La problematica dell'esterovestizione per le multinazionali: uno studio di Assonime

Fabio Gallio
Simone Furian
10 Agosto 2017

Nella Nota e studio n. 17 del 2016, Assonime affronta le principali problematiche di natura societaria e tributaria che le multinazionali incontrano. Tra gli argomenti trattati, Vi è anche quello dell'esterovestizione. Tema che riguarda le multinazionali con capogruppo in Italia che si espandono nei mercati esteri attraverso le subsidiaries. Le criticità nascono dal fatto che si contesta la riconducibilità alla potestà impositiva nazionale della subsidiary estera, quale insediamento fittizio o gestito direttamente dall'Italia. Di seguito un'attenta disamina degli Autori.
Premessa

Nella Nota e studio n. 17 del 2016, Assonime affronta le principali problematiche di natura societaria e tributaria che le multinazionali incontrano.

Tra gli argomenti trattati, Vi è anche quello dell'esterovestizione.

Una delle più diffuse contestazioni effettuate dai verificatori si basa sull'eccezione che le società estere, controllate dall'Italia, sarebbero soggette alla penetrante attività di direzione della controllante italiana e prive di un'effettiva autonomia anche rispetto alla gestione operativa del loro business. In altri termini, l'attività di direzione e coordinamento svolta dalla holding farebbe presumere l'esterovestione in capo alle società estere, anche nel caso in cui siano assolutamente autonome dal punto di vista dell'autonomia gestionale.

Inoltre la Circolare Assonime n. 10 del 2 maggio 2017 è intervenuta a fare il punto sulle “holding passive” nelle operazioni internazionali, considerato che tali entità costituiscono uno strumento di pianificazione fiscale internazionale che, talvolta, può sfociare in fenomeni elusivi e di esterovestizione.

Di un argomento strettamente connesso a quello dell'esterovestizione, se ne è occupata anche l'Agenzia delle Entrate che, nella Circolare n. 6/E del 30 marzo 2016, nell'illustrare la posizione che gli Uffici finanziari devono assumere in relazione alle operazioni di leveraged buy-out, affronta la problematica concernente i soggetti intermedi, generalmente situati all'estero, che si frappongono nell'ambito di una catena partecipativa al presumibile scopo di evitare che i proventi generati dall'operazione, percepiti sotto forma di dividendi o plusvalenze, possano essere assoggettati a imposizione in Italia, beneficiando del regime di esenzione da ritenute previsto dalla Direttiva madre-figlia piuttosto che dei benefici convenzionali.

Anche la Corte di Cassazione, con le sentenze del 28 dicembre 2016, nn. 27112, 27113, 27115 e 27116, è intervenuta sulla questione e, in particolare, ha cercato di chiarire in quali termini debba essere intesa la clausola convenzionale del “beneficiario effettivo”.

Un'importante sentenza della Corte di Cassazione che si è occupata di esterovestizione è quella del 30 ottobre 2015, n. 43809, che relativa al caso di un importante gruppo di moda, ha statuito importanti principi al fine di verificare se e quando una società estera, controllata da capogruppo italiana, possa essere considerata fiscalmente residente in Italia.

La residenza fiscale delle persone giuridiche

Per esterovestizione si intende, in termini generali, l'allocazione fittizia, da parte di un contribuente, della propria residenza fiscale in un Paese estero al fine di sottrarre alla potestà impositiva dello Stato i redditi prodotti.

Come noto, il nostro ordinamento tributario è fondato sul cosiddetto worldwide taxation principle, secondo cui i redditi ovunque prodotti da soggetti fiscalmente residenti in Italia, sono soggetti alla potestà impositiva dello Stato; conseguentemente, se un soggetto formalmente residente all'estero viene qualificato, a seguito di verifica, come esterovestito “il soggetto estero si considera, ad ogni effetto, residente nel territorio dello Stato e sarà quindi soggetto a tutti gli obblighi strumentali e sostanziali che l'ordinamento prevede per le società e gli enti residenti”. (cfr. Circolare Agenzia delle Entrate 4 agosto 2006 n. 28/E)

Ciò premesso, risulta fondamentale analizzare, in primo luogo, quando una persona giuridica possa essere considerata fiscalmente residente in Italia e, quindi, per converso quando possa essere contestata l'esterovestizione ad un contribuente formalmente non residente ai fini fiscali in Italia.

L'art. 73, co. 3, TUIR, stabilisce che “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato”.

Tale norma, in sintesi, prevede tre criteri tra loro alternativi:

  • la sede legale, che si identifica con la sede sociale indicata nell'atto costitutivo o nello statuto;
  • la sede dell'amministrazione, che coincide con il luogo in cui viene svolta concretamente l'attività di gestione quotidiana dell'impresa;
  • l'oggetto principale dell'attività, che per le società e gli enti residenti è determinato in base alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto, quando esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, o, in mancanza di tali forme, in base all'attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato (cfr. successivo comma 4 del medesimo art. 73).

L'alternatività di tali criteri e l'assenza di un criterio di prevalenza tra gli stessi comporta che al verificarsi di uno solo di questi elementi il soggetto possa essere considerato fiscalmente residente in Italia e, quindi, soggetto alla potestà impositiva dello Stato per tutti i redditi ovunque prodotti (cfr. Sentenza Corte di Cassazione 23 febbraio 2012 n. 7080, dove viene precisato che “I criteri indicati nell'art. 73 sono collegati da una “o” disgiuntiva, di conseguenza la sussitenza di uno solo di essi può permettere di individuare la residenza fiscale della società in Italia”).

La sede legale

La sede legale costituisce il requisito di carattere formale e può essere identificata concretamente con la sede sociale indicata nell'atto costitutivo.

Infatti, dal momento che, in ambito fiscale, non è rinvenibile una definizione di sede legale, occorre fare riferimento alle disposizioni sulla sede societaria contenute nel codice civile, quindi, in primis, all'art. 2328 e all'art. 16, co. 1., del cod. civ., che prevedono l'indicazione della sede societaria nell'atto costitutivo e nello statuto (come evidenziato in dottrina, la sede legale rappresenta il criterio di incardinamento della società all'interno di un ordinamento giuridico che fissa le regole per la creazione, l'esistenza, i rapporti sociali, la governance e, infine, la cessazione di tale istituzione giuridica; la sede legale, quindi, non è un elemento irrilevante, ma esprime l'ordinamento giuridico in cui la “fictio iuris” societaria si incardina, dai cui pubblici poteri viene garantita, nella nascita, nella vita e nella morte (cfr., Amatucci A., Lupi R., “Per la residenza rileva l'attività della società, del socio o del “gruppo”?”, Dialoghi Tributari n. 6/2011).

Tuttavia, anche sul piano civilistico, è riconosciuta l'eventualità che il luogo in cui è svolta concretamente l'attività economica effettiva della società possa non coincidere con il luogo in cui è ubicata la sua sede istituzionale, con la conseguenza che, in tal caso, secondo la volontà del legislatore, ai fini della residenza occorre dare rilevanza non solo al dato formale, ma al dato sostanziale. Infatti, l'art. 46 del c.c., con particolare riferimento al concetto di residenza, stabilisce che: “Quando la legge fa dipendere determinati effetti dalla residenza o dal domicilio, per le persone giuridiche si ha riguardo al luogo in cui è stabilita la loro sede. Nei casi in cui la sede stabilita ai sensi dell'articolo 16 o la sede risultante dal registro è diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest'ultima”.

Ciò considerato, è facile comprendere come, seppur i tre criteri previsti dall'art. 73 del TUIR siano alternativi e non vi sia un ordine gerarchico di prevalenza, l'elemento formale della sede legale non assume particolare importanza ai fini della determinazione della residenza fiscale in Italia, soprattutto in ragione della facile manipolabilità dello stesso. Tale assunto è ancora più evidente laddove si voglia verificare l'eventuale esterovestizione di un soggetto; infatti, in tale caso, ovviamente la sede legale sarà posta in un Paese estero e solo il verificarsi di uno degli altri due criteri di collegamento previsti dalla normativa fiscale, ossia l'oggetto sociale e la sede dell'amministrazione, potrà eventualmente qualificare il soggetto come esterovestito.

L'oggetto principale

Il criterio sostanziale dell'oggetto principale trova specificazioni nel co. 4 del citato art. 73, secondo cui: “L'oggetto esclusivo o principale dell'ente residente è determinato in base alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Per oggetto principale si intende l'attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto.”; e nel successivo co. 5, ove si legge: “in mancanza dell'atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l'oggetto principale dell'ente residente è determinato in base all'attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applica in ogni caso agli enti non residenti.”.

Quindi, le disposizioni fiscali, pur recando una prima previsione di carattere formale, a norma della quale l'oggetto principale è determinato in base alla legge, all'atto costitutivo e allo statuto, sono completate da una seconda previsione di carattere sostanziale, secondo cui, ai fini della localizzazione dell'oggetto principale, occorre considerare dove è concretamente posta in essere l'attività effettivamente esercitata dalla società o dall'ente, che potrebbe anche non corrispondere al dato formale risultante dall'atto costitutivo e dallo statuto.

Pertanto, ai fini dell'individuazione dell'oggetto principale rileva l'attività posta in essere per soddisfare lo scopo sociale. Si noti che tale accezione coincide con quella rinvenibile sul piano civilistico; infatti, nell'art. 2328, co. 2, n. 3, per le società per azioni, e nell'art. 2463, per le società a responsabilità limitata, del cod. civ. è previsto l'obbligo di indicare nell'atto costitutivo “l'attività che costituisce l'oggetto sociale” (sempre in ambito civilistico, l'art. 2380-bis del c.c. prevede che “La gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale”).

L'oggetto principale dell'attività, quindi, sia dal punto di vista civilistico che fiscale, rappresenta tutte quelle attività essenziali, senza le quali gli scopi per cui l'impresa è stata costituita non potrebbero essere realizzati.

Nei casi in cui vi sia un immediato e forte radicamento con un determinato territorio (si pensi, ad esempio, ad un negozio) la localizzazione dell'agire sociale può risultare agevole; tuttavia, nei casi in cui oggetto dell'analisi siano società multinazionali, con sedi operative in più Paesi, sarà necessario accertare la prevalenza dell'attività espletata in Italia rispetto a quella espletata all'estero.

In detti casi, occorrerà individuare su quale territorio l'impresa ha localizzato il proprio “core business”, ovvero la principale attività commerciale, industriale e amministrativa, tenendo presente che tale luogo non coincide necessariamente con quello in cui si trovano i beni principali posseduti dalla persona giuridica, dovendosi piuttosto fare riferimento “alle caratteristiche dell'attività svolta e alla natura dei beni posseduti, al fine di verificare se il loro utilizzo, ai fini dello svolgimento dell'attività dell'ente, richieda o meno una presenza in loco.” (cfr. Circolare Assonime 31 ottobre 2007, n. 67).

Ulteriori elementi per l'individuazione dell'oggetto principale sono stati forniti dalla stessa Guardia di Finanza, nella Circolare 29 dicembre 2008 n. 1, dove è stato evidenziato che “si ritiene in genere necessario prendere in considerazione lo svolgimento dell'attività per il cui esercizio la società è stata costituita, nonché gli atti produttivi e negoziali ed i rapporti economici che la stessa pone in essere con i terzi” (richiamando anche la Sentenza della Corte di Cassazione 9 giugno 1998 n. 3910, secondo cui “l'oggetto principale dell'attività corrisponde all'attività esercitata in concreto ed in via primaria dalla società”).

Per accertare la localizzazione dell'oggetto principale, dunque, occorre fare principalmente riferimento ai rapporti economici che l'ente pone in essere con i terzi, nonché, a titolo esemplificativo, ad altri dati sostanziali, materialmente riscontrabili, quali la localizzazione degli investimenti, la sede degli impianti produttivi e/o di stoccaggio e la sede degli uffici dove si svolgono le funzioni amministrativo-contabili.

Tuttavia, nessuno dei predetti elementi osservato individualmente può essere di per sé considerato sufficiente all'accertamento del luogo dell'oggetto principale (in particolare non è sufficiente per individuare il luogo dell'oggetto principale fare riferimento esclusivamente al mercato di destinazione, al mercato di approvvigionamento o al luogo ove si realizza la maggior parte del fatturato (cfr. Valente P., “Esterovestizione e residenza”, IPSOA 2013); l'attività d'impresa, infatti, non può essere identificata con i singoli affari, in quanto costituisce un “complesso di atti diretti ad un fine”, che trascende la dimensione ristretta delle singole operazioni commerciali, richiedendo un “quid pluris” rispetto allo svolgimento di una serie di tali operazioni (cfr. Sentenza Corte di Cassazione 26 febbraio 1990 n. 1439).

Considerata l'ampiezza della nozione di oggetto principale, si comprende come l'oggetto principale e il concetto di sede dell'amministrazione siano, almeno parzialmente, dei concetti intrecciati; del resto, in sede internazionale, ossia nelle “osservazioni” contenute nel Commentario all'art. 4 del Modello OCSE, l'Amministrazione finanziaria italiana, al fine di salvaguardare i principi di effettività propri dell'ordinamento interno, ha ritenuto necessario precisare che, per l'individuazione della sede di direzione effettiva di un ente, si deve considerare non solo il luogo di svolgimento della sua attività direttiva e amministrativa, ma anche il luogo in cui è esercitata la sua attività principale.

La sede dell'amministrazione

Considerato quanto precedentemente evidenziato in merito agli altri due criteri, la sede dell'amministrazione risulta essere il criterio fondamentale per determinare la residenza fiscale di una società o ente, anche in considerazione della sua valenza internazionale come criterio convenzionale (c.d. tie-break rule) previsto dal Modello OCSE per risolvere i conflitti di residenza.

In evidenza:
In tal senso, vedasi la Corte di Cassazione con la Sentenza 23 febbraio 2012 n. 7080 e Corte di Cassazione con la Sentenza 7 febbraio 2013 n. 2869, dove si afferma che la sede dell'Amministrazione rappresenta il criterio decisivo, sia in ambito convenzionale che domestico, per accertare la residenza fiscale di una società, declassando a criterio residuale quello dell'oggetto sociale. In particolare, la Cassazione, nella Sentenza 23 febbraio 2012 n. 7080, ha rilevato che il criterio dell'oggetto sociale ha un ruolo residuale rispetto alla sede dell'amministrazione, divenendo applicabile solo quando l'altro non si sia verificato per la maggior parte del periodo di imposta. In merito, alcuni commentatori hanno obiettato che tale conclusione appare poco condivisibile in quanto - sebbene l'oggetto sociale costituisca in ambito convenzionale una tie-break rule residuale rispetto alla sede legale e alla sede amministrativa, applicata solo se le precedenti non sono efficaci - la norma italiana prevede un'alternatività tra i criteri, ponendoli a pari livello, al medesimo rango e senza vincoli di subordinazione (cfr., in merito, Pennesi M., Benigni C., “Esterovestizione: la sede dell'amministrazione determina la residenza fiscale”, Corriere Tributario, n. 24/2012).

Il concetto di sede dell'amministrazione è stato nel tempo oggetto di diversi interventi sia da parte dell'Amministrazione Finanziaria, sia della giurisprudenza che della dottrina; ciò nonostante non è dato rinvenire una definizione univoca e, ancor meno, una check list di elementi di prova che permettano inequivocabilmente di fugare qualsiasi dubbio sulla localizzazione della sede dell'amministrazione.

Pertanto, nel seguito si riporta una rassegna degli interventi dell'Amministrazione Finanziaria e della giurisprudenza al fine di evidenziare i caratteri salienti che definiscono la sede dell'amministrazione e che possono utilmente orientare nell'individuazione del luogo della sede dell'amministrazione.

L'Amministrazione Finanziaria ha specificato che gli elementi di collegamento al territorio dello Stato italiano della legal entity estera, “devono essere valutati in base ad elementi di effettività sostanziale e richiedono - talora - complessi accertamenti di fatto del reale rapporto della società o dell'ente con un determinato territorio.” (cfr. Circolare Agenzia Entrate 04 agosto 2006 n. 28/E).

Risulta, quindi, evidente che la nozione di sede dell'amministrazione deve intendersi nel senso di sede di direzione effettiva, ossia del luogo in cui si svolge concretamente l'attività di amministrazione, gestione e coordinamento dei fattori produttivi aziendali. Infatti, l'Agenzia delle Entrate, ribadendo quanto sostenuto in ambito internazionale nelle Osservazioni al paragrafo 24 del Commentario OCSE (secondo il quale la sede di direzione effettiva è il luogo dove sono sostanzialmente adottate le decisioni chiave sul piano gestorio e commerciale necessarie per l'attività dell'ente ed è, pertanto, da individuare nel luogo in cui la persona o il gruppo di persone, che esercitano le funzioni di rango più elevato, prendono ufficialmente le correlate decisioni), ha precisato che la sede di direzione effettiva di un ente “debba definirsi non soltanto come il luogo di svolgimento della sua prevalente attività direttiva e amministrativa, ma anche come il luogo ove è esercitata l'attività principale” (cfr. Circolare Agenzia delle Entrate 04 agosto 2006 n. 28/E).

Quindi, la sede legale costituita all'estero non assume rilevanza qualora, da un esame della situazione sostanziale ed effettiva dell'impresa sotto il profilo gestionale della stessa, emerga che gli impulsi decisionali, le strategie aziendali, la direzione e il coordinamento, sono esercitati sul territorio italiano.

Il richiamo ad elementi di effettività sostanziale è stato nuovamente affermato, seppur indirettamente, anche nel Protocollo del Ministero dell'Economia e delle Finanze 12/04/2010 n. 3-3873 (in cui venivano fornite risposte alla richiesta di informazioni da parte della Commissione Europea in merito alla presunzione di residenza fiscale in Italia di società ed enti aventi sede in altri Stati membri, ai sensi dell'art. 73, commi 5-bis, 5-ter e 5-quater), ove, in merito alle modalità con cui il contribuente può provare l'effettiva residenza all'estero, richiamando la precedente Risoluzione Agenzia Entrate 5 novembre 2007 n. 312/E, veniva precisato che la prova può essere liberamente fornita “sulla base non solo del dato documentale, ma anche sulla base di tutti gli elementi concreti da cui risulti, in particolare, il luogo in cui le decisioni strategiche, la stipulazione dei contratti e le operazioni finanziarie e bancarie siano effettivamente realizzate”.

Pertanto, secondo l'Amministrazione Finanziaria, è da ritenersi rilevante la documentazione comprovante il periodico svolgimento delle riunioni del consiglio di amministrazione unitamente all'evidenza che tali riunioni sono tenute presso la sede sociale con la partecipazione dei diversi consiglieri, nonché la dimostrazione dell'effettivo svolgimento in loco della gestione operativa da parte dei membri del Consiglio di amministrazione che detengono ed esercitano concretamente i poteri decisionali. In particolare, costituisce sicuramente un significativo elemento probatorio della residenza all'estero l'autonomia accordata agli amministratori esteri con riferimento all'organizzazione del personale, alle decisioni di spesa, alla stipula dei contratti, i cui indicatori possono essere rappresentati dagli atti di gestione adottati e dall'attività negoziale posta in essere, quali direttive interne, contratti di natura commerciale o finanziaria, corrispondenza e documenti che precedono o integrano le trattative commerciali cui è orientata la strategia aziendale.

Quanto alla giurisprudenza, invece, si può riscontrare un sostanziale allineamento delle diverse pronunce nell'individuare la sede effettiva dell'amministrazione delle persone giuridiche nel “luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell'attività dell'ente” (cfr. Sentenza Corte di Cassazione 16 giugno 1984 n. 3604).

Ancora, secondo la Corte di Cassazione “la sede di direzione effettiva non coincide con il luogo in cui si trova un recapito della persona giuridica, ma si identifica con il luogo dove si svolge la preminente attività direttiva ed amministrativa dell'impresa”. (cfr. Sentenza Corte di Cassazione 9 giugno 1988 n. 3910).

Conseguentemente, la sede di direzione effettiva non può coincidere semplicemente con il luogo in cui si trovano i beni della società, i suoi stabilimenti e dove si svolge l'attività produttiva, ma deve essere individuata nel luogo “in cui abbiano effettivo svolgimento anche l'attività amministrativa e direzionale, ove cioè risieda il suo legale rappresentante, i suoi amministratori e dove sono convocate le assemblee societarie”.

In evidenza:

Si noti come tale impostazione sia allineata con le pronunce della giurisprudenza comunitaria. Infatti, nella Sentenza delle Corte di Giustizia Europea 28 giugno 2007 n. C-73/06, Planzer Luxembourg Sarl, è stato affermato che la sede dell'amministrazione è definibile come “il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale di tale società ed in cui si sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest'ultima. Di conseguenza, un insediamento fittizio, come quello caratterizzato da una società casella postale o schermo, non potrebbe essere definita sede di una attività economica […]”.

In tal senso risulta emblematica la Sentenza della Corte di Cassazione, sezione penale, 24 luglio 2013 n. 32091 in cui la Corte ha attribuito prevalenza, ai fini della verifica dell'esterovestizione della società, all'accertamento in Italia del luogo dove venivano prese le decisioni strategiche, industriali e finanziarie della società rispetto al luogo dove effettivamente era presente l'insediamento produttivo. Tale impostazione è poi stata ulteriormente assunta dalla Corte di Cassazione penale nella Sentenza 30 settembre 2014 n. 40327.

Secondo tale impostazione, pertanto, è di fondamentale importanza la distinzione tra il luogo in cui le decisioni sono assunte e quello in cui sono semplicemente e formalmente approvate; l'individuazione della sede dell'amministrazione, infatti, dovendosi fondare sulla preminenza del dato sostanziale rispetto a quello formale, implica la necessità di individuare il luogo in cui vengono prese in considerazione le possibili opzioni e sono assunte le decisioni definitive.

La ricerca della sede dell'amministrazione, dunque, dovrà dirigersi verso il luogo in cui, tramite gli amministratori e in generale il management, “la società svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa per l'esercizio dell'impresa, cioè il centro effettivo dei suoi interessi, dove la società vive ed opera, dove si trattano gli affari e dove i diversi fattori dell'impresa vengono organizzati e coordinati per l'esplicazione ed il raggiungimento dei fini sociali” (cfr.: Sentenza Corte di Cassazione 22 gennaio 1958, n. 136; Sentenza Corte di Cassazione 4 otoobre 1988, n. 5359; Sentenza Corte di Cassazione 9 giugno 1988, n. 3910.)

In particolare, nell'individuare i soggetti dotati degli effettivi poteri decisionali occorrerà fare riferimento non ai soggetti formalmente titolari della qualifica o carica cui questi poteri sono generalmente associati, ma a coloro che concretamente assumono le decisioni. Emblematica in tal senso è la Sentenza della Commissione Tributaria Centrale 10/10/1996 n. 4992, con la quale è stato ritenuto che la sede amministrativa di un soggetto estero fosse in Italia dato che l'attività dei rappresentanti della società sul territorio italiano si sostanziava, di fatto, nello svolgimento dei compiti e nell'esercizio dei poteri degli amministratori e non di quelli propri di semplici rappresentanti.

In evidenza: CTP Savona n. 46/2011
Con la Sentenza 10 marzo 2011 n. 46 della Commissione Tributaria Provinciale di Savona, nel decidere in ordine a un caso di asserita esterovestizione, con particolare riferimento agli elementi sostanziali che individuano la sede dell'amministrazione, è stata ritenuta residente in Italia una società formalmente costituita in Lussemburgo, sulla base di una pluralità di elementi considerati attestanti il legame prevalente, se non esclusivo con l'Italia. Nel dettaglio, mentre la società ricorrente adduceva come elementi indicativi della residenza all'estero il fatto che in Lussemburgo si trovasse la sede legale, che lì venissero verbalizzate le assemblee e venisse tenuta la contabilità, i giudici di primo grado hanno ritenuto assolutamente prevalenti altri elementi indicanti l'assunzione in Italia di tutte le decisioni effettive sulla vita della società, quali: scritture ed accordi interni con cui si attribuivano poteri di gestione esclusivi a soggetti italiani, obblighi di firma congiunta con l'amministratore italiano per gli amministratori stranieri della società a fronte del potere di firma singola e disgiunta in capo all'amministratore italiano, stipula e registrazione sempre in Italia di tutti i negozi giuridici, sottoscrizione di tutti gli atti e contratti della società sempre da parte dei soli amministratori italiani, nonché email interne dalle quali era possibile evincere che gli organi formali della società in Lussemburgo si limitavano a ratificare le decisioni prese dai soggetti operanti in Italia.

Inoltre, considerato che oggi gli amministratori, con l'ausilio della tecnologia, possono partecipare alle riunioni della società estera da ogni parte del mondo, appare evidente come elementi quali la residenza degli amministratori, piuttosto che il luogo in cui vengono convocate e verbalizzate le assemblee, seppure in grado di fornire alcuni elementi indicativi, non sono da soli sufficienti a garantire sostanzialità e certezza al criterio della sede amministrativa della persona giuridica.

La sede dell'amministrazione potrà, pertanto, essere concretamente individuata nell'effettivo luogo in cui il consiglio di amministrazione o l'organo gestorio si riunisce e delibera, oppure, nei casi di delega, nel luogo in cui la delega viene materialmente adempiuta, sempreché non si rilevi una mera ripetizione non autonoma delle decisioni già prese in sede di consiglio; sempre in una visione sostanzialistica del criterio, potrà essere valorizzato altresì il luogo in cui viene convocata l'assemblea dei soci, purché sia dimostrabile che questi detengono nel concreto l'effettivo potere gestorio, o, addirittura, nel luogo di residenza di un socio nell'ipotesi in cui il suo grado di ingerenza nell'amministrazione della società o dell'ente sia tale da ritenere che la società o l'ente stesso non costituiscano altro che una sua mera appendice (cfr. Fondazione Centro Studi Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti, Circolare 20 maggio 2009 n. 7).

Da ultimo, possono essere considerati rilevanti al fine dell'individuazione del luogo della sede dell'amministrazione i seguenti elementi sintomatici (cfr. Valente P., “Esterovestizione e residenza”, IPSOA 2013):

  • l'atto costitutivo e le regole che disciplinano la gestione della società estera;
  • il luogo dove si riuniscono gli amministratori e l'assemblea dei soci;
  • il luogo dove si svolgono con regolarità le attività amministrative e di gestione dell'impresa;
  • il luogo dove risiedono gli amministratori e se questi sono in prevalenza italiani o stranieri;
  • la disponibilità sul territorio nazionale di conti correnti che la società utilizza per finanziare lo svolgimento delle attività sociali;
  • il luogo dove risulta collocata l'organizzazione dell'impresa, in termini di uomini, di mezzi e di risorse finanziarie necessarie per lo svolgimento dell'attività d'impresa;
  • il luogo di recapito delle lettere di convocazione del consiglio di amministrazione e dell'assemblea dei soci;
  • la corrispondenza via fax o via mail dalla quale emergono elementi idonei a dimostrare che la sede di direzione effettiva della società è localizzata sul territorio nazionale.

Ovviamente, questi elementi rappresentano un'esemplificazione non esaustiva, in quanto l'individuazione del luogo di ubicazione della sede dell'amministrazione richiede in ogni caso un'indagine specifica e molto articolata, fondata su un approccio “case by case” in ordine all'esercizio dei poteri gestionali del soggetto economico, al fine di determinare i soggetti cui compete, nel concreto, la determinazione delle più importanti scelte strategiche dell'impresa (cosiddette “key decisions”).

La presunzione legale di residenza fiscale

Al fine di rendere più agevole l'attività di controllo da parte dell'Amministrazione Finanziaria, con il D.L. n. 223/2006 (cfr. art. 35, commi 13 e 14, del D.L. n. 223/2006) è stato inserito nel nostro ordinamento giuridico un meccanismo presuntivo che comporta un'inversione dell'onere della prova in relazione alla collocazione in Italia della sede amministrativa per la maggior parte del periodo d'imposta, e, quindi, in ordine alla residenza fiscale, al ricorrere di due fattispecie:

  • quella in cui il soggetto estero controlli una società o un ente italiano (cosiddetto controllo “attivo”) e sia a sua volta controllato da soggetti residenti in Italia (cosiddetto controllo “passivo”);
  • quella in cui il soggetto estero controlli una società o un ente italiano e sia amministrato in prevalenza da soggetti residenti in Italia.

In evidenza:

Infatti, il co. 5-bis dell'art. 73 del TUIR dispone che “Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell'amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell'art. 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:

a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell'articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;

b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato”.

Successivamente, con l'art. 82, co. 22, del D.L. n. 112/2008, è stata introdotta un'ulteriore misura a contrasto del fenomeno dell'esterovestizione, relativa, tuttavia, ad una fattispecie piuttosto particolare, ossia quella degli operatori economici non residenti che investono in fondi comuni di investimento immobiliare italiani, spesso efficacemente impiegati per dissimulare forme di esterovestizione altrimenti represse dalla fattispecie di cui al co. 5-bis.

La disciplina del co. 5-bis, quindi, non ha introdotto nuovi criteri di collegamento fra soggetti passivi e territorio dello Stato, né ha modificato quelli previsti dall'art. 73, co. 3, del T.U.I.R., dato che non affianca ai criteri della sede legale, della sede dell'amministrazione e dell'oggetto principale un ulteriore criterio. Quindi, la norma inclusa nel co. 5-bis non ha carattere sostanziale ma esclusivamente procedurale (si può osservare come, anche anteriormente alle modifiche introdotte dal D.L. n. 223/2006, la normativa italiana in materia di residenza fiscale conteneva già una sorta di “presunzione” legale, rappresentata dalla previsione secondo cui i soggetti esteri che hanno nel territorio dello Stato la sede dell'amministrazione si considerano fiscalmente residenti nello Stato italiano; infatti, tale disposizione presenta tutte le caratteristiche della presunzione assoluta, che però, per alcuni caratteri distintivi, viene di fatto a coincidere con un criterio di imposizione. Sulla scorta di tale assunto, la norma contenuta nel co. 5-bis viene a costituire una presunzione relativa di secondo livello a supporto di una presunzione assoluta di primo livello).

Come osservato da Assonime (cfr. Circolare Assonime 31 ottobre 2007, n. 67), in base al dettato normativo, la presunzione opera, al ricorrere dei requisiti indicati, nei confronti del soggetto estero a prescindere sia dalla sua qualificazione o meno come holding sia dalle caratteristiche dell'ordinamento tributario dove è collocata la sede legale; ciò implica che la disposizione in esame ha carattere trasversale e può colpire, a stretto rigore, qualsiasi tipo di società ed ente collocato in Paesi con regimi fiscali equivalenti o, addirittura, più gravosi rispetto a quello italiano ovvero soggetti che, oltre a detenere partecipazioni, hanno per oggetto principale lo svolgimento di altre attività nello Stato in cui hanno la sede legale o altrove.

In evidenza:
Secondo Assonime, sotto questo aspetto, quindi, la disciplina del co. 5-bis dell'art. 73, si differenzia dal regime delle cosiddette CFC di cui agli artt. 167 e 168 del TUIR, volto a contrastare, invece, la delocalizzazione in territori a bassa fiscalità di società controllate da soggetti italiani o con essi collegate. Infatti, le disposizioni CFC rispondono sostanzialmente all'esigenza di contrastare fenomeni di tax deferral, ossia casi in cui un soggetto residente, di fatto, possa rinviare sine die la tassazione in Italia degli utili prodotti in Paesi a fiscalità privilegiata. Anche da un punto di vista applicativo emerge la diversa impostazione delle due normative; infatti, mentre la disciplina CFC comporta un'imputazione del reddito prodotto dal soggetto estero ai soggetti residenti controllanti in proporzione alle partecipazioni da questi detenute, la disposizione del co. 5-bis prevede la diretta riqualificazione del soggetto estero come soggetto fiscalmente residente in Italia e, per l'effetto, il suo assoggettamento a tassazione in Italia per tutti i redditi ovunque prodotti, nel rispetto del principio della worldwide taxation.

La detenzione di partecipazioni in società ed enti residenti in Italia da parte del soggetto estero rappresenta l'assunto della presunzione in esame; nello specifico, la norma richiama esplicitamente il concetto di controllo di cui all'art. 2359 c.c., che contempla tre ipotesi:
  • il controllo di diritto, che si configura nel caso in cui una società disponga della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria di un'altra società;
  • il controllo di fatto, che si configura allorquando una società dispone di una quantità di voti sufficiente per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria dell'altra;
  • il controllo che si configura quando una società si trova sotto l'influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali.

Tuttavia, dal momento che il dettato normativo fa riferimento alla “detenzione di partecipazioni di controllo” è opinione consolidata che il controllo debba essere esercitato tramite il possesso partecipativo e che, pertanto, la nozione di controllo rilevante sia solamente quella di cui ai nn. 1) e 2), del co. 1, dell'art. 2359, cod. civ., ossia del controllo di diritto e del controllo di fatto.

Il controllo di diritto non pone particolari problemi in termini di verifica della sussistenza, essendo essenzialmente una verifica giuridico formale; diversamente il controllo di fatto dovrà essere apprezzato sulla base di vari elementi, quali la particolare polverizzazione del capitale, l'assenteismo dei soci in assemblea e qualsiasi altro elemento idoneo a dimostrare la capacità di una società di imporre la sua volontà nelle decisioni assembleari di un'altra società.

In evidenza
Cfr.: Circolare Assonime 31 ottobre 2007 n. 67; AA.VV., “Diritto delle società”, Giuffrè Editore, 2008. Inoltre, si evidenzia che non sono chiari gli effetti sulla presunzione dell'esistenza di un eventuale patto parasociale che impedisca, pur disponendo di una maggioranza assoluta di diritti di voto, l'esercizio di un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria di un'altra società. Secondo una prima interpretazione, sulla base dell'orientamento espresso dall'Agenzia delle Entrate nella Risoluzione 01/09/2009 n. 245/E in relazione alla disciplina del consolidato fiscale, la presunzione non dovrebbe perdere efficacia, atteso che il requisito del controllo di cui all'art. 2359, co. 1, n. 1, c.c., deve essere verificato a prescindere dalla reale influenza decisionale all'interno del gruppo da parte di una società e senza tenere conto di quanto disposto da determinate clausole statutarie, anche ove assegnino il controllo di fatto ad un socio di minoranza. Secondo un altro orientamento, invece, l'esistenza di un tale patto non dovrebbe far ritenere operante la presunzione, posto che la stessa Agenzia delle Entrate in riferimento agli accertamenti in materia di esterovestizione ha da sempre affermato la necessità di rispettare il principio della prevalenza della sostanza sulla forma (cfr. Thione M., “L'esterovestizione societaria: disciplina sostanziale e profili operativi”, Il Fisco, n. 4/2010).

Il cosiddetto controllo “attivo”, comune ad entrambe le fattispecie presuntive, anche se esplicitato dalla norma, ha natura di controllo diretto (infatti, l'Amministrazione finanziaria ha avuto modo di precisare che “consente all'Amministrazione finanziaria di presumere (“salvo prova contraria”) l'esistenza nel territorio dello Stato della sede dell'amministrazione di società ed enti che detengono direttamente partecipazioni di controllo […] ” (cfr. Circolare Agenzia Entrate 04/08/2006 n. 28/E)).

Diversamente in relazione al controllo “passivo”, la norma non pone alcun riferimento al possesso partecipativo tramite cui il controllo si esplichi concretamente; conseguentemente, in questo caso il concetto di controllo risulta notevolmente ampliato, comprendendo non solo le tipologie di controllo di diritto e di fatto, ma anche la fattispecie dell'influenza dominante. Anche in tale caso l'accertamento di una situazione di influenza dominante potrebbe essere particolarmente difficile, dovendosi ponderare i contratti (a titolo esemplificativo, potrebbero essere considerati contratti idonei a configurare una situazione di influenza dominante: i contratti di franchising, licenza, agenzia, brevetto, fornitura esclusiva e, in generale, tutti quei contratti che sono fondamentali per lo svolgimento dell'attività d'impresa di una delle due società) in essere e le ripercussioni in tema di capacità di controllo che si determinano fra i soggetti.

Inoltre, il concetto di controllo “passivo” risulta decisamente più ampio di quello “attivo” visto che è contemplato dalla norma che tale controllo possa essere anche indiretto (in merito al controllo “passivo” indiretto si ricorda che, con la Circolare 04/08/2006 n. 28/E, l'Agenzia delle Entrate ha chiarito che, anche nell'ipotesi in cui tra i soggetti residenti controllati e controllanti si interpongano più sub-holding estere, la presunzione potrebbe trovare applicazione, non solo nei confronti della società estera che detiene partecipazioni in una società o ente residente e risulta controllata indirettamente dal soggetto italiano posto al vertice della catena, ma anche nei confronti di tutte le società intermedie (reiterando, quindi, verso l'alto la presunzione). Come evidenziato da Assonime, “Tale interpretazione muove dall'assunto che, una volta riqualificata in via presuntiva la residenza della sub-holding estera che direttamente controlla la società residente (e che è indirettamente controllata da soggetti residenti), lo stesso meccanismo presuntivo possa essere attivato anche nei confronti della holding estera inserita nell'anello immediatamente superiore della catena societaria, visto che questa si ritroverà, per effetto della presunzione, a controllare direttamente la sub-holding divenuta, in virtù della presunzione, residente in Italia.”(Circolare Assonime 31/10/2007 n. 67)).

Inoltre, secondo quanto previsto dall'art. 73, co. 5-ter, del TUIR, ai fini della verifica della sussistenza del controllo occorre fare riferimento alla situazione esistente alla data di chiusura dell'esercizio o del periodo di gestione del soggetto estero controllato, tenendo conto, per le persone fisiche, anche dei voti spettanti ai familiari di cui all'art. 5, co. 5, del medesimo TUIR (si ricorda che l'art. 5, co. 5, del TUIR dispone che “Si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”).

In merito, secondo quanto affermato dall'Agenzia delle Entrate nella Circolare 04/08/2006 n. 28/E, visto che il co. 5-bis contempla sia il controllo “attivo” che quello “passivo”, entrambi gli elementi dovrebbero sussistere alla data di chiusura dell'esercizio del soggetto estero.

In evidenza:
Tuttavia, adottando tale impostazione, la presunzione di residenza avrebbe una valenza estesa anche ai periodi d'imposta successivi, con la conseguenza che il soggetto estero riqualificato come residente per effetto della coesistenza del controllo attivo e di quello passivo alla data di chiusura dell'esercizio, rimarrebbe in tale status anche nei periodi d'imposta successiva finché perdurano i rapporti partecipativi di controllo. Ne deriva, quindi, che se al termine di un periodo d'imposta sono verificati entrambi i requisiti del controllo e in un periodo di imposta successivo il soggetto esterovestito dismetta la partecipazione di controllo verso la società residente in Italia, esso cesserebbe di ricadere nella presunzione, ma il realizzo della partecipazione sconterebbe comunque l'imposizione in Italia in quanto riferibile a un soggetto fino a quel momento residente. Secondo parte della dottrina, tale conclusione sarebbe eccessiva e in contrasto con i principi di proporzionalità, dal momento che la residenza va verificata in relazione al singolo periodo d'imposta e non su un arco pluriennale; in quest'ottica bisognerebbe considerare la situazione esistente a fine esercizio solo in relazione al controllo passivo e non anche a quello attivo, poiché, altrimenti, la presunzione risulterebbe inoperante proprio nel momento in cui il soggetto estero cede la partecipazione di controllo e non la possieda più alla data di chiusura dell'esercizio: il controllo attivo, quindi, dovrebbe sussistere per la maggior parte del periodo d'imposta. (cfr.: Assonime Circolare 31 ottobre 2007 n. 67; Stevanato D., “La presunzione di residenza delle società esterovestite: prime riflessioni critiche”, Corriere Tributario, n. 37/2006).

Le recenti pronunce giurisprudenziali: la sentenza relativa al caso “Dolce e Gabbana”

Della problematica dell'esterovestizione si è occupata recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza 43809/2015.

Infatti i giudici di legittimità si sono soffermati sulle principali condizioni che una società estera, controllata da un soggetto italiano, deve rispettare affinchè non possa definirsi residente fiscalmente in Italia.

In particolare, è stata esclusa la riqualificazione di residenza fiscale italiana eccepita a carico di una società lussemburghese, controllata da una società italiana, alla quale era stata contestata la mancata presentazione delle dichiarazioni dei redditi e dell'IVA in Italia.

Tale contestazione sia era basata sostanzialmente sul fatto che la sede amministrativa della società estera era stata fatta coincidere con “il luogo nel quale si assumono le decisioni strategiche o dal quale partono gli impulsi decisionali”. Dal momento che questo luogo era stato presunto con quello in cui aveva la sede la capogruppo, la residenza fiscale della società lussemburghese era stata riqualificata come italiana.

I giudici, però, hanno respinto le accuse ed hanno affermato il seguente principio.

La sede amministrativa dei soggetti diversi dalle persone fisiche si identifica nel luogo effettivo di direzione e di svolgimento della loro attività. Tale centro di interessi si trova dove risiedono gli amministratori, viene convocata e riunita l'assemblea sociale, si trovano coloro che hanno il potere di rappresentare la società, il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l'accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell'attività dell'ente, e nel quale dunque hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione, e dove operano gli amministratori e dipendenti.

In altri termini, la definizione di sede amministrativa si deve fondare su un criterio di effettività gestionale dell'impresa e si identifica, di fatto, con il luogo nel quale l'imprenditore svolge prevalentemente la sua attività amministrativa e direttiva.

Ciò lo si ricava da numerosi disposizioni normative. In particolare, viene fatto riferimento alla legislazione fallimentare (art. 9 del R.D. del 16 marzo 1942, n. 267, laddove viene specificato che il tribunale deputato alla dichiarazione di fallimento dell'imprenditore è quello del luogo in cui lo stesso svolge prevalentemente la sua attività amministrativa e direttiva), alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Lussemburgo (art. 4 di tale trattato, in cui si fa riferimento alla sede della direzione effettiva del soggetto interessato. In merito all'applicazione della Convenzione, la Suprema Corte ha sancito che le relative disposizioni sono applicabili automaticamente in Italia, in quanto la stessa è stata ratificata con una legge dello Stato italiano. Al contrario, non hanno efficacia di legge le direttive del commentario OCSE, e, pertanto, possono non avere rilevanza per il giudizio se non conformi alla normativa italiana, non essendo fonti di diritto.), ed a specifiche norme tributarie (art. 167 del TUIR (d.P.R. n. 917/1986), che disciplina l'istituto delle CFC e prevede che, al fine di evitare la tassazione per trasparenza in capo alla società italiana, la società controllata estera deve dimostrare l'effettivo svolgimento di un'attività. Tale norma confermerebbe ulteriormente come la tassazione in Italia di redditi prodotti all'estero dipende da come viene esercitata l'attività).

Al fine di stabilire la residenza fiscale, non è sufficiente, pertanto, che la società estera sia controllata da una società italiana dalla quale partono gli impulsi gestionali con le relative direttive.

Del resto, il rapporto di controllo è richiesto anche nella disciplina di specifici istituti, che regolano la tassazione in Italia degli utili prodotti all'estero; ma tale imposizione viene fatta dipendere, tra l'altro, dal mancato esercizio di un'attività effettiva nel Paese estero, come accade, ad esempio, per le società residenti nei cosiddetti “paradisi fiscali” o per le cosiddette “passive income”ex art. 167 del TUIR.

Al contrario, è necessario verificare se la società estera controllata da quella italiana non sia un costruzione di puro artifizio ma sia un'entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto.

La Corte di Cassazione giunge a tali conclusioni, facendo riferimento, non solo alla legislazione e alla giurisprudenza italiana, ma anche a quella internazionale.

In sintesi, viene fatto presente che l'imprenditore deve essere libero di svolgere la propria attività economica ai sensi dell'art. 42 della Costituzione e questo senza limitazioni alla libertà di stabilirsi in un altro Paese Europeo.

Tale esercizio dell'attività economica può essere effettuato attraverso un semplice ufficio sito all'estero, purchè questo sia dotato di risorse materiali e di personale. Non importa se tale modalità di svolgimento possa comportare una minimizzazione del carico fiscale, in quanto, questo, di per sé, è un obiettivo lecito.

La struttura estera, però, non deve essere stata costruita artificiosamente (ad esempio, utilizzando una semplice casella di posta) per usufruire unicamente di benefici fiscali.

La direzione ed il coordinamento in ambito fiscale

Tutta la categorizzazione sopra indicata sfuma quando si approccia al fenomeno delle esterovestizione in chiave di direzione e coordinamento.

Con la riforma societaria portata dal D.lgs. 17 gennaio 2003, n.6, sono stati introdotti gli artt. 2497-2497-septies c.c. in materia di direzione e coordinamento di società (la materia è stata commentata nella Circolare Assonime n. 44/2006), che attiene alla gestione accentrata di un'impresa economicamente unitaria, ma articolata in più soggetti giuridicamente autonomi, in cui si sostanzia il fenomeno del gruppo, e che si pone come oggetto di attenzione sia per la tutela degli interessi dei soci e dei creditori delle società controllate, ma anche gli eventuali risvolti fiscali.

Le norme del codice civile non introducono una definizione di gruppo: è invece l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di società da parte della capogruppo a divenire il presupposto per l'applicazione della nuova disciplina, intesa come dislocazione del processo decisionale fuori dall'organizzazione societaria delle controllate.

Il fenomeno è eloquentemente descritto da Assonime, quando dice che oggi il gruppo si presenta sempre più spesso come un'unica grande impresa sovranazionale al cui interno ogni entità locale svolge solo una frazione diversa dell'unitario business, per cui la singola entity non può più essere considerata come una “monade”, perché si inserisce in una realtà economico-giuridica più ampia (così Assonime, Note e Studi 17/2016).

L'attività di direzione e coordinamento, si manifesta in direttive di indirizzo di tipo gestionale della controllante, per far sì che le partecipate svolgano le proprie funzioni imprenditoriali in forma coordinata e orientata al soddisfacimento degli obiettivi del gruppo di appartenenza.

In questo contesto l'attività di direzione e coordinamento può divenire rilevante ai fini dell'individuazione della sede dell'amministrazione e, dunque, della residenza fiscale della società partecipata, in quanto –se sbrigativamente interpretata- potrebbe portare alla conclusione (affrettata) che l'attività decisionale della controllata si svolgerebbe sempre nel Paese di residenza della controllante.

In realtà il fenomeno della direzione e coordinamento è più complesso, o meglio è semplicemente l'estrinsecazione dell'implementazione delle strategie definite in capo alle controllante, che poi trovano attuazione unitaria e locale mediante l'attività di indirizzo svolta dalla capogruppo, senza che per questa si assista ad un'espropriazione dei processi e degli organi decisionali propri della controllata.

Secondo alcuni (cfr. Esterovestizione ed eterodirezione: equilibri(smi) tra la sede di coordinamento e direzione, direzione unitaria e sede di direzione effettiva, di Piergiorgio Valente, Rivista di Diritto Tributario, n. 4/2010) l'attività di direzione e coordinamento può spingersi sino a divenire una forma di “eterodirezione” ma che non può essere ricondotto all'“esterovestizione”, in quanto l'esterovestizione richiederebbe un quid pluris in termini di:

  • assenza di radicamento della direzione operativa (i.e., dell'impulso imprenditoriale) nel territorio dello Stato ove la società partecipata è localizzata; e/o
  • avocazione (usurpazione) alla controllante delle funzioni operative in precedenza assegnate, nell'economia del gruppo d'imprese, alla partecipata;
  • compressione forzosa da parte della controllante di prerogative sovrane della società partecipata.

Nella nota in commento Assonime riepiloga le casistiche della prassi accertativa da parte degli uffici, rivolta a i) subholding c.d. “passive”, che si limitano a detenere le partecipazioni e ad incassare dividendi, senza svolgere alcuna attività: muovendo dal presupposto che l'attività di direzione e coordinamento si incentri nella holding italiana e che la subholding, priva di una congrua struttura economica e commerciale, si limiti a recepire le indicazioni della capogruppo italiana, gestendo in modo del tutto passivo la sua posizione di soggetto titolare delle partecipazioni sottostanti, viene contestata l'esterovestizione; ii) subholding con gestione dinamica delle partecipazioni, per le quali la contestazione deriva sempre dall'assunzione che l'attività di direzione e coordinamento sia svolta dalla holding italiana; iii) nonché talora società operative, alle quali è contestata l'esterovestizione, sempre in ragione del fatto che sarebbero soggette alla penetrante attività di direzione della controllante italiana e, quindi, prive di un'effettiva autonomia anche rispetto alla gestione operativa del loro business.

Giustamente rileva Assonime che queste prassi accertative alimentano una sorta di circolo “vizioso” che, alla luce del tradizionale concetto di “sede di direzione effettiva” come criterio di fissazione della residenza (anche ove inteso in senso sostanziale e non meramente formale), potrebbe portarci a ritenere – estremizzando – che tutte le consociate di una multinazionale siano residenti nello Stato di stabilimento della capogruppo.

Per questo motivo, nell'ambito del progetto BEPS si è proposto di eliminare il criterio della “sede di direzione effettiva”, che funge da “tie breaker rule”, avendo verificato l'attuale complessità dei modelli ha ampliato il potere della capogruppo nell'attività di indirizzo, sicchè gli eventuali conflitti di residenza dovrebbero basarsi su valutazioni effettive case by case, nell'ambito di un contraddittorio tra i due Stati contraenti.

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