Robin Tax: l’illegittimità costituzionale non ha effetti retroattivi

Fabio Gallio
Federica Solazzi Badioli
29 Agosto 2016

Con la sentenza oggetto di approfondimento n. 594/2016 la Commissione Tributaria Provinciale di Bologna ha respinto il ricorso contro il c.d. “silenzio- rifiuto” dell'Amministrazione finanziaria in merito ad un'istanza presentata da una società per richiedere il rimborso dell'addizionale IRES (c.d. “Robin Hood Tax”), dichiarata incostituzionale con sentenza 10/2015.Secondo il collegio giudicante, infatti, la pronuncia di incostituzionalità non avrebbe effetti retroattivi. Il presente contributo analizza dunque criticamente le conclusioni del giudice tributario.
Premessa

Con sentenza n. 594/2016 la Commissione Tributaria Provinciale di Bologna ha respinto il ricorso contro il c.d. “silenzio- rifiuto” dell'Amministrazione finanziaria in merito ad un'istanza presentata da una società per richiedere il rimborso dell'addizionale IRES (c.d. “Robin Hood Tax).

Tale istanza era stata presentata prima della sentenza della Corte Costituzionale, 10/2015, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della suddetta addizionale, in quanto norma non conforme a quanto stabilito dagli artt. 3 e 53 della Costituzione.

La CTP di Bologna ha dichiarato illegittima la richiesta della ricorrente, facendo presente che la pronuncia della Consulta non avrebbe effetti retroattivi, in quanto, secondo la Corte, questo avrebbe messo in crisi le casse dell'Erario, chiamato a restituire alle imprese una somma che “determinerebbe anzitutto una grave violazione dell'equilibrio di bilancio ai sensi dell'art. 81 Cost.” ed uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l'Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime.

Prima di esporre i motivi per cui non si condividono i principi statuiti nella sentenza in esame, è necessario soffermarsi brevemente sulla relativa normativa dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale.

La c.d. “Robin Hood Tax”

Tale addizionale è stata introdotta dall'art. 81 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, la quale ha previsto, per determinati contribuenti operanti nel settore energetico, l'introduzione di una “addizionale” all'IRES, con un'aliquota prima del 5,5% poi del 6,5%, ed infine elevata, fino al 2013, nella misura del 10,50%, ai sensi dell'art. 7 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 .

In evidenza
Si noti che, originariamente, per i periodi d'imposta 2008 e 2009, la misura dell'addizionale era pari ad un'aliquota del 5,5%; per il 2010 è stata elevata di un punto percentuale (6,5%), mentre per il triennio 2011-2013 è stata fissata al 10,5%.

In particolare, la norma si rivolgeva ai soggetti operanti nei seguenti settori:

  • della ricerca e della coltivazione di idrocarburi;
  • della raffinazione del petrolio e della produzione o commercializzazione dei relativi derivati (benzine, gasoli, oli lubrificanti, ecc…);
  • della produzione, della trasmissione e del dispacciamento, della distribuzione o commercializzazione di energia elettrica;
  • del trasporto o della distribuzione di gas naturale.

Nel caso di soggetti operanti anche in altri settori di attività, differenti rispetto ai primi tre, tale disposizione si applicava solo se i ricavi relativi ad attività riconducibili ai predetti settori erano prevalenti rispetto all'ammontare complessivo dei ricavi conseguiti.

Le attività miste
Relativamente alla problematica di attività miste, si segnala che la giurisprudenza ha sostenuto che, in presenza di una società impegnata non solo nello svolgimento di attività petrolifera, l'applicazione della Robin Tax deve essere limitata solamente all'“extraprofitto”, ovvero solamente alla quota di ricavi derivanti dallo svolgimento di attività petrolifera (CTP Brescia, sez. VII, 10 maggio 2012, n. 46).

L'addizionale in oggetto veniva calcolata applicando un'aliquota maggiorata al reddito determinato secondo criteri e principi stabiliti dalle disposizioni previste per l'IRES.

Considerato che, per la determinazione della base imponibile, vi era un rinvio alla normativa IRES, secondo l'Agenzia delle Entrate, da un punto di vista procedurale, si rendevano applicabili tutte le disposizioni in materia di liquidazione, accertamento, riscossione, contenzioso e sanzioni previste ai fini delle imposte sui redditi (Cfr. Agenzia delle Entrate, Circolare 18 giugno 2010, n. 35/E, paragrafo 1).

Relativamente alla soggettività impositiva, la norma è stata modificata più volte. Infatti, all'inizio si applicava ai soggetti operanti nei citati settori che, nel periodo d'imposta precedente a quello di riferimento, avessero conseguito ricavi superiori ad Euro 25 milioni; successivamente la sua applicazione fu estesa anche ai soggetti che avevano conseguito ricavi superiori ad Euro 10 milioni, e un reddito imponibile maggiore ad Euro 1 milione; infine la platea dei destinatari dell'addizionale fu di nuovo ampliata, riducendo entrambi i valori di riferimento (ricavi e reddito imponibile), e fissandoli rispettivamente in Euro 3 milioni e in Euro 300 mila.

L'intenzione del legislatore era quella di colpire specifici settori di attività, destinatari di extra profitti, al fine di ottenere una generale riduzione dei prezzi, a vantaggio delle famiglie e delle imprese, e a sostegno della ripresa delle attività produttive.

L'effetto, però, di tale incremento fu quello di colpire, non tanto gli extraprofitti realmente prodotti, ma l'intero utile. Pertanto, l'addizionale era in palese contrasto con una corretta e ordinaria determinazione della ricchezza reddituale, penalizzando un intero settore, senza ottenere quegli effetti di ridistribuzione dei benefici alle fasce più deboli.

Pertanto, la c.d. “Robin Hood Tax”, qualificandosi come un illegittimo aiuto di Stato, aveva contribuito ad alterare notevolmente la concorrenza sul mercato, a vantaggio delle imprese non colpite dall'aumento dell'IRES.

Ad esempio, risultavano essere più penalizzati i soggetti che avevano una filiera in Italia più lunga, rispetto a quelli che si limitavano semplicemente a distribuire il prodotto in Italia. E questo aveva comportato che la normativa in oggetto, non solo presentava dei profili di illegittimità costituzionale, ma anche era in contrasto con i principi del diritto dell'Unione Europea (si permetta di rinviare a Gallio F e Badioli F., “Illegittimità dell'incremento IRES su società petrolifere (Robin Hood Tax) e divieto di rimborso” in Dialoghi Tributari n. 1/2015).

La sentenza della Corte Costituzionale

In data 11 febbraio 2015, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2015, che ha sancito l'illegittimità costituzionale dell'art. 81, commi 16, 17 e 18 del D.L. n. 112/2008.

In particolare, i Giudici della Consulta hanno stabilito che: “La maggiorazione dell'IRES applicabile al settore petrolifero e dell'energia, così come configurata dall'art. 81, commi, 16, 17 e 18, del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, viola gli artt. 3 e 53 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, per incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo… perseguito” (par. 6.5.4 della sentenza sopra citata).

La Corte Costituzionale, ha, però, affermato, nella motivazione, che gli effetti della sentenza non sono retroattivi (par. 8), malgrado nel dispositivo ciò non sia esplicitamente sancito, come si avrà modo di esporre.

Secondo i Giudici della Consulta, la ragione di tale limitazione temporale consisterebbe nel fatto che “L'impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 81, commi 16, 17 e 18 del d.l. n. 112 del 2008 … determinerebbe … uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva …” (par. 8).

Pertanto, secondo la Corte, le esigenze di equilibrio della finanza pubblica (attraverso il richiamo al “nuovo” art. 81 della Costituzione) dovrebbero prevalere sui principi di uguaglianza (tributaria) e capacità contributiva, rispettivamente sanciti dall'art. 3 e dall' art. 53 della Costituzione, i quali finirebbero per soccombere di fronte all'esigenza, ritenuta evidentemente sovraordinata, dell'equilibrio di bilancio.

A seguito di tale pronuncia, l'Agenzia delle Entrate

ha prontamente fornito le istruzioni agli Uffici (Circolare 18/E del 28 aprile 2015).

In particolare, è stato chiarito che, a decorrere dal giorno 12 febbraio 2015, ovvero dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, la norma in oggetto, dichiarata incostituzionale, avrebbe cessato di produrre effetti giuridici. Ciò posto, l'Agenzia ha ritenuto che la declaratoria di incostituzionalità della c.d. “Robin Hood Tax” non potesse produrre effetti sulle obbligazioni tributarie riguardanti adempimenti relativi ai periodi d'imposta chiusi in data antecedente al 12 febbraio 2015. Pertanto, i soggetti con periodo d'imposta coincidente con l'anno solare sarebbero stati tenuti, per il periodo d'imposta 2014, al versamento del saldo entro la scadenza naturale della c.d. “Robin Hood Tax”, prevista in via ordinaria il 16 del mese di giugno 2015, compreso l'obbligo di versamento degli acconti dovuti nel corso dell'anno 2014. Diversamente, tali soggetti non sarebbero stati assoggettati alla c.d. “Robin Hood Tax” con riferimento al periodo d'imposta 2015.

La pronuncia della CTP Bologna

La sentenza in commento ha sottolineato come la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma de qua, a causa delle sua violazione dei principi di uguaglianza e della capacità contributiva (articoli 3 e 53 della Costituzione).

Tuttavia, viene ribadito il fatto che la retroattività della declaratoria di illegittimità avrebbe comportato una grave violazione all'equilibrio di bilancio, principio tutelato dall'art. 81 della Costituzione, e, quindi, del principio di solidarietà sociale.

Conseguentemente, secondo i giudici bolognesi, dal momento che l'eventuale accoglimento delle istanze di rimborso relative agli anni passati avrebbe comportato uno squilibrio nelle casse statali, le esigenze di bilancio avrebbero avuto, nel caso in esame, la prevalenza sugli altri principi costituzionalmente garantiti.

Ciò giustificherebbe il motivo per cui la Corte Costituzionale ha sancito che la norma, in via straordinaria, dovesse continuare ad applicarsi alle vicende pregresse.

Le motivazioni della sentenza in esame non sono completamente condivisibili per i seguenti motivi.

Osservazioni - Sulla deroga all'efficacia retroattiva della sentenza

La Corte Costituzionale ha limitato gli effetti temporali della pronuncia, derogando così alla regola dell'efficacia “retroattiva” delle sentenze di incostituzionalità, in violazione di quanto previsto dalla legge.

Infatti l‘art. 30, co. 3, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (che disciplina le “Norme sulla Costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale”) stabilisce che: “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.

Pertanto, la limitazione dell'efficacia temporale della suddetta dichiarazione di incostituzionalità ha violato esplicitamente quanto previsto dalla legge 87/1953, la quale, ad oggi, non è ancora stata dichiarata costituzionalmente illegittima e, pertanto, deve essere applicata da tutti giudici.

Inoltre, si vuole evidenziare come la mancanza di retroattività sia stata menzionata esclusivamente nella motivazione della sentenza, mentre nulla viene stabilito nel relativo dispositivo (Così CTP Reggio Emilia n. 217/2015).

Conseguentemente, il dispositivo della sentenza risulta assai inadeguato a realizzare le finalità espresse in motivazione. La Corte, infatti, sostiene che: “In conclusione, gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui sopra devono, nella specie e per le ragioni di stretta necessità sopra esposte, decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della presente decisione nella Gazzetta ufficiale della Repubblica” e nel dispositivo la dichiarazione di incostituzionalità della norma impugnata viene dichiarata “a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta ufficiale della Repubblica”. In entrambi i casi si tratta di una mera parafrasi di quanto scritto nell'art. 136 della Costituzione e quindi della apparente riaffermazione di un principio ampiamente conosciuto e di una efficacia da sempre attribuita alle decisioni di incostituzionalità.

La divergenza tra un chiaro dispositivo e la motivazione dovrebbe, secondo i principi, essere risolta a favore del primo soprattutto quando, come nella specie, esso non contiene alcuna forma di rinvio alla seconda - e quindi della non applicazione della norma dichiarata incostituzionale “a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta ufficiale della Repubblica”.

In effetti, se si guarda ai precedenti richiamati dalla Corte costituzionale concernenti giudizi in via incidentale e nei quali, attraverso il riferimento alla illegittimità costituzionale sopravvenuta, ha inteso modificare l'efficacia derivante dalla applicazione dei criteri generali fissati dalla legge, essa ha provveduto a far risultare espressamente la deroga dalla formulazione del dispositivo (si veda, ad esempio, la sentenza della Corte Costituzionale del 9 novembre 1992, n. 416, nel cui dispositivo pure si precisa che la incostituzionalità è “sopravvenuta dal 12 marzo 1987”). Ed anche nella sola ipotesi in cui nel dispositivo la incostituzionalità veniva dichiarata “a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta ufficiale della Repubblica”, veniva subito dopo precisato “ferma restando la validità di tutti gli atti anteriormente compiuti” (cfr. ad esempio la sentenza della Corte Costituzionale del 16 febbraio 1989, n. 50).

Il dispositivo, in conclusione, per come è stato formulato nella sentenza in esame, parrebbe tale da poter frustrare le finalità, stando alla motivazione, inequivocabilmente perseguite dalla Corte, ma non adeguatamente ed efficacemente espresse nel dispositivo.

In forza di quanto esposto, si può sicuramente affermare come ogni Giudice, da un lato, sia certamente vincolato dalla dichiarazione di incostituzionalità della norma, che, come previsto dall'art. 136 della Costituzione, cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla data di pubblicazione; ma, dall'altro lato, lo stesso Giudice deve attenersi alla disciplina degli effetti derivanti dalle disposizioni della legge, i quali, come previsto dall'art. 30, co. 3, della Legge 11 marzo 1953, n. 87 (che disciplina le “Norme sulla Costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale”) devono essere retroattivi, laddove viene sancito che: “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.

Tale norma, in altri termini, si rivolge direttamente all'interprete, con l'intento di imporgli la disapplicazione della norma dichiarata illegittima, consentendo, quindi, anche alle Commissioni Tributarie di discostarsi dalla modulazione degli effetti disposta dalla Consulta e di riconoscere alla società il diritto al rimborso di quanto illegittimamente versato.

Ed è la stessa Corte Costituzionale ad averlo confermato, sostenendo che “Il principio … della c.d. “retroattività” … vale … soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti”. Quando “… detto termine è pendente e quindi il creditore … può pretendere quanto ancora gli è dovuto, non è consentito al legislatore ordinario limitare la portata dell'art. 136 Cost. … e di escludere … l'acquisto del diritto successivamente riconosciuto dalla legge che ha sostituito quella dichiarata invalida” (sentenza n. 139/1984).

Se così non fosse, vi sarebbe un'evidente violazione anche dell'art. 24, co. 1, della Costituzione, che stabilisce che “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. La limitazione degli effetti temporali di una sentenza di annullamento, infatti, violerebbe il “diritto di agire”, privando chi è parte di un rapporto pendente, come lo è l'odierna ricorrente nel presente giudizio, della possibilità di beneficiare degli effetti della pronuncia.

Inoltre, vi sarebbe una violazione del principio del “giusto processo” sancito dall'art. 111 della Costituzione e dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (“Diritto ad un equo processo”), dal momento che la sentenza della Corte Costituzionale de qua è stata emessa nel febbraio 2015 e, quindi, sette anni dopo l'entrata in vigore del Decreto legge (anno 2008) dichiarato illegittimo e quattro anni dopo la data del provvedimento di remissione avvenuta da parte della CTP di Reggio Emilia.

Pertanto, nel caso in esame, dove è stato negato il diritto al rimborso, il contribuente si è trovato nella situazione di avere ottenuto dopo numerosi anni il riconoscimento dell'avvenuta lesione del diritto, ma contemporaneamente non gli è stata concessa la disapplicazione della legge; questo equivale nella sostanza ad una mancata tutela del diritto fatto valere.

Sul richiamo all'art. 81 Cost. e sul bilanciamento dei diritti costituzionalmente garantiti

Come si evince dalle motivazioni della sentenza della Consulta, le esigenze della finanza pubblica non hanno influenzato il giudizio prevenendo la declaratoria di incostituzionalità delle norme tributarie denunciate; hanno invece finito per neutralizzare gli effetti di una pronuncia di accoglimento.

Nella sentenza, però, non viene spiegata la ragione per cui emergerebbe “uno squilibrio del bilancio dello Stato”, né viene indicato alcun valore numerico che quantifichi tale presunto “squilibrio”. Ma al di là di questi aspetti, quel che veramente non si comprende è perché mai “uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva” dovrebbe determinare una grave violazione dell'art. 81 e del principio di equilibrio di bilancio: la violazione si avrebbe infatti, al limite, soltanto se il Parlamento non adottasse alcuna manovra di aggiustamento, ad esempio rivedendo o tagliando spese già deliberate, rinviando, congelando o rinunciando a programmi di spesa futuri, istituendo nuove imposte o aumentando quelle esistenti, dismettendo beni demaniali, facendo fruttare adeguatamente il patrimonio pubblico. E' solo in caso di inerzia delle autorità politiche che si avrebbe al limite una violazione del principio dell'equilibrio del bilancio, ma in tal caso la violazione non dipenderebbe dagli effetti “naturalmente” retroattivi della pronuncia di incostituzionalità della legge tributaria, quanto dalla mancata adozione di una manovra finanziaria compensativa.

Pertanto, se il legislatore equilibra il bilancio con una manovra ingiusta, la soluzione corretta non è mantenere la soluzione ingiusta per ragioni di bilancio, ma sostituire la manovra ingiusta con una egualmente rispettosa dell'equilibrio finanziario (così A. Marcheselli e S. M. Ronco, L' “incostituzionalità differita” della c.d. Robin Tax, tra diritti fondamentali, analisi economica del diritto e diritto dell'Unione europea: il futuro della fiscalità tra nuove categorie concettuali e rischi di “teratogenesi” giuridica, in Consulta On line, 4/9/2015, pag. 650-652).

Se si prendono per buone le conclusioni della Corte, poi, ogni sentenza di accoglimento in materia tributaria, facendo sorgere il diritto al rimborso di imposte dichiarate incostituzionali, dovrebbe essere sterilizzata nei suoi effetti temporali, pena il sospetto di una violazione dell'art. 81. E se nel bilanciamento fatto nella sentenza sulla c.d. “Robin Hood Tax” l'art. 81 ha assunto un ruolo prevalente rispetto agli artt. 3 e 53, lo stesso dovrebbe a rigore accadere anche in ogni ipotizzabile futuro caso di tributi dichiarati incostituzionali (cfr. D. Stevanato, “Robin Hood Tax”: un'incostituzionalità a “futura memoria”, in Dialoghi Tributari, 2015, pg. 53-55). Il che equivarrebbe ad una sorta di lasciapassare per il legislatore, il quale potrebbe progettare tributi non rispettosi dell'art. 3 e dell'art. 53, potendo sempre contare sul definitivo consolidamento del gettito riscosso, che resterebbe insensibile anche rispetto a successive declaratorie di incostituzionalità.

Del resto, in un recente passato la Corte ha in due occasioni dichiarato l'incostituzionalità di norme che sancivano una discriminazione qualitativa dei redditi, a carico dei redditi da lavoro dipendente (cfr. sentenza n. 223 del 2012), o dei titolari di trattamenti pensionistici superiori ad un certo ammontare (sent. n. 116/2013), senza affatto richiamare il principio del pareggio di bilancio quale parametro per limitare gli effetti temporali delle proprie pronunce.

A conferma dell'illegittimità della sentenza nella parte in cui non prevede gli effetti retrodatati della dichiarazione di incostituzionalità, si deve fare presente che la stessa Corte Costituzionale, a distanza di breve tempo, ha sancito l'illegittimità con effetti retroattivi della legge che prevedeva il blocco degli adeguamenti pensionistici, malgrado, anche in questo caso, si possano presentare dei seri rischi per le finanze pubbliche e per l'equilibrio di bilancio (sentenza 70/2015).

Il bilanciamento e la salvaguardia dei principi e diritti costituzionali richiamati dalla Consulta non possono determinare situazioni di disuguaglianza tra tutti i cittadini italiani.

Con la sentenza in esame, invece, permane una diversità di trattamento tra i contribuenti che sono sempre stati esclusi dall'applicazione della c.d. “Robin Hood Tax” e quelli che, a causa della sopra citata irretroattività, ne sono stati definitivamente incisi. E' evidente, quindi, non solo la violazione dell'art. 3 della Costituzione, ma anche dell'art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (“Divieto di discriminazione”).

Tale disuguaglianza è ancora più evidente se si considera che, come già esposto, il Decreto legge dichiarato illegittimo è dell'anno 2008, mentre la sentenza della Corte Costituzionale è stata emessa nel mese di febbraio 2015, ben dopo quattro anni dalla data del provvedimento di remissione.

Pertanto, la ricorrente, a seguito della sentenza della CTP di Bologna, ha subito, al contrario di tutti gli altri contribuenti che non operavano nel medesimo settore, un prelievo dichiarato illegittimo per ben setteanni e questo è inconcepibile in uno Stato di diritto, il quale dovrebbe tutelare i diritti di tutti i cittadini.

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