10 ottobre 2012; Cass. n. 6744/2011; Cass. n. 975/2009; Cass. n. 12362/2006; Cass. n. 22894/2005; Cass. n. 10297/2004 ).

In tale ottica si ritiene per es. che il sanitario possa liberarsi dimostrando che l'evento è dipeso da una complicanza inevitabile (Cass. 28 settembre 2009, n. 20790; Cass. 11 maggio 2009 n. 10743).

Una recente pronuncia (Cass. 7 giugno 2011, n. 12274, in D&G, 9-6 novembre 2011) ha così escluso la responsabilità dei convenuti sul rilievo che l'infezione occorsa alla paziente era stata generata da una sopravvenienza (contaminazione della cavità addominale da parte di germi) che, avendo una percentuale bassissima di incidenza (tra 0,3% e 0,7 %), non poteva essere « ;prevista ed evitata dai sanitari adottando la diligenza richiesta nel caso concreto ;».

Secondo un altro indirizzo, invece, è sufficiente la prova di aver osservato le leges artis, di aver cioè tenuto un « ;comportamento diligente ;» (Cass. n. 1538/2010, Ragiusan, 2010, 313-314, 151; Cass. n. 24791/2008, in Mass. Giust. Civ., 2008, 10, 1448; nello stesso senso: Cass. n. 19133/2004; Cass. n. 11488/2004; Cass. n. 2044/2002; Cass. n. 5005/1996). In tale solco, va segnalata, per la chiarezza e la lucidità della motivazione, la sentenza del Trib. Milano 22 aprile 2008 n. 40662 (G.U. D. Spera,in Giustizia a Milano, n. 4, 2008) ove si afferma che "allorquando il medico (o la struttura ospedaliera) ha provato di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione, e cioè di aver rispettato tutte le norme di prudenza, diligenza e perizia, i protocolli e le linee guida più accreditate nel proprio settore di competenza, il paziente non può invocare l'art. 1218 c.c., neppure in presenza di un acclarato peggioramento delle proprie condizioni di salute in rapporto di causalità con la prestazione sanitaria. L'art. 1218 c.c. infatti presuppone l'inadempimento dell'obbligazione assunta, inadempimento che non sussiste quando vi è in concreto la prova positiva dell'adoperata diligenza. Consegue altresì che il medico diligente, cioè adempiente, non è neppure gravato dall'onere della prova del caso fortuito, vale a dire dell'evento imprevisto ed imprevedibile che abbia determinato l'insuccesso o l'inutilità della prestazione sanitaria; tale onere presuppone, infatti, in applicazione dell'art. 1218 c.c., non il mero insuccesso, ma l'insuccesso determinato da inadempimento dell'obbligazione assunta".

La differenza tra le due impostazioni è notevole; la prima finisce infatti con l'addossare al sanitario/struttura la c.d. causa ignota: per liberarsi, non basta dimostrare di aver tenuto una condotta improntata alle regole della scienza e della professione, ma occorre dare la prova di uno specifico fattore esterno “insuperabile ed invincibile” che ha provocato l'evento lesivo. È chiaro allora che, nei casi in cui non sia possibile stabilire da cosa in concreto sono dipese la lesione e/o la morte del paziente (c.d. causa ignota), il medico soccombe.

In proposito, una recentissima sentenza della Cassazione (Cass. 9 ottobre 2012, n. 17143)ha apertamente dichiarato che « ;laddove la causa del danno rimanga alfine ignota, le conseguenze non possono certamente ridondare a scapito del danneggiato (nel caso, del paziente), ma gravano sul presunto responsabile che la prova liberatoria non riesca a fornire (nel caso, il medesimo e/o la struttura sanitaria), il significato di tale presunzione cogliendosi (..) nel principio di generale favor per il danneggiato ;».

Il diverso atteggiarsi della regola del riparto degli oneri (a seconda che si segua l'una o l'altra delle due posizioni) rappresenta in realtà il portato della controversa interpretazione dell'art. 1218 c.c.Ove si accolga la tesi secondo cui la norma in esame va letta in chiave oggettiva, si chiederà al debitore di dimostrare (non solo il proprio comportamento corretto ex art. 1176 c.c. ma anche) la specifica causa (“imprevedibile né prevenibile”) che ha reso impossibile l'adempimento. Laddove, invece, si reputi che la disposizione citata ruoti pur sempre intorno alla colpa, si riterrà sufficiente, ai fini liberatori, la prova della condotta diligente.

Alla luce di tali rilievi (svolti senza alcuna pretesa di esaustività, fermo il rinvio alla più autorevole dottrina che ha dedicato ampie trattazioni al tema), si comprende quindi l'importanza di individuare e definire “l'inadempimento”, dato che questo è il presupposto richiesto ai fini della applicazione dell'art. 1218 c.c.

Ed ecco allora che, in tale prospettiva, la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato torna prepotentemente a far parlare di sé; in particolare, la differenza (di disciplina) tra le une e le altre si lascia apprezzare ove si sposi la tesi “oggettiva”di cui si è fatto cenno.

Valga il vero: nel caso di obbligazioni di mezzi, se il debitore riesce a provare di aver tenuto un comportamento diligente non vi sarà inadempimento; l'art. 1218 c.c. non potrà quindi entrare in gioco e la partita potrà dirsi chiusa (con conseguente rigetto della domanda risarcitoria del creditore). Viceversa, se l'obbligazione è di risultato, il mancato conseguimento di quest'ultimo costituisce già, per definizione, inadempimento. Il debitore, allora, dovrà dare la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 c.c.: se si segue la tesi soggettiva, sarà sufficiente che egli dimostri di aver tenuto una condotta diligente; se, invece, si accoglie l'opposto orientamento, egli potrà liberarsi solo dimostrando (in via ulteriore) che l'evento lesivo è dipeso da uno specifico fattore esterno “imprevedibile e non prevenibile”. In tale secondo caso la causa ignota resterà dunque a suo carico.

La natura della obbligazione del medico/struttura sanitaria

Come si è detto, secondo l'impostazione tradizionale l'obbligazione del medico rientra tra quelle “di mezzi” posto che il professionista non è tenuto ad assicurare la guarigione. Probabilmente, però, l'assunto non è così granitico, ma richiede di essere rimodulato a seconda delle fattispecie concrete. Vi sono infatti dei casi in cui la prestazione richiesta sembra avere ad oggetto un vero e proprio risultato: si pensi ad esempio alla chirurgia estetica o ricostruttiva, ad un trapianto di capelli, alle analisi cliniche, agli interventi di modificazione dei caratteri sessuali o di sterilizzazione, alla realizzazione di una protesi (queste ipotesi vengono senz'altro ricondotte entro il novero delle obbligazioni di risultato da M. Paradiso, La responsabilità medica: dal torto al contratto, in Riv. Dir. Civ., 2001, 325).

Giova in proposito ricordare che la Cassazione (Cass. n. 10014/1994, in Foro It., 1995, 1, 2913) nell'affrontare il caso di un intervento eseguito da un chirurgo estetico, ha chiarito che il professionista « ;può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche un'obbligazione di risultato, osservandosi tuttavia che quest'ultimo [...] non costituisce, comunque, un dato assoluto, dovendosi viceversa valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie ;».

In dottrina (A. Barale, La responsabilità del chirurgo estetico, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 4, 1359 che, a propria volta, cita Ronchi, Né obbligo di risultato nè dovere di più ampia informazione al paziente da parte del chirurgo estetico, in Resp. Civ. e Prev., 1998, 848) si è peraltro sostenuto che « ;vi sono oggettive ed inconfutabili argomentazioni di carattere tecnico—biologico che autorizzano a ritenere improponibile la classificazione delle fattispecie in esame fra le obbligazioni di risultato ;». Si osserva, infatti, che anche da una operazione di chirurgia estetica portata a termine a regola d'arte possono derivare risultati non soddisfacenti, e ciò per le stesse variabili che connotano qualsiasi operazione e che dipendono da molteplici fattori (come ad es. caratteristiche fisiologiche o patologiche specifiche del soggetto), non sempre prevedibili.

Probabilmente, una risposta univoca e generalizzata non è possibile: forse è solo attraverso l'esame del contenuto del contratto stipulato tra paziente e medico che è possibile stabilire, di volta in volta, quale sia in concreto la prestazione dedotta. Il tema, peraltro, è strettamente legato a quello del consenso informato. Se si considera che, di norma, il sanitario si preoccupa di (ed anzi, è tenuto a) comunicare al cliente che l'obiettivo sperato potrebbe non essere raggiunto nonostante la buona cura (ad es. perché vi sono dei rischi oggettivi ineliminabili), si potrebbe già dubitare che l'obbligazione sia di risultato (almeno ove ad essa si voglia ricollegare un regime di rigorosa responsabilità oggettiva). Per converso, essa diverrà (o tornerà ad essere) tale allorquando il medico non abbia dato al paziente le informazioni necessarie: in tal caso — secondo il consolidato orientamento delle corti — egli sarà tenuto al risarcimento (per es. del danno biologico da complicanza inevitabile) anche laddove abbia eseguito l'operazione a regola d'arte e, cionondimeno, non abbia conseguito il fine prefissato. Sembra quindi cogliere nel segno l'osservazione di un autorevole studioso secondo cui « ;in buona sostanza, non aver avvertito del rischio pregiudizievole equivale ad aver garantito una cura esente da tale pericolo: si spiega, quindi, come parte della dottrina ritenga che attraverso il dovere di informazione sembra essersi ormai completato il processo di trasformazione dell'obbligazione del professionista [...], con la conseguenza che la pur persistente qualificazione dell'obbligazione professionale in termini di mezzi non sembra più atta a dissimulare il fatto che la realizzazione del risultato sperato entra a far parte del contenuto della prestazione promessa ;» (A. Lepre, La responsabilità civile delle strutture sanitarie-Ospedali pubblici, case di cura private e attività intramuraria, Milano, 2011, 173, che a propria volta cita E. Quadri, La responsabilità medica tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Danno e Resp., 1999, 1172).

Emblematica in tal senso è, per es., la decisione del Tribunale di Salerno 21 giugno 2010 (Trib. Salerno 21 giugno 2010) che afferma: « ;il mancato conseguimento del risultato che il paziente si attende da un determinato intervento estetico equivale ad un inadempimento contrattuale da parte del chirurgo estetico quando non sia stato esattamente adempiuto l'obbligo di una preventiva informazione ;».

Ma a ben vedere, a nostro parere la tralatizia opinione che ritiene l'obbligazione del medico “di mezzi” sembra addirittura sconfessata in radice da quella stessa giurisprudenza che pretende, ai fini liberatori, la dimostrazione che « ;la prestazione è stata eseguita in modo diligente e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta ;» ( Cass. n. 12362/2006; Cass. n. 22894/2005; Cass. n. 10297/2004; Cass. n. 3492/2002).

È chiaro, infatti, che così ragionando non si fa altro che considerare l'obbligazione del medico (sempre) di risultato: invero, se fosse di mezzi, l'aver tenuto un comportamento conforme alle leges artis costituirebbe di per sé prova dell'adempimento e non vi sarebbe bisogno di scomodare l'art. 1218 c.c., ponendo a carico del debitore l'onere di individuare la specifica causa (esterna) che ha determinato l'evento.

Le considerazioni sin qui svolte inducono quindi a concludere che l'affermazione delle Sezioni Unite (Cass. n. 577/2008) secondo cui la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato deve ritenersi «dogmaticamente superata» sconta in realtà un limite, rappresentato dalla (irrisolta) questione della prova liberatoria.

Ove si accogliesse definitivamente la tesi per cui, ai sensi dell'art. 1218 c.c. (interpretato in chiave soggettiva), il debitore si libera dimostrando di avere tenuto un comportamento diligente ex art. 1176 c.c., la dicotomia (e quindi la necessità di previamente individuare il contenuto dell'obbligazione, se di mezzi o di risultato) perderebbe di significato (almeno per i fini risarcitori) perché nell'uno come nell'altro caso la partita si chiuderebbe (la domanda attorea verrebbe rigettata) con la prova dell'osservanza delle leges artis.

Fuori da questa ipotesi, invece, laddove cioè si continui ad affermare che il debitore deve provare anche l'evento esterno che ha reso impossibile l'adempimento, la distinzione continuerà a riverberare i propri effetti, comportando un onere sensibilmente diverso, con la conseguenza che il rischio della causa ignota graverà sul medico, al quale viene di fatto accollata una obbligazione di risultato.

A parere di chi scrive, tuttavia, l'idea — sottesa alle pronunce più sopra citate — secondo cui il sanitario risponde del mancato risultato (id est peggioramento o inalterazione delle condizioni di salute) se non prova lo specifico fattore imprevedibile “che ha reso impossibile l'adempimento”, appare inaccettabile perché finisce col trasformare il professionista in un vero e proprio garante, tenuto al risarcimento anche laddove non abbia commesso alcun colpevole errore.

In tale contesto potrebbe considerarsi decisivo l'intervento attuato dal Legislatore con il c.d. Decreto Balduzzi (convertito in l. n. 189/2012), che con il rinvio all'art. 2043 c.c. contenuto nell'art. 3 comma 1 sembra aver segnato un ritorno al passato (ante Cass. n. 589/1999), in un'ottica che parrebbe contrastare quel moto pendolare che, nel corso del tempo, ha trasformato, come afferma la stessa Cass. n. 21619/2007, (Relatore Travaglino) la « ;figura del professionista, un tempo genius loci ottocentesco ;» in una « ;ambita preda risarcitoria ;» (M. Hazan, D. Zorzit, Assicurazione obbligatoria del medico e responsabilità sanitaria, 2013).

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