Le violazioni formali non incidono sul credito IVA risultante dalla dichiarazione
03 Luglio 2017
Massima
Il diritto al rimborso del credito IVA risultante dalla dichiarazione è soggetto a prescrizione ordinaria. In caso di estinzione della società creditrice, tale credito spetta agli ex soci che, pertanto, sono legittimati ad agire in giudizio. Il caso
La controversia sottoposta al vaglio dei giudici salernitani trae origine dall'impugnazione di un diniego di rimborso IVA ad opera di una società di capitali estinta e degli ex soci. Quest'ultima – si legge nella sentenza annotata – aveva proposto ricorso avverso il rifiuto (espresso) di restituzione di un credito IVA chiesto a rimborso nel 2015, vale a dire a distanza di quasi un decennio dalla presentazione dell'ultima dichiarazione IVA (relativa al periodo di imposta 2004), che esponeva tale credito. La particolarità del caso risiede nel fatto che la società in questione (una s.r.l.) nel 1999 era stata dichiarata fallita e poi, dopo la chiusura della procedura concorsuale (quindi sicuramente dopo il 2005), cancellata dal Registro delle Imprese (verosimilmente su istanza del curatore, ai sensi dell'art. 118, comma 2, l. fall.). La vicenda processuale, per come viene riferita in sentenza, non è chiarissima: sembra di capire che l'istanza di rimborso ed il conseguente ricorso giurisdizionale siano stati proposti sia dalla società (estinta), che dagli ex soci. Il dubbio dipende dal fatto che, mentre nel frontespizio del provvedimento annotato è citata soltanto la società, nel contesto della motivazione si fa riferimento all'iniziativa personale dei soci (“osserva la commissione che preliminarmente occorra pronunciarsi sulla legittimazione attiva dei soci”), il che fa supporre che il ricorso sia stato proposto anche da costoro.
Si tratta di un profilo non secondario, sul quale tornerò in seguito.
Quanto alle ragioni del diniego (espresso) di rimborso ad opera dell'Ufficio, le stesse si riconnettono unicamente alla (asserita) mancata compilazione del quadro VX del modello IVA/2005 da parte della società. In pratica, secondo l'Amministrazione, l'istanza di rimborso del 2015, siccome non preceduta dalla presentazione di una valida dichiarazione (da parte del curatore), avrebbe dovuto ritenersi attratta nel regime di decadenza biennale previsto dall'art. 21, comma 2, D. Lgs. 546/1992, con conseguente legittimità del diniego.
La questione
Le questioni giuridiche sottese alla controversia decisa con la sentenza annotata sono essenzialmente due:
Questo secondo problema, a sua volta, va inquadrato nel più generale tema della legittimazione ad agire degli ex soci in tutte le controversie aventi ad oggetto pretese creditorie riferibili ad una società estinta. Le soluzioni giuridiche
La Commissione Tributaria Provinciale affronta preliminarmente il problema della legittimazione attiva degli ex soci nelle controversie di rimborso concernenti una società estinta, risolvendolo in senso affermativo, e cioè riconoscendo che i soci di una società cancellata dal Registro delle imprese sono legittimati ad agire in giudizio per far valere i crediti residuati nel patrimonio societario («…alla cancellazione di una società va attribuito effetto costitutivo, per cui una volta avvenuta essa determina la definitiva estinzione e, conseguentemente, ciò che residua del patrimonio sociale spetterà, secondo le norme della comunione, ai soci, legittimi successori della società estinta»).
Con riferimento al secondo profilo controverso, e cioè quello concernente le modalità di esercizio del credito IVA, il collegio argomenta che la compilazione del quadro VX della dichiarazione (mod. IVA/2005), unita alla mancata rettifica/contestazione dello stesso da parte dell'Ufficio, sia sufficiente a consolidare il diritto di rimborso del contribuente, da azionarsi nei termini ordinari di prescrizione (nel caso di specie non ancora spirati al momento della presentazione dell'istanza). Per la verità anche su questo punto la strategia difensiva dell'Amministrazione suscita qualche perplessità: la Commissione, infatti, respinge l'eccezione dell'Ufficio argomentando che il quadro VX era stato regolarmente compilato dalla società (rectius: dal curatore). In questo senso la motivazione di accoglimento del ricorso fa leva su un profilo fattuale, più che giuridico. La particolarità del tema, tuttavia, offre lo spunto per estendere la riflessione anche ad altre ipotesi di diniego, fondate su presupposti giuridici diversi.
Osservazioni
Il regime del rimborso dei crediti IVA è regolato nel nostro ordinamento dagli artt. 30 e 38-bis del d.P.R. n. 633/1972 che delineano rispettivamente i presupposti e le modalità di esecuzione del rimborso.
In particolare, l'art. 30 stabilisce che il credito IVA, commisurato all'ammontare dell'imposta “detraibile di cui al n. 3 dell'articolo 28, aumentato delle somme versate mensilmente” e “superiore a quello dell'imposta relativa alle operazioni imponibili di cui al n. 1 dello stesso articolo”, può essere computato in detrazione o richiesto a rimborso “nelle ipotesi di cui ai commi successivi e comunque in caso di cessazione d'attività”. In pratica, in forza di tale disposizione, il contribuente titolare di un credito IVA può scegliere se riportarlo all'anno successivo (eventualmente compensandolo con altri debiti di natura fiscale o previdenziale), oppure chiederlo a rimborso, in presenza delle condizioni tassativamente previste dalla legge.
Logicamente, tali condizioni sono destinate a venire meno nell'ipotesi di cessazione dell'attività di impresa. La ratio di quest'ultimo principio è facilmente intuibile: se l'imprenditore cessa l'attività non può più operare la detrazione dell'IVA a credito, per cui il rimborso dell'eccedenza costituisce l'unica strada percorribile. In siffatta ipotesi la giurisprudenza ha affermato che ai fini dell'azionabilità del credito di rimborso dell'eccedenza IVA computata in dichiarazione, è sufficiente che “all'atto di presentazione della dichiarazione”, venga indicata la somma a credito, e tale indicazione, valendo già quale istanza di rimborso, è certamente idonea ad impedire l'effetto estintivo della decadenza dal diritto (Cass. civ., 22 febbraio 2017, n. 4575; Cass. civ., 21 dicembre 2016 n. 26551; Cass. civ., 28 settembre 2016 n. 19115).
Alla base di tale principio vi è l'assunto per cui l'eccedenza annuale di IVA detraibile forma oggetto di un vero e proprio diritto di credito verso l'Amministrazione finanziaria, riconducibile fra i c.dd. "crediti da dichiarazione" (così in dottrina La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2006, 217), ovvero fra i crediti d'imposta "non da indebito", diversi dalle ipotesi di restituzione derivanti dall'operare dei meccanismi tipici del tributo (cfr. F. Tesauro, Istituzioni di Diritto Tributario, P. Speciale, Torino, 2008, 296; A. Fantozzi, Il diritto Tributario, Torino, 2003, 591).
Da ciò consegue che il diritto al recupero dell'eccedenza detraibile risultante dalla dichiarazione annuale IVA, in ragione della sua consistenza di diritto soggettivo, non può che essere soggetto al termine di prescrizione ordinaria (decennale) decorrente, anche per gli interessi, dalla scadenza del terzo mese successivo alla data di presentazione della dichiarazione ai sensi dell'art. 38-bis primo periodo d.P.R. n. 633/1972 (così Cass. civ., 2 aprile 2004 n. 6538; Cass. civ., 23 aprile 2010, n. 9794; Cass. civ. 8 aprile 2003 n. 5486; CTP Treviso 23 settembre 2010, n. 123; CTR Lombardia, sez. XXIX, 19 marzo 2008, n. 9; CTP Udine, sez. I, 14 aprile 2014 n. 194).
Sul punto la S. Corte ha nitidamente sancito il seguente principio di diritto: «La domanda di rimborso dell'IVA o di restituzione del credito d'imposta maturato dal contribuente deve ritenersi già presentata con la compilazione, nella dichiarazione annuale, del quadro relativo al credito, analogamente a quanto avviene in materie di imposte dirette, ed in linea con la Sesta Direttiva CEE, per la quale il diritto al ristoro dell'IVA versata “a monte” è principio basilare del sistema comunitario, per effetto del principio di neutralità, mentre la presentazione del modello di rimborso costituisce esclusivamente presupposto per l'esigibilità del credito e, quindi, adempimento necessario solo per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso. Ne consegue che, una volta manifestata in dichiarazione la volontà di recuperare il credito d'imposta, il diritto al rimborso, pure in difetto dell'apposita, ulteriore domanda, non può considerarsi assoggettato al termine biennale di decadenza previsto dall'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, e, oggi, dall'art. 21, comma secondo, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ma solo a quello di prescrizione ordinario decennale ex art. 2946 c.c.» (Cass. civ., sez. trib., 12 settembre 2012, n. 15229).
Ed ancora: «in tema di rimborso dell'IVA, deve tenersi distinta la domanda di rimborso o restituzione del credito d'imposta maturato dal contribuente, da considerarsi già presentata con compilazione nella dichiarazione annuale del quadro “RX4”, che configura formale esercizio del diritto, rispetto alla presentazione altresì del modello “VR”, che costituisce, ai sensi dell'art. 38-bis, comma primo, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, presupposto per l'esigibilità del credito e dunque adempimento necessario solo a dar inizio al procedimento di esecuzione del rimborso; ne consegue che, una volta esercitato tempestivamente in dichiarazione il diritto al rimborso con la compilazione del quadro “RX4”, la presentazione del modello “VR” non può considerarsi assoggettata al termine biennale di decadenza previsto dall'art. 212 D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ma solo a quello di prescrizione ordinario decennale ex art. 2946 cod. civ.» (Cass. civ., sez. trib., 16 maggio 2012, n. 7684; Cass. civ., sez. VI, 25 marzo 2014, n.6986). Così stando le cose, appare chiaro che il riferimento operato dall'Agenzia al diverso termine decadenziale di cui all'art. 21 D.Lgs. n. 546/1992 risulta del tutto inappropriato, trattandosi di norma destinata ad operare in via meramente sussidiaria rispetto alle altre disposizioni fiscali, tant'è che vale «in mancanza di disposizioni specifiche», ossia solo in relazione ad ipotesi di rimborso non tipizzate, esulanti dall'ambito di applicazione del citato art. 30 (Cass. civ., 13 aprile 2007 n.8937).
Il caso in esame, invece, riguarda un credito derivante da somme ritualmente versate all'Erario, o meglio, da somme che il ricorrente ha “fisiologicamente” corrisposto ai propri fornitori a titolo di rivalsa IVA su acquisti di beni e/o servizi effettuati nell'esercizio dell'impresa. In sintesi: la disposizione dell'art. 21 risulta pacificamente inapplicabile laddove il diritto al rimborso IVA derivi dalla cessazione dell'attività, giusta la previsione dell'art. 30 d.P.R. n. 633/72. Per completezza va precisato che fino al 2009 (dichiarazione IVA/2010) i contribuenti che intendevano chiedere il rimborso del credito IVA risultante dalla dichiarazione annuale erano tenuti a presentare all'agente della riscossione territorialmente competente un ulteriore modello (Mod. VR). Tale adempimento formale era stato successivamente eliminato (ex art. 10 co. 1 lett. a) D.L. n. 78/2009, convertito in Legge n. 102/2009) sicché a partire dall'anno 2010 (Mod. IVA/2011) il Modello VR era stato soppresso ed inserito nell'ambito della dichiarazione (Quadro VR). In seguito, e cioè a partire dal 2012 (IVA/2013), anche il Quadro VR è stato soppresso, disponendosi che la richiesta di rimborso venga effettuata mediante la semplice compilazione del Quadro VX della dichiarazione.
Orbene, in conformità all'indirizzo della giurisprudenza comunitaria (cfr. in particolare sentenza CGUE "Ecotrade" del 8 maggio 2008 n. 95/2007) la Cassazione ha sentito il dovere di precisare che l'inosservanza di tutti questi adempimenti formali non incide affatto sull'esistenza del diritto al rimborso del contribuente, ma solo sulla concreta esigibilità del credito, nel senso che l'eventuale omessa presentazione del Modello VR (o la mancata compilazione del Quadro VR) produrrà come unico effetto la non attivazione del procedimento di esecuzione del rimborso ex art. 38-bis, comma 1, d.P.R. n. 633/1972 (con la conseguenza che in simili ipotesi l'Amministrazione potrebbe al più eccepire la non spettanza degli interessi di mora, giammai la decadenza del contribuente).
Sicché, applicando tali principi al caso di specie, la Commissione tributaria provinciale osserva che la scelta (errata) del contribuente di esporre il credito IVA nel rigo VX5 della dichiarazione, anziché in quello VX4 (riservato agli "importi di cui si chiede il rimborso") non avrebbe potuto inficiare il suo diritto al rimborso, ma solo l'esigibilità del credito (anche perché, vertendosi in un'ipotesi di cessazione dell'attività di impresa ex art. 30 d.P.R. n. 633/1972, sarebbe risultata impraticabile una diversa modalità di soddisfacimento del credito; cfr. Cass. civ., 6 novembre 2013 n. 24489; Cass. civ., 23 aprile 2010, n. 9794).
In conclusione e con riferimento a questo specifico profilo, la decisione assunta dal collegio salernitano appare in linea con l'orientamento largamente maggioritario della giurisprudenza. Più discutibile è il profilo della motivazione che sembra far discendere il consolidamento del diritto (di credito) del contribuente dalla mancata rettifica della dichiarazione IVA da parte dell'Ufficio.
Sul punto la sentenza sembra porsi in contrasto (ma si tratta di un contrasto solo apparente, come più avanti dirò) con il principio sancito di recente dalle Sezioni Unite circa la possibilità per l'Ufficio di negare il rimborso anche dopo che siano spirati i termini di accertamento («l'Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l'esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio "quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipendium» Cass. civ., sez. un., 15 marzo 2016 n. 5069).
Si tratta di un arresto che è stato da più parti criticato in dottrina, soprattutto per la disinvoltura con cui la Corte regolatrice del diritto ha inteso applicare alla materia tributaria un principio mutuato dal diritto privato (cfr. i commenti di G. Gargiulo, Rettifica delle "dichiarazioni a credito" tra processo ed azione amministrativa, in GT, 6/2016, p. 475; C. Nouvion, Il diritto di negare i propri debiti non ha termini di decadenza per l'Amministrazione finanziaria, in Dir. Prat. Trib., 2016, 5). Ad ogni modo, a prescindere dalla correttezza o meno di tale assunto, non deve sfuggire che nel caso di specie l'Ufficio aveva respinto l'istanza del contribuente senza entrare nel merito della fondatezza del credito IVA, bensì facendo leva sull'eccezione di decadenza ex art. 21 D. Lgs. n. 546/1992 (era mancata cioè la "contestazione del credito", nell'accezione suggerita dalle Sezioni Unite).
Ne consegue che per respingere le difese dell'Amministrazione sarebbe bastato richiamare le norme processuali che impongono al convenuto di prendere posizione sui fatti allegati dall'attore (art. 167 c.p.c.) ed al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita (art. 115, comma 1, c.p.c.).
Resta a questo punto da esaminare l'altro profilo controverso e cioè quello della legittimazione degli ex soci nell'esercizio dell'azione di rimborso. In proposito giova richiamare l'orientamento della S. Corte sugli effetti giuridici dell'estinzione della società in relazione ai rapporti giuridici non ancora definiti, inclusi quelli tributari.
Sul tema, come è noto, si sono pronunciate qualche anno fa le Sezioni Unite, affermando i seguenti principi, costituenti oramai diritto vivente: «Qualora all'estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal Registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato» (Cass. civ., sez. un. 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072).
Si è dunque consolidato il principio in base al quale anche per i rapporti attivi non definiti in sede di liquidazione del patrimonio sociale viene a determinarsi un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale, venuto meno il vincolo societario «è ragionevole ipotizzare che (…), la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, s'instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione».
Così stando le cose, appare chiaro che, una volta disposta la cancellazione della società dal Registro delle imprese, l'azione finalizzata all'accertamento del credito IVA (al pari di ogni altra azione giudiziaria, anche di tipo impugnatorio) non può essere proposta dalla società non più esistente (dunque dall'ex liquidatore o amministratore, oramai privato di ogni potere al riguardo), ma solo dagli ex soci subentrati nella titolarità del diritto controverso. In questo senso ogni eventuale riferimento operato in sentenza alla società è errato, dal momento che quest'ultima, una volta cancellata dal Registro delle imprese, non avrebbe potuto validamente intraprendere alcuna causa, né esservi convenuta. Sul piano sostanziale l'unico limite posto dalle Sezioni Unite alla giustiziabilità di tali situazioni da parte degli ex soci è costituito dalla natura del diritto/bene oggetto della domanda di tutela, nel senso che dal meccanismo successorio in parola devono ritenersi escluse le "mere pretese", che non corrispondono ancora ad un bene o diritto certi, già ricompresi nel patrimonio sociale e dunque iscrivibili in bilancio, così come i diritti di credito ancora incerti o illiquidi. Non è questo, però, il caso di specie, posto che l'azione degli ex soci, alla luce di quanto sopra esposto, era finalizzata all'accertamento di un credito certo, liquido ed esigibile e cioè di una situazione avente la consistenza di diritto soggetto perfetto. |