Depositi IVA irregolari: si applica la sanzione per omesso o ritardato versamento

29 Settembre 2015

La sanzione applicabile all'importatore che si avvale del sistema di sospensione del versamento dell'imposta sul valore aggiunto all'importazione senza immettere materialmente nel deposito IVA la merce extra UE va individuata nel paradigma normativo di cui all'art. 13, D.Lgs. n. 471/1997.
Massima

La sanzione applicabile all'importatore che si avvale del sistema di sospensione del versamento dell'imposta sul valore aggiunto all'importazione senza immettere materialmente nel deposito IVA la merce extra UE va individuata nel paradigma normativo di cui all'art. 13 D.Lgs. n. 471 del 1997, in questa direzione orientando tanto il riconoscimento dell'IVA all'importazione quale tributo interno, sia la portata generale della sanzione prevista dall'art. 13 del D.Lgs. citato.

Il versamento tardivo dell'IVA costituisce, in mancanza di un tentativo di frode o di danno al bilancio dello Stato, solo una violazione formale e, come tale, sanzionabile nei limiti del principio di proporzionalità, in relazione alla natura ed alla gravità dell'infrazione che detta sanzione mira a penalizzare, nonché delle modalità di determinazione dell'importo della sanzione stessa.

Il caso

Una società impugnava, innanzi alla Commissione tributaria di primo grado, degli atti di irrogazione di sanzioni (ai sensi dell'art. 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997) relativi a pregressi avvisi di rettifica con i quali l'Agenzia delle Dogane aveva ripreso a tassazione l'IVA all'importazione asseritamente non corrisposta sulle merci, in ragione dell'accertato utilizzo meramente “virtuale” del deposito fiscale IVA gestito dalla società stessa (i beni erano stati iscritti nei registri in assenza di una loro effettiva immissione fisica nel deposito. In tal modo l'assolvimento dell'IVA era avvenuto all'atto dell'estrazione della merce del deposito mediante il meccanismo del reverse charge).


In particolare, la società denunciava l'inapplicabilità dell'art. 13 D.Lgs. n. 471 del 1997, a tenore del quale “Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell'imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l'ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti riguardanti crediti assistiti integralmente da forme di garanzia reale o personale previste dalla legge o riconosciute dall'Amministrazione finanziaria, effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al primo periodo, oltre a quanto previsto dalla lettera a) del comma 1 dell'articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo”.

Il ricorso veniva respinto dal giudice di prime cure; avverso la predetta pronuncia, la società proponeva appello riproponendo l'eccezione di inapplicabilità dell'art. 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997 ma, anche in sede di gravame, la predetta risultava soccombente in quanto, secondo il giudice di appello, l'operatività dell'art. 13 del suddetto D.Lgs. troverebbe giustificazione nell'assenza, nel sistema, di una norma sanzionatoria di carattere speciale relativa all'omesso o tardivo versamento dell'IVA all'importazione.

La società proponeva quindi ricorso per Cassazione, deducendo la violazione e falsa applicazione dell'art. 13, D.Lgs. n. 471 del 1997, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, del c.p.c., in virtù del fatto che, in relazione all'accertamento della pretesa fiscale concernente l'IVA all'importazione, avrebbe dovuto trovare applicazione l'art. 320 del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale (D.P.R. n. 43 del 1973, il quale espressamente disponeva che “chiunque violi le norme stabilite con il decreto del Presidente della Repubblica indicato nell'art. 26, per regolare l'istituzione e l'esercizio dei depositi di merci nelle zone di vigilanza, è punito con l'ammenda da lire quattromila a lire ventimila”).

Ciò in considerazione del rimando operato dal comma 2 dell' art. 70 del D.P.R. n. 633 del 1972, il cui comma 2, rinviava alle disposizioni delle leggi doganali relative ai diritti di confine per le questioni riferite alle controversie ed alle sanzioni.
L'Agenzia delle Dogane si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso, senza, tuttavia, esporre elementi di fatto e/o di diritto finalizzati a confutare la tesi prospettata dalla ricorrente.

La questione

Occorre dare atto che assume particolare rilievo, ai fini della decisione, la questione della sussunzione o meno della fattispecie di omesso o ritardato versamento dell'IVA all'importazione su merce destinata al deposito IVA ma ivi mai fisicamente introdotta nell'alveo di cui all'art. 13 D.Lgs. n. 471 del 1997.
Questione, quella appena indicata, logicamente antecedente rispetto alla tematica attinente al profilo della determinazione dell'importo della sanzione applicabile, la cui valutazione è demandata alle Autorità Nazionali.

Le soluzioni giuridiche

La fattispecie posta all'attenzione del Supremo Consesso è già stata oggetto dell' attenzione del diritto vivente.
In particolare, la natura dell'IVA all'importazione costituisce, da sempre, vexata quaestio, risolta variamente dalla giurisprudenza, il cui pendolo oscilla tra la qualificazione in termini di diritto di confine (Cass. pen., sez. III, 22 giugno 2015, n. 26202) e quella di tributo interno (Cass. pen., sez. III, 12 luglio 2012, n. 34256; Corte CE, 25 febbraio 1998, C-299/86; Cass. civ., sez. VI, 29 luglio 2015, n. 16109).

Questa ultima impostazione è quella accolta dalla pronuncia de qua, la quale ha affermato che “l'opzione alla quale il Collegio ritiene di aderire è in linea con uno degli indirizzi espressi dalla giurisprudenza penale di questa Corte, secondo il quale l'IVA all'importazione ha natura di tributo interno, con conseguente inapplicabilità della violazione contenuta nel D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292, operando il rinvio, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, alle leggi doganali, solo quoad poenam”.
Ne discende, quale logico corollario, che, essendo l'IVA all'importazione qualificabile quale tributo interno, il corpus normativo al quale fare riferimento in ordine all'irrogazione di sanzioni è il D.Lgs. n. 471 del 1997 ed, in specie, in riferimento alla questione che ne occupa, l'art. 13 (“ritardati o omessi versamenti diretti”).

In ordine alla determinazione dell'importo della sanzione applicabile, non si può non dare contezza della pronuncia resa dalla Corte di Giustizia UE, sez. VI, del 17 luglio 2014, C-272/13, meglio conosciuta come pronuncia Equoland, la quale ha affermato che “qualora, per esercitare le competenze attribuite dall'articolo 16, paragrafo 1, della sesta direttiva, gli Stati membri adottino misure quali l'obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito fiscale, tali Stati rimangono anche competenti, in mancanza di una disciplina in materia di sanzioni, a scegliere le sanzioni che sembrano loro appropriate.
È quindi legittimo per uno Stato membro, al fine di garantire l'esatta riscossione dell'IVA all'importazione e di evitare l'evasione, prevedere nella propria normativa nazionale sanzioni appropriate, volte a penalizzare il mancato rispetto dell'obbligo di introdurre fisicamente una merce importata nel deposito fiscale”.

Sanzione che, come riconosciuto dai Giudici di Lussemburgo, deve essere conforme al principio di proporzionalità, in relazione, in particolare, “della natura e della gravità dell'infrazione che detta sanzione mira a penalizzare, nonché delle modalità di determinazione dell'importo della sanzione stessa”.

Posti tali principi, ne deriva, che l'obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito fiscale costituisce un requisito formale, la cui inosservanza non si risolve nel mancato pagamento dell'IVA all'importazione, ove questa sia regolarizzata nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile.
Conseguentemente, secondo la Corte di Giustizia UE, una sanzione consistente in una maggiorazione dell'imposta secondo una percentuale forfetaria, senza che sussista una possibilità di gradazione, non deve eccedere “quanto necessario al conseguimento degli obiettivi perseguiti, consistenti nel garantire l'esatta riscossione dell'IVA e nell'evitare l'evasione”.

Tale interpretazione del quadro normativo è stata integralmente recepita dalla Suprema Corte nella sentenza che ne occupa, la quale, in primis, ha confermato il carattere meramente formale della condotta di mancato versamento dell'IVA all'importazione per effetto dell'immissione virtuale dei beni in deposito IVA (“Non può pertanto ritenersi di essere in presenza di una violazione meramente formale per la quale l'esclusione della punibilità - D.Lgs. n. 472 del 1996, art. 6, comma 5 bis (v. Cass. n. 5897/2013) - è prevista per le violazioni che non arrecano pregiudizio all'esercizio dell'attività di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell'imposta e sul versamento del tributo”), per poi statuire che i principi espressi dalla sentenza Equoland in merito alla proporzionalità della sanzione di cui all'art. 13 D.Lgs. n. 471 del 1997, “dovranno essere applicati dal Giudice di rinvio. La CTR, in particolare, dovrà valutare in sede di rinvio la proporzionalità della sanzione applicata in relazione alla contestazione esposta dall'Ufficio nonchè la rilevanza del pagamento effettuato all'atto di estrazione della merce con le forme della autofatturazione disciplina dal D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis comma 6, tenendo conto del tempo intercorso fra omesso versamento dell'IVA all'importazione e dell'eventuale assolvimento dell'IVA interna - con annotazione nei relativi registri - all'atto dell'estrazione della merce - v. pp. 39 e 42 sent. Equoland-. Ciò anche al fine di vagliare l'applicazione alla fattispecie delle misure sanzionatorie ridotte previste dal medesimo art. 13 cit., in caso di ritardo nel versamento e della loro proporzionalità in relazione ai criteri indicati dalla Corte di Giustizia ai punti n. 42/44 della sentenza Equoland”.

Osservazioni

Ai sensi dell'art. 34 del Testo Unico Leggi doganali (D.P.R. n. 43 del 1973) “si considerano diritti doganali tutti quei diritti che la dogana è tenuta a riscuotere in forza di una legge, in relazione alle operazioni doganali. Fra i diritti doganali costituiscono diritti di confine: i dazi all'importazione e quelli di esportazione, i prelievi e le altre imposizioni all'importazione o all'esportazione previsti dai regolamenti comunitari e dalle relative norme di applicazione ed inoltre, per quanto concerne le merci in importazione, i diritti di monopolio, le sovraimposte di confine ed ogni altra imposta o sovraimposta di consumo a favore dello Stato”.

Dalla lettura della norma si evince come i diritti di confine siano una species del genus diritti doganali, species alla quale devono ricondursi le imposte di consumo a favore dello Stato.
L'impossibilità di classificare l'IVA all'importazione quale imposta di consumo (contrariamente, quindi, a quanto affermato dall'indirizzo giurisprudenziale di segno opposto rispetto alla pronuncia in esame) deriva indirettamente da quanto previsto dall'art. 1 del D.P.R. n. 633/1972, secondo cui l'IVA si applica sulle “importazioni da chiunque effettuate” e, quindi, non già sui soli consumi.
Conclusione, quella appena esposta, confermata anche dall'Agenzia delle Dogane con Circolare n. 10/D del 4 marzo 2003, laddove l'IVA all'importazione viene definita quale “tributo nazionale”.

Tale inquadramento comporta l'inconferenza di qualsiasi rinvio al D.P.R. n. 43 del 1973 ed, in specie, ai fini sanzionatori, all'art. 292.
L'unico referente normativo al quale rivolgersi è, quindi, il D.Lgs. n. 471 del 1997, il cui art. 13 (rubricato “ritardati od omessi versamenti diretti”) è ben applicabile all'ipotesi (quella in esame) nella quale, benchè l'assolvimento dell'IVA non sia avvenuto in dogana al momento dell'importazione delle merci, è comunque stato effettuato tramite il meccanismo dell'inversione contabile, sicchè non si può di certo affermare che il pagamento non ci sia stato. Al contrario, l'IVA è stata versata, seppur tardivamente.
Rebus sic stantibus, considerato che in tal caso sono state poste in essere tutte le modalità di adempimento dell'IVA tramite il reverse charge, l'irrogazione della sanzione nella misura piena pari al trenta per cento di ogni importo non versato è palesemente irragionevole, in quanto la stessa deve essere sempre commisurata al comportamento del contribuente “reo” (ed in specie alla gravità delle conseguenze prodotte, derivante dal disvalore della condotta dello stesso), come giustamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia UE, sez. VI, del 17 luglio 2014, C-272/13, (pronuncia Equoland).
Del resto, l'impianto sanzionatorio eretto dal legislatore tributario ha connotazione personalistica, la quale, tradotta in termini pratici, significa che acquista primaria rilevanza l'aspetto della personalizzazione delle sanzioni, il quale segna il passaggio da una responsabilità di tipo oggettivo (automatismo tra violazione e sanzione) ad una di stampo soggettivo.

Nella questione de qua, è evidente come il contegno della contribuente non abbia arrecato alcun danno all'Erario (come già evidenziato, infatti, l'obbligazione è stata adempiuta tramite l'inversione contabile); ragionare in senso contrario, significherebbe disconoscere pretestuosamente che il meccanismo del reverse charge costituisca effettivo strumento di versamento dell'imposta, il che è assurdo e contra legem.
Per tutte le considerazioni svolte, sono, pertanto, pienamente condivisibili le conclusioni a cui è giunta la Suprema Corte nella sentenza in rassegna, tramite una ricostruzione lineare e puntuale del sistema normativo e delle interpretazioni che ne sono state date dal diritto vivente, nostrano ed europeo.

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