La tassazione dell'economia digitale

14 Settembre 2017

La soluzione alla problematica dell'introduzione di un'eventuale digital tax dovrebbe seguire le seguenti direttrici: una più efficace modalità di individuazione delle stabili organizzazioni occulte, basata su parametri presuntivi predeterminati; la possibilità, da parte dei soggetti esteri, di fornire una prova contraria, in grado di superare l'efficacia presuntiva di tali parametri, anche attraverso un procedimento di contraddittorio con l'Amministrazione Finanziaria; l'applicabilità, in caso di mancato superamento delle presunzioni, di una ritenuta alla fonte sulle transazioni finanziarie, attraverso il coinvolgimento dei soggetti incaricati di eseguire i pagamenti verso soggetti non residenti per l'acquisto di beni e servizi acquisiti per via digitale.
Il meeting di Tallin

Leggendo il documento relativo alle ipotesi sulla web tax che saranno oggetto del prossimo meeting di Tallin, è possibile fare le seguenti riflessioni.

Dalla lettura del documento emergono in particolare i seguenti concetti su cui appuntare l'attenzione:

  • l'importanza ai fini della tematica in oggetto della “physical presence in the jurisdiction”: cioè la centralità del tema della stabile organizzazione;
  • il pericolo nel voler trovare “quick fixes”: la cui traduzione è soluzioni veloci (o rimedi provvisori);
  • la necessità di una “solid and time-withstanding tax policy”, cioè una strategia fiscale di lungo periodo, evitando, aggiunge chi scrive, soluzioni “fantascientifiche” (vedi anche la misurazione dei bit etc etc), che possono essere comunque inefficienti nel caso, molto probabile, che il “modello” di business cambi velocemente. E infatti, il documento conclude che le quick fixes “may not be a reliable solution in the long-run from a tax policy perspective”: cioè che le soluzioni veloci o i rimedi estemporanei possono non essere efficaci nel lungo periodo.

Per tali motivi, si afferma nel documento, “Another possible way to approach the gap in the current international tax rules is by building on and improving the current rules”: cioè la soluzione efficace può essere quella di rafforzare le regole già in vigore (come peraltro, si dice ancora nel documento, già fatto recentemente per adattare le regole antiabuso e transfer pricing).

E in questa direzione, si dice ancora nel documento, la sola soluzione possibile è “modifying the concept of permanent establishment”: cioè modificare il concetto (non a caso non si usa il termine definizione, pena un intervento sulle regole del gioco di cui al modello Ocse e patti convenzionali) di stabile organizzazione.

La conclusione è dunque che “Under this approach, even without physical presence, a business with significant digital presence would be deemed to have a (virtual) permanent establishment in a jurisdiction of operation”: cioè la soluzione è quella di individuare una stabile organizzazione virtuale.

Ancora le conclusioni del documento fanno riflettere quando evidenziano che “Every year that we spend analysing and discussing the ultimate best solution to the challenges of digital economy, businesses are suffering from unequal competition, countries are losing valuable tax revenues”: cioè ogni anno passato a discutere di queste cose fa danni alla libera concorrenza e alle casse dello Stato.

Mentre però il documento ritiene che la soluzione non possa passare per misure unilaterali (cosa in teoria senz'altro preferibile) è assolutamente impensabile, in concreto, che una soluzione possa venire davvero presa in tempi brevi in sede comunitaria, dove interessi di Stati membri confliggenti non consentiranno mai, almeno nel breve periodo, una decisione unanime su un tema dai riflessi economici e politici così rilevanti.

Il documento si conclude poi con tre domande, tra cui la prima è “Could you share your ideas and experience on tackling the challenges of the digitalised economy from a national tax policy point of view?”

Si chiede cioè di condividere idee e proposte da un punto di vista della politica nazionale di ciascuno. E in questa direzione, si fanno allora le seguenti riflessioni.

Le possibili soluzioni per una digital tax in Italia

La soluzione alla problematica dell'introduzione di un'eventuale digital tax dovrebbe seguire le seguenti direttrici:

  1. una più efficace modalità di individuazione delle stabili organizzazioni occulte, basata su parametri presuntivi predeterminati, individuando magari il requisito della territorialità (e quindi l'obbligo dell'imposizione) in caso di superamento di determinate soglie temporali e di volume d'affari, per tutti i compensi corrisposti da soggetti residenti nel territorio dello Stato. E questo anche in linea con l'impostazione della normativa Iva, laddove il Reg. UE n. 1042/2013, dal 1° gennaio 2015, ha infatti stabilito che per tali tipi di prestazioni l'IVA si paga nel luogo di stabilimento del committente (mercato di riferimento).
  2. la possibilità, da parte dei soggetti esteri, di fornire una prova contraria, in grado di superare l'efficacia presuntiva di tali parametri, anche attraverso un procedimento di contraddittorio con l'Amministrazione Finanziaria;
  3. l'applicabilità, in caso di mancato superamento delle presunzioni, di una ritenuta alla fonte sulle transazioni finanziarie, attraverso il coinvolgimento dei soggetti incaricati di eseguire i pagamenti verso soggetti non residenti per l'acquisto di beni e servizi acquisiti per via digitale.

Non si dovrebbe trattare quindi di una nuova tassa, ma di una specifica previsione antielusiva, che consenta di individuare (semplicemente agevolando l'azione accertativa) la stabile organizzazione occulta.

E non vi sarebbero ostacoli ad una tale previsione in termini di compatibilità con i patti convenzionali.

Lo stesso modello Ocse (a cui tutti i trattati si conformano) prevede infatti, con formula di chiusura, che “le disposizioni dei paragrafi precedenti del presente articolo non pregiudicano l'applicazione delle disposizioni interne per pervenire l'evasione e l'elusione fiscale”.

La prevenzione delle evasioni fiscali è del tutto in linea con i principi degli accordi internazionali, anche pattizi. Anzi, ne rappresenta il presupposto imprescindibile, al mancare del quale tutte le altre previsioni recedono.

A parte il fatto che in questi casi non si tratterebbe di applicazione delle Convenzioni, ma semmai di utilizzo distorto ed abuso delle Convenzioni stesse, è la stessa Ocse che invita gli Stati Membri ad adottare comuni misure di sfavore contro queste pianificazioni, fino alla “denuncia” formale delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, eventualmente vigenti.

E infine, a partire dal 2003, il Commentario Ocse ha preso anche posizione sulla tematica del rapporto tra norme convenzionali e norme interne antielusive, come appunto sarebbe quella in esame, osservando che, laddove “le disposizioni contro l'abuso fiscale siano incardinate alle regole fondamentali della legislazione nazionale che determinano i fatti generatori dell'imposta, le stesse non sono influenzate dalle convenzioni in quanto dette regole sono estranee alla materia considerata dalle convenzioni fiscali. Pertanto di regola, non vi sarà conflitto tra tali disposizioni e le disposizioni delle convenzioni fiscali” (vedi Paragrafo 9.2 del Commentario all'art. 1 del Modello di Convenzione Ocse).

Tirando le fila di tutto quanto evidenziato, possiamo concludere quanto segue:

  1. Col termine digital tax non si dovrebbe fare riferimento ad una nuova tassa, ma si tratterebbe di un insieme di accorgimenti procedurali che mirino a regolare e ridurre il fenomeno dell'elusione fiscale nell'economia digitale.
  2. È necessario associare l'imposizione fiscale ai territori nei quali viene generato il valore, e in tale contrasto senz'altro utile è il fatto che, in Italia, dal 1° gennaio 2014, le imprese e i professionisti che acquistano beni e servizi online sono obbligati ad effettuare le transazioni esclusivamente mediante bonifico bancario o postale dal quale devono risultare i dati identificativi del beneficiario.
  3. Il requisito della territorialità (e quindi l'obbligo dell'imposizione) dovrebbe sussistere, in tali casi, per presunzione, in caso di superamento di determinate soglie temporali e di volume d'affari, per tutti i compensi corrisposti da soggetti residenti nel territorio dello Stato.
  4. In sostanza, si tratterebbe di introdurre una ritenuta alla fonte ai pagamenti effettuati da soggetti residenti in un paese, all'atto dell'acquisto di prodotti o servizi digitali presso un e-commerce provider estero. Non potendo però i consumatori finali operare da sostituti di imposta, l'unica soluzione per l'applicazione di tale ritenuta alla fonte comporterebbe il coinvolgimento diretto delle istituzioni finanziarie incaricate di regolare il relativo pagamento degli acquisti online.
  5. Operando invece, eventualmente, nella direzione di un'incentivazione delle multinazionali della web economy alla tax compliance, si potrebbe prevedere (in alternativa o coordinata con le sopraindicate previsioni accertative) che se la casa madre è residente in un paese dove esiste una imposta sui redditi equivalente all'IRES, si applica l'aliquota dello Stato estero, a condizione che non sia inferiore al 50% dell'aliquota ordinaria IRES (in tal modo, per esempio, Google avrebbe poco interesse a stabilire la sede in Irlanda).

Punti di debolezza e forza del D.L. n. 50/2017

Venendo più specificatamente alla realtà italiana, il D.L. n. 50/2017, seppur in maniera non efficiente, ha già aperto la strada verso la cosiddetta “web tax”.

In realtà più che di una nuova forma di tassazione si tratta di una procedura di compliance, rivolta a tutte le multinazionali con ricavi consolidati superiori a 1 miliardo di euro e che vendono beni e servizi in Italia per oltre 50 milioni.

Per questo non sembra misura efficiente, laddove è improbabile che tali multinazionali, proprio in Italia, decidano di fare improvvisamente “outing”.

La procedura individuata nel D.L. citato è però la strada giusta.

I soggetti interessati possono infatti chiedere all'Agenzia delle Entrate una valutazione della sussistenza dei requisiti che configurano la stabile organizzazione (bastava allora imporre l'obbligo per l'Agenzia di fare fin da subito tale valutazione, visto anche, in fondo, il numero esiguo di soggetti di cui si sta parlando) mediante un'istanza finalizzata all'accesso al regime dell'adempimento collaborativo.

Per coloro che estinguono i debiti tributari della stabile organizzazione dovuti in base all'accertamento con adesione, le sanzioni amministrative sono ridotte alla metà. Si dispone inoltre che in tal caso il reato di omessa dichiarazione non è punibile.

Il problema è che, almeno fino ad oggi, i grandi gruppi del web hanno sempre sostenuto di non avere una “stabile organizzazione” in Italia, ma di svolgere, attraverso la filiale nazionale, solo attività ausiliarie, non rientranti nella definizione di stabile organizzazione di cui all'art. 162 del TUIR.

Per questo, senza intervenire sulla definizione si stabile organizzazione, considerato che l'attività accertativa negli anni posta a carico di tali soggetti (che poi, pur di non affrontare il rischio del processo hanno preferito pagare centinaia di milioni di euro in sede transattiva) ha dimostrato che invece tali attività, nei fatti, ausiliari non erano, basterebbe intervenire in sede procedurale, semplicemente agevolando l'azione accertativa dell'Amministrazione Finanziaria.

In fondo le soluzioni più efficaci sono sempre quelle già presenti nel sistema.

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