Sì al rimborso per le agevolazioni ambientali non utilizzate in dichiarazione

Achille Benigni
18 Maggio 2017

In presenza delle condizioni previste dalla legge è ammissibile l'istanza di rimborso ex art. 38 d.P.R. n. 602/1973 per fruire, ex post, della relativa deduzione dal reddito imponibile.
Massima

In presenza delle condizioni previste dalla legge è ammissibile l'istanza di rimborso ex art. 38 d.P.R. n. 602/1973 per fruire, ex post, della relativa deduzione dal reddito imponibile.

Il caso

La vicenda sottoposta al vaglio dei giudici partenopei riguarda l'impugnativa di un diniego (tacito) di rimborso IRES ad opera di una società operante nel settore delle energie rinnovabili, la quale, nel corso del 2011, e dunque sotto la vigenza delle disposizioni di cui all'art. 6 commi 13-19 della Legge n. 388/2000 (Legge Finanziaria del 2001, nota anche come Tremonti-ter), aveva realizzato una serie di investimenti per ridurre l'impatto ambientale derivante dal proprio impianto produttivo di energia elettrica.

In applicazione di tale disciplina, la società ricorrente avrebbe potuto fruire di una deduzione extracontabile da quantificarsi in base alla quota di investimento tecnicamente riconducibile alla “prevenzione, riduzione o riparazione” dei danni provocati all'ambiente a causa della produzione di energia elettrica.

Sennonché, a fronte di tale investimento, la società aveva maturato anche il diritto a fruire di un'altra tipologia di agevolazione, a carattere non fiscale, prevista dall'art. 2 comma 152 della L. n. 244/2007 e riferibile ai c.dd. “certificati verdi” ed alla “tariffa fissa omnicomprensiva incentivante” di cui ai commi 144 e 145 della medesima legge.

Detta disposizione limitava tuttavia l'operatività di questo particolare incentivo ai soli impianti che non avessero beneficiato di “altri incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto capitale o in conto interessi con capitalizzazione anticipata assegnati dopo il 31 dicembre 2007”.

Alla luce di tale previsione normativa, la società in questione, pur avendone diritto, aveva deliberatamente omesso di indicare la predetta deduzione extracontabile nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta 2011, nel timore di incorrere in qualche decadenza legata alla (presunta) incompatibilità tra le due forme di agevolazione e cioè quella fiscale, prevista dalla Tremonti ter, e quella non fiscale, prevista dalla legge del 2007.

Successivamente, essendosi chiarito a livello normativo (ed amministrativo) che le due forme di agevolazione erano perfettamente compatibili e che un eventuale loro cumulo non avrebbe prodotto alcuna decadenza, la società, dopo avere operato la riliquidazione dell'IRES dovuta in relazione ai periodi caratterizzati dall'operatività del regime fiscale di favore, si era tempestivamente attivata ex art. 38 d.P.R. n. 602/1973 per ottenere il rimborso delle imposte a suo giudizio indebitamente versate all'Erario.

Non avendo l'Ufficio competente provveduto sull'istanza di rimborso, decorso il termine per la formazione del silenzio rifiuto, la società aveva adito la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, chiedendo l'accertamento del proprio diritto di credito e la condanna dell'Agenzia al pagamento delle somme dovute.

Le questioni

Le questioni giuridiche sottese alla controversia decisa con la sentenza annotata sono essenzialmente due: l'una, a carattere sostanziale, concernente l'esatta latitudine del regime fiscale di favore invocato dalla società ricorrente a fondamento del proprio diritto di credito; l'altra, a carattere procedimentale/processuale, che investe il profilo della sussistenza in concreto e delle modalità di attuazione e tutela del diritto stesso.

Con riferimento alla prima questione, deve osservarsi che in passato il problema della possibile coesistenza tra le diverse forme di agevolazione effettivamente esisteva ed anzi, quanto meno in una prima fase, era stato risolto in senso negativo dall'autorità amministrativa (v. nota del Ministero dello Sviluppo Economico del 24 agosto 2010).

Solo in un secondo momento il legislatore aveva introdotto una deroga espressa al divieto di cumulo (art. 26 D.Lgs. n. 28/2011), anche se persistevano i dubbi legati alla diversa vigenza temporale della nuova disposizione, la quale, essendo entrata in vigore solo a marzo 2011, sembrava inidonea ad incidere sugli investimenti previsti dalla Tremonti-ter.

Ed infatti, per porre rimedio a questa condizione di incertezza interpretativa, lo stesso Ministero per lo Sviluppo Economico era intervenuto nuovamente nella materia con il D.M. 5 luglio 2012 (5° conto energia), il cui art. 19 riconosceva espressamente la possibilità per un impianto fotovoltaico di cumulare la tariffa incentivante prevista dal conto energia, con l'agevolazione prevista dalla Tremonti ter, ancorché nel limite massimo del 20% dell'investimento.

In ultimo, anche l'Agenzia delle Entrate aveva (finalmente) avvertito il dovere di pronunziarsi e lo aveva fatto:

  • una prima volta, con la risoluzione della Direzione Regionale Entrate del Veneto (ris. prot. 907/12363/14), la quale, in risposta ad una specifica istanza di interpello, aveva sostanzialmente confermato la legittimità del cumulo, quanto meno in termini fiscali e dunque indipendentemente dall'invio al Ministero dello Sviluppo Economico della comunicazione relativa agli investimenti prescritta dall'art. 6 L. n. 388/2000;
  • una seconda volta, con la Risoluzione n. 58/E della Direzione Centrale Normativa del 20 luglio 2016; in questo caso, oltre a ribadire i principi già espressi in precedenza circa la possibilità di cumulo tra le due misure, l'Amministrazione finanziaria aveva fornito un ulteriore chiarimento in ordine alle concrete modalità di fruizione dell'agevolazione fiscale, nella ipotesi di mancata indicazione della deduzione extracontabile nella dichiarazione del redditi relativa al periodo di imposta interessato dall'investimento.

In tal caso, infatti, veniva chiarito che il contribuente avrebbe potuto far valere l'agevolazione in sede di dichiarazione integrativa (ex art. 2 comma 8-bis d.P.R. n. 322/1998), ovvero, una volta decorsi i termini per quest'ultima, con un'apposita istanza di rimborso ai sensi dell'art. 38 del d.P.R. n. 602/1973.

Proprio sulla scorta di tale chiarimento interpretativo, dunque, la società ricorrente aveva rivendicato la legittimità della propria iniziativa, tesa ad ottenere il rimborso della quota di IRES versata negli anni 2011 e 2012 in relazione all'investimento agevolato.

Inoltre, ai fini della determinazione dell'entità di quest'ultimo, la società aveva prodotto una perizia tecnica basata sul metodo del c.d. “approccio incrementale”, teso cioè ad individuare la quota parte di spesa finalizzata alla riduzione ed ottimizzazione dell'impatto ambientale che la produzione di energia elettrica avrebbe generato (in ciò richiamandosi ad un criterio di calcolo che era stato avallato dalla stessa Amministrazione con la Risoluzione n. 226/E/2002, ancorché riferita al regime agevolativo antecedente alla Tremonti ter).

Dalla motivazione della sentenza traspare che l'Agenzia, nel costituirsi in giudizio, aveva contestato il diritto della ricorrente al rimborso, in ragione della mancata presentazione della dichiarazione integrativa.

Inoltre, a quanto è dato capire, l'Ufficio aveva altresì messo in dubbio il valore probatorio della perizia di parte presentata dalla ricorrente a sostegno della sua pretesa.

Le soluzioni giuridiche

Nella sentenza annotata la Commissione Tributaria Provinciale decide di capovolgere l'ordine delle questioni trattate, affrontando preliminarmente il secondo dei due profili sopra illustrati e cioè quello relativo alle concrete modalità di fruizione del regime agevolativo.

In proposito la Commissione osserva che la disposizione dell'art. 6, comma 13, Legge n. 388/2000, per come è strutturata, non lascia spazio a dubbi interpretativi («gli investimenti ambientali sono esclusi per legge dalla formazione del reddito imponibile, sicché ove il contribuente li abbia invece computati, contra se, nella dichiarazione del reddito imponibile, ricorre l'ipotesi di inesistenza parziale dell'obbligo di versamento), approdando alla conclusione che «l'art. 38 è senz'altro applicabile alla fattispecie, per cui l'istanza è tempestiva e corretta».

Con riferimento all'altro profilo controverso, e cioè quello della spettanza in astratto dell'agevolazione prevista dall'art. 6 commi 13-19 della Tremonti-ter, i giudici napoletani reputano la questione non rilevante ai fini della decisione, argomentando che, anche in ipotesi di incompatibilità tra le due forme di agevolazione, un problema di decadenza si sarebbe (al limite) potuto porre solo all'interno del sistema della Legge n. 244/2007, difettando nella disciplina fiscale una disposizione tesa a circoscrivere in qualche modo l'ambito di applicabilità dell'agevolazione.

Sotto questo profilo la Commissione adotta la medesima logica – ineccepibile a parere di chi scrive – sottesa alla risoluzione n. 58/E del 2016 e cioè quella informata al principio secondo cui non è la norma tributaria, bensì quella non tributaria, a porre eventualmente un limite al cumulo delle misure agevolative, con la conseguenza che «la disposizione di legge di cui al citato art.6 comma 13 (…) non è incisa in alcun modo dalle vicende relative all'utilizzo, al non utilizzo, all'abbandono, alla revoca, e ad ogni altro aspetto che riguardi i certificati verdi previsti dalla Legge n. 244/2007».

Infine, sotto il profilo della quantificazione delle somme dovute a titolo di rimborso, la Commissione reputa attendibile il calcolo della quota di investimento agevolato operato dalla ricorrente con l'ausilio di una perizia tecnica, le cui risultanze non erano state contestate nel merito dall'ufficio finanziario.

Osservazioni

Come ho già osservato, la decisione annotata appare ineccepibile laddove risolve in radice il problema della coesistenza tra “certificati verdi” e benefici fiscali di cui alla Tremonti-ter, facendo leva sull'irrilevanza – ancor prima dell'insussistenza – di qualsiasi ipotesi di conflitto tra le due forme di agevolazione (posto che un'eventuale incompatibilità – comunque da escludersi, per quanto innanzi detto – sarebbe estranea alla materia tributaria e dunque alla competenza dell'Agenzia delle Entrate).

Si tratta, per la verità, di un'eccezione che – a quanto risulta – non era stata neppure sollevata dall'Agenzia delle Entrate nelle sue difese, anche se qui potrebbe avere influito la tipologia di controversia: poiché il giudizio scaturiva dall'impugnativa di un diniego tacito di rimborso, si giustificava, sotto questo profilo, la preoccupazione del contribuente di predisporre una difesa “ad ampio spettro” (non conoscendo egli in anticipo le ragioni del diniego). Sul punto, comunque, è sufficiente richiamare l'orientamento interpretativo dell'Amministrazione finanziaria - da ritenersi consolidato - che trova conferma anche in alcune decisioni di merito (cfr. CTP Reggio Emilia, sez. IV, 29 febbraio 2012, n. 19; CTP Treviso, sez. II, 7 novembre 2016 n. 456; CTP Treviso, sez. trib., 10 gennaio 2013 n. 7).

Ugualmente condivisibile è il passo della sentenza nel quale la Commissione sancisce la legittimità della procedura di rimborso ex art. 38 d.P.R. n. 602/1973, respingendo l'eccezione dell'Ufficio secondo cui, per poter fruire dell'agevolazione, la società ricorrente avrebbe dovuto necessariamente presentare una dichiarazione integrativa ex art. 2 comma 8-bis d.P.R. n. 322/1998. Il collegio giudicante deriva tale conclusione da una certa qualificazione giuridica della fattispecie, ossia dal fatto che la norma tributaria invocata dal contribuente a sostegno della domanda di rimborso non definisce un regime agevolativo di tipo opzionale, ma individua piuttosto un'ipotesi legale di esclusione del prelievo fiscale, la quale è normativamente collegata ad un preciso presupposto di fatto e cioè l'attuazione di una certa tipologia di investimento “ambientale”.

Ne consegue che, laddove si concretizzi l'ipotesi prevista dalla norma, la quota di reddito riferibile all'investimento agevolato è automaticamente detassata ex lege, non concorrendo a formare l'imponibile del periodo. Siamo insomma di fronte ad una tipica ipotesi di inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento, che legittima l'iniziativa di cui all'art. 38 d.P.R. n. 602/1973, in conformità al principio – costituente jus receptum - secondo cui in simili casi l'emendabilità della dichiarazione tributaria incontra il solo limite temporale previsto per l'azione di rimborso (Cass. civ., sez. un. n. 13378/2016).

Per altro verso, proprio il meccanismo dell'agevolazione in discorso (la quale opera in modo automatico e indipendentemente da una dichiarazione di volontà del contribuente), fa sì che nella fattispecie non risulti invocabile neppure quell'orientamento più restrittivo della S. Corte che esclude il principio dell'emendabilità tout court della dichiarazione rispetto alle ipotesi "in cui il legislatore abbia subordinato la concessione di un beneficio fiscale ad una precisa manifestazione di volontà (o opzione) del contribuente, anche se da compiersi all'interno della stessa dichiarazione, mediante la compilazione di un modulo predisposto dall'erario (o altrimenti), poiché a tali effetti quella specifica parte della dichiarazione assume il diverso valore di atto negoziale, irretrattabile in caso di errore, salvo che il contribuente dimostri che questo fosse conosciuto o conoscibile dall'Amministrazione" (Cass. civ., 19 febbriao 2016 n. 3286).

Secondo quest'ultimo indirizzo interpretativo, nel caso di errori che inficiano il contenuto c.d. “negoziale” della dichiarazione tributaria, il contribuente che intenda contestare l'atto impositivo per far valere l'errore commesso ha l'onere di provare la rilevanza di quest'ultimo.

Occorre aggiungere che, nel caso di specie, probabilmente, anche tale onere avrebbe potuto ritenersi assolto, se è vero che la scelta del contribuente di computare in dichiarazione la quota di reddito riferibile agli investimenti ambientali era stata determinata dal ragionevole timore di incorrere in qualche decadenza (ragionevole perché giustificato da un'obiettiva condizione di incertezza interpretativa, favorita dalla stessa condotta dell'amministrazione, della quale viene dato conto in sentenza).

Merita, infine, qualche riflessione anche il profilo della motivazione riguardante la quantificazione delle somme chieste a rimborso.

In questo caso la Commissione ha ritenuto attendibile la perizia di parte depositata dalla società ricorrente, non avendo l'Ufficio contestato nel merito né i calcoli né il risultato.

Per vero, dal tenore della sentenza si evince soltanto che la determinazione del costo era avvenuta in maniera conforme alle disposizioni di legge, anche se non si fa cenno al metodo di calcolo utilizzato. Si può, tuttavia, presumere che la società avesse determinato la quota di reddito agevolata attraverso il metodo dell'approccio incrementale sopra richiamato, che mira ad individuare la quota parte dell'investimento realizzato tesa ad ottenere esclusivamente migliorie di tipo “ambientale”, al netto cioè dei vantaggi economici conseguenti all'investimento, valutati in termini di aumento di capacità produttiva, di risparmi di spesa e di produzioni accessorie aggiuntive.

Tale metodo, che trae origine dalla disciplina comunitaria degli Aiuti di Stato per la tutela dell'ambiente (CGUE C/37 del 3 febbraio 2001), pur con i suoi limiti intrinseci, viene considerato il sistema di calcolo più affidabile, tanto che la stessa Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 226/E/2002, ancorché riferita alla precedente disposizione agevolativa (c.d. Tremonti bis), suggerisce l'opportunità di ricorrere ad una certificazione rilasciata da soggetti abilitati sulle caratteristiche tecniche dei beni oggetto di investimento, in termini sia di capacità di ridurre l'impatto ambientale che di generare futuri risparmi di spesa (cfr. CTP Reggio Emilia n. 19/2012). Perché se è vero che la Legge n. 388/2000 non condiziona il beneficio fiscale all'onere di indicare in modo specifico i vantaggi conseguiti per effetto dell'investimento, in termini di futuri risparmi di spesa, è altresì vero che, ogni qual volta si discorra di norme “di beneficio”, incombe sempre al contribuente l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni che legittimano l'applicazione del regime agevolativo invocato (cfr. ex multis Cass. civ., n. 10248/2013; Cass. civ. n. 7882/2016).

In questa prospettiva ermeneutica la decisione in commento dà atto al contribuente di avere sostanzialmente ottemperato alle prescrizioni normative e di essersi altresì conformato alle indicazioni operative fornite dall'Amministrazione finanziaria, producendo la perizia tecnica.

Sarebbe stato, pertanto, onere precipuo dell'Agenzia contestare il contenuto e le risultanze dell'elaborato peritale, anche in ossequio ai dettami dell'art. 115 c.p.c., il quale impone al giudice di porre a fondamento della sua decisione i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita (principio, quest'ultimo, pacificamente applicabile in materia tributaria: Cass. civ., 8 gennaio 2015 n. 110 ord.; Cass. civ. 28 giugno 2013 n. 16345; Cass. civ., 24 gennaio 2007 n. 1540).

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