Autotutela: la sindacabilità del diniego non consente al giudice di sostituirsi alla discrezionalità dell’Amministrazione

La Redazione
23 Novembre 2015

Con la sentenza in esame, la Cassazione ritorna a pronunciarsi sulla portata ed i connessi limiti del sindacato del giudice tributario sul diniego di autotutela.

Con sentenza n. 23765, depositata in data 20 novembre, la Cassazione torna ancora una volta a chiarire la portata ed i connessi limiti del sindacato del giudice tributario sul diniego di autotutela.

Nel caso di specie l'Agenzia delle Entrate impugna la sentenza di appello che, sulla base di sopravvenuta sentenza penale di assoluzione, disponeva la riforma della pronuncia di prime cure che aveva respinto il gravame del contribuente avverso il diniego di autotutela. Il giudice di II grado, in particolare, si era detto convinto che nella specie fosse ravvisabile “un erroneo presupposto d'imposta”, giacché era evidente – in ragione delle prove acquisite nel giudizio penale – “che a carico del contribuente vi fosse un'obbligazione tributaria in totale assenza di alcuni redditi da sottoporre a tassazione”.

La Suprema Corte ritiene dunque di procedere ancora una volta con una ricostruzione dei limiti e dell'estensione della valutazione del giudice tributario avente ad oggetto il rifiuto dell'istanza di autotutela. Tre sono le regole fondamentali emerse dai molteplici arresti culminati nella celebre pronuncia delle SS.UU n. 7388/2007, in seguito chiariti e corroborati dalla giurisprudenza posteriore:

  • è sussunto alla giurisdizione tributaria qualunque atto, indipendentemente dalla denominazione che esso assume, rappresentativo di una pretesa tributaria, ad eccezione di quelli che appartengono alla fase dell'esecuzione. Anche il diniego di autotutela è espressione di una potestà tributaria;
  • l'impugnabilità del diniego di autotutela è soggetta ai limiti di proponibilità entro cui la disciplina positiva del processo consente l'impugnazione degli atti tributari: esso è pertanto sindacabile solo per vizi propri (art. 19, c. 3, D.Lgs. 546/1992);
  • il sindacato che si chiede al giudice tributario a seguito dell'impugnazione dell'anzidetto rifiuto si esplica nei limiti di un controllo inteso a verificare che l'esercizio del potere discrezionale dell'Amministrazione sia avvenuto correttamente ovvero in adesione alle norme positive che ne disciplinano l'esercizio.

Ne discende che la riconosciuta sindacabilità del diniego di autotutela non autorizza il giudice tributario a rivedere il fondamento della pretesa impositiva a suo tempo non contestata, e che alla valutazione discrezionale dell'Amministrazione non possa sostituire quella dell'organo giurisdizionale. In altri termini può esercitarsi un sindacato sulla mera legittimità del rifiuto, e non già sulla fondatezza della pretesa impositiva (cfr. Cass. civ., sez. un., 23 aprile 2009, n. 9669; sez. trib., 12 maggio 2010, n. 11457; sez. VI-T, 2 dicembre 2014, n. 25524; sez. trib., 20 febbraio 2015, n. 3442).

La Corte accoglie dunque le doglianze dell'Agenzia, ritenendo che la CTR abbia nella specie travalicato i ricordati limiti che presidiano il sindacato giurisdizionale sul diniego di autotutela. A nulla rileva il giudicato penale sopravvenuto, giacché il suo valore probatorio dispiega effetti sul merito della pretesa non opposta e non afferisce a vizi propri dell'atto impugnato.

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