I motivi di revocazione

28 Novembre 2016

La possibilità, riconosciuta dall'ordinamento, di porre rimedio all'ingiustizia del decisum nonostante l'avvenuta incontrovertibilità dello stesso, si concretizza nell'istituto delle revocazione.Stante il fatto che tale strumento si rivolge alle sentenze passate in giudicato, perché non impugnate o perché non altrimenti impugnabili, lo stesso ha natura eccezionale ed è diretto a censurare sia accertamenti di fatto, sia di diritto (a seguito della novella legislativa, di cui al D.Lgs. n. 156/2015, intervenuta sull'art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992). L'eccezionalità dell'istituto in oggetto si manifesta sia nella ridotta esperibilità legata alla ricorrenza di specifici e tassativi motivi indicati dal legislatore, non suscettibili di interpretazione analogica (c.d. mezzo a “critica vincolata”). Nel presente lavoro si punterà l'attenzione proprio sull'esame dei singoli motivi di revocazione quali posti dall'art. 395 c.p.c. (applicabile nel processo tributario in virtù del rimando operato dall'art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992).
Premessa

L'ordine giuridico violato da una pronuncia la quale costituisce il risultato di un'ingiusta valutazione può essere ripristinato attraverso l'istituto della revocazione, a condizione che ricorrano le circostanze di cui all'art. 395 c.p.c., norma, questa ultima, richiamata dall'art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992.

Tali vizi revocatori, a seconda del momento in cui insorgono, determinano la distinzione tra revocazione ordinaria (art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c.), quando gli stessi emergono dalla sentenza (decorrendo, quindi, il termine per proporre la revocazione dalla notificazione o pubblicazione della stessa) e revocazione straordinaria (art. 395, nn. 1, 2, 3, e 6), quando i vizi sono occulti, non rilevabili dalla sentenza e vengono scoperti successivamente al limite temporale posto per il passaggio in giudicato della stessa (in tal caso il dies a quo per agire in revocazione decorre da quando è stato scoperto il dolo o la falsità o è stato recuperato il documento).

I motivi che danno luogo sia a revocazione ordinaria, sia a quella straordinaria, sono, comunque, accomunati dal fatto che gli stessi “devono aver in concreto esplicato, sulla formazione della decisione, un'influenza tale che il giudizio avrebbe potuto avere esito diverso, qualora il giudice ne fosse stato a conoscenza o se essi non si fossero verificati” (V. COLESANTI, Sentenza civile (revocazione della), in Noviss. Dig. It., XVI, Torino, 1969).

L'accertamento degli stessi, id est, il loro riscontro nella fattispecie concreta, si risolve in un giudizio di ammissibilità del ricorso al quale segue il riesame della causa.

Ciò posto, di seguito verranno elencati i singoli motivi di revocazione.

Il dolo di una delle parti in danno dell'altra

Integra la fattispecie di revocazione straordinaria, il motivo che si sostanzia nell'essere la sentenza l'effetto “del dolo di una delle parti in danno dell'altra” (art. 395, n. 1, c.p.c.).

La Dottrina ha affermato che sia espressivo di un comportamento doloso “il comportamento sleale di una parte che si estrinsechi nell'escludere o nel limitare la difesa dell'avversario o nell'impedire che questi venga a conoscenza del processo, o che nel giudizio possa esplicare liberamente la sua attività difensiva, ad es. mediante la proposizione di una eccezione o la produzione di documenti” (V. COLESANTI, Sentenza civile (revocazione della), in Noviss. Dig. It., XVI, Torino, 1969).

Nonostante il motivo in oggetto debba essere rinvenuto in relazione al singolo caso concreto, è possibile, tuttavia, delineare alcune casistiche che sostanziano tale motivo quali, ad esempio, l'avere esercitato violenza sulla controparte o sul difensore affinchè non produca un documento in giudizio, l'avere distrutto o sottratto un documento dal fascicolo del processo.

Il giudice della revocazione deve, quindi, dapprima accertare i singoli fatti in cui si è estrinsecata l'attività dolosa o la corrispondente condotta omissiva, per poi individuare la deficienza difensiva che essi hanno determinato ed, infine, deve cogliere l'errore della sentenza che ne è l'effetto, fornendo di ciò motivazione congrua e logicamente ineccepibile, al fine di sottrarsi al sindacato del giudice di legittimità (Cass. civ., sez. I, 30 agosto 2002, n. 12720).

Pertanto, affinchè si configuri il dolo revocatorio di cui all'art. 395, n. 1, c.p.c., è necessario che lo stesso abbia esplicato un'influenza determinante sul convincimento del giudice; in assenza di tale nesso di causalità, seppur in presenza di un'attività deliberatamente fraudolenta della parte, la decisione asseritamente da revocare non potrà essere passibile di tale rimedio e, quindi, dovrà essere riconfermata.

Sebbene sia vero che ad integrare la fattispecie del dolo processuale revocatorio, ex n. 1 dell'art. 395 c.p.c., non basti la semplice violazione dell'obbligo di comportarsi in giudizio con lealtà e probità (art. 88 c.p.c.) e che siano di per sé sufficienti il mendacio o le false allegazioni, richiedendosi un'attività intenzionalmente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da pregiudicare o sviare la difesa avversaria facendo apparire una situazione diversa da quella reale e, quindi, da impedire al giudice la conoscenza della verità, è del pari indubbio che anche il mendacio o il silenzio possano realizzare il presupposto della fattispecie de qua (contra, Cass. civ., sez. I, 26 settembre 2000, n. 12756).

Ciò accade quando essi ricadano su fatti decisivi e quando costituiscano elementi essenziali di un'attività diretta proprio a trarre in inganno la controparte ed idonea, in relazione alle circostanze, a determinare le conseguenze suddette. Esemplificazione di quanto precede, è il caso in cui la stessa domanda giudiziale trovi fondamento nel mendacio o nell'occultamento del vero, costituendo lo strumento per conseguire un ingiusto profitto ed il successivo comportamento processuale, attuativo del disegno fraudolento, sia tale da impedire un'efficiente attività difensiva della controparte e, comunque, tale da inficiare l'accertamento della verità processuale.

La falsità della prova

Motivo revocatorio straordinario è “L'aver giudicato in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza, oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza” costituisce il secondo motivo per cui è possibile proporre la revocazione straordinaria (art. 395, n. 2, c.p.c.). Per assumere rilevanza quale causa revocatoria occorre il “riconoscimento” o la “dichiarazione di falsità”.

Il riconoscimento è quello proveniente dalla parte che ha utilizzato la prova a proprio favore e non anche quello proveniente dall'autore della falsità, in quanto rimasto estraneo al processo conclusosi con la pronuncia della sentenza di cui si chiede la revocazione, ancorchè interessato al contenuto della prova stessa (contra, A. ATTARDI, La revocazione, Padova, 1959, il quale ritiene che il riconoscimento possa provenire anche dall'autore del falso).


Per quanto concerne la dichiarazione di falsità, la stessa deve essere contenuta in una sentenza civile o penale; a tal riguardo, la giurisprudenza ha ritenuto, con principi applicabili anche nel processo tributario, che l'accertamento contenuto in una sentenza penale o civile, non possa svolgere efficacia in altro giudizio (quale quello tributario), nei confronti dei soggetti che non abbiano partecipato al processo penale o civile o che non siano stati posti in grado di parteciparvi (Cass. civ., sez. I, 15 settembre 1995, n. 9770).

Tale interpretazione, come condivisibilmente osservato (R. CONTE, Sul rapporto tra l'art. 395, n.2, c.p.c. e il principio del contraddittorio, in G.T., n. 11/1996), non sembrerebbe essere accoglibile.

Sarebbe necessario, infatti, operare un distinguo tra il caso in cui si recepisca “acriticamente, mediante l'allegazione di una sentenza penale in un giudizio civile (id est, tributario), una prova formatasi "altrove", la quale abbia un'influenza immediata e diretta, nonché incontrovertibile sul fatto oggetto della controversia” da quello in cui la sentenza penale (o civile) venga introdotta nel giudizio tributario, sempre con le modalità dell'allegazione, spiegando, tuttavia, efficacia riflessa sul diritto controverso, mediata, indiretta ed opinabile, dovendo il giudice verificare la sussistenza del nesso di causalità tra la dedotta falsità e la decisione impugnata. In questa ultima fattispecie, infatti, non rileva l'efficacia vincolante del giudicato penale o civile, bensì la possibile influenza, senza vincoli di intangibilità, del decisum.

Il riconoscimento e l'accertamento giudiziale della falsità sono accomunate dal fatto che debbono avvenire in un momento successivo rispetto a quello della pronuncia della sentenza impugnata per revocazione.

In tal caso depone inequivocabilmente la disposizione contenuta nell'art. 395, n. 2, c.p.c., ove il participio passato del predicato verbale (“riconosciute” o “dichiarate false”) indica che il riconoscimento o l'accertamento giudiziale della falsità della prova non possano effettuarsi nello stesso giudizio di revocazione, del quale il riconoscimento o l'accertamento costituiscono il presupposto e non l'oggetto.

La falsità assume rilevanza, ancorchè riconosciuta o dichiarata prima della sentenza revocanda, qualora la parte ne abbia ignorato, senza sua colpa, il riconoscimento o l'accertamento giudiziale (Cass. civ., sez. I, 26 novembre 1985, n. 5873; Id., 9 aprile 1984, n. 2299). In caso contrario, infatti, il relativo vizio potrà essere fatto valere nel corso del processo o con le impugnazioni ordinarie.

La falsità considerata dall'art. 395 c.p.c. , n. 2, intesa come contrasto con la verità, deve, sia nelle forme del falso materiale (o falsità dell'estrinseco) sia in quelle del falso ideologico (o falsità dell'intrinseco), inerire alla prova intesa latamente, come qualsiasi mezzo o strumento predisposto dalla legge affinchè il giudice possa, attraverso un'attività percettiva o induttiva, formarsi un convincimento circa l'esistenza o l'inesistenza dei fatti rilevanti per la decisione della causa.

La norma, occorre sottolineare, si riferisce, pertanto, a tutte le prove e non solo ai documenti; tuttavia, ciò non vale per il processo tributario, in cui vige il divieto di prova testimoniale (pertanto, la falsità potrà riguardare solo le dichiarazioni di terzi).

Tra le prove la cui falsità è rilevante va ricompresa anche la consulenza tecnica, di cui all'art. 7, comma secondo, D.Lgs. n. 546/1992: è noto, invero, che la consulenza tecnica, pur avendo, di regola, la funzione di fornire al giudice una valutazione relativa a fatti già probatoriamente acquisiti al processo, può legittimamente costituire, ex se, fonte oggettiva di prova, qualora si risolva non soltanto in uno strumento di valutazione, bensì di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni.

Il ritrovamento di documenti decisivi

La disposizione dell'art. 395, n. 3, c.p.c., individua, come presupposto della revocazione ordinaria, il ritrovamento, dopo la sentenza, di “uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario”.

Dalla lettura della littera legis si ricava che tre sono i requisiti, che devono ricorrere congiuntamente, affinchè si possa azionare il rimedio revocatorio:

  1. l'esistenza di prove documentali (da intendersi come “qualsiasi oggetto idoneo e destinato a fissare in qualsiasi forma la percezione di un fatto storico, al fine di rappresentarlo in avvenire”; Cass. civ., sez. I, 8 marzo 1990, n. 1838) relative ai fatti storici oggetto della controversia decisa con la sentenza di cui si chiede la revocazione. Il dato normativo è chiaro nel richiedere che si tratti di documenti i quali preesistevano alla sentenza della cui revocazione si tratta e che soltanto il loro ritrovamento sia successivo ad essa. Assumendo, quindi, primaria importanza il documento nella sua materialità, viene elisa qualsiasi rilevanza del fatto in esso rappresentato; pertanto, non consente la revocazione, ai sensi della norma in questione, l'esistenza di prove documentali formatesi dopo la revocanda pronuncia, sebbene le circostanze da essi espresse siano preesistenti ed in sé decisive. A tale conclusione si giunge agevolmente tenendo conto dell'uso dell'espressione, da parte del legislatore, “sono stati trovati”, alla quale fa riscontro il termine “recupero” adottato nei successivi artt. 396 e 398 c.p.c.;
  2. l'impossibilità di produrre il documento in giudizio;
  3. la decisività del documento, nel senso che lo stesso attenga a circostanze di fatto risolutive o, comunque, idonee a determinare una modificazione della sentenza impugnata in senso favorevole alla parte che chiede la revocazione, “anche se non in termini tali da creare un'antitesi insuperabile tra quanto deciso e quanto si sarebbe potuto decidere se il documento fosse stato noto” (Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 1984, n. 2299).

A tal riguardo, se le prove documentali sono finalizzate a dar origine ad una decisione differente rispetto a quella oggetto di revocazione, ne discende, giocoforza, che esse debbono fornire la dimostrazione diretta dei fatti di causa, essendo il requisito della decisività escluso ogni qualvolta esse apportino dei semplici elementi indiziari, utilizzabili per il convincimento del giudice sulle predette circostanze di fatto solo in concorso con altri dati (Cass. civ., SS.UU., 22 novembre 1984, n. 5990).

Pertanto, seppur sia vero che i documenti costituiscano dei “noviter reperta”, è altrettanto vero che il carattere della “novità” debba essere interpretato alla luce della natura del giudizio tributario, il quale esclude che possano essere introdotti in giudizio dei “nuovi motivi” rispetto a quelli indicati nel ricorso introduttivo di lite, ad eccezione del caso in cui l'integrazione degli stessi si renda necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della Commissione (art. 24, c. 2°, D.Lgs. n. 546/1992).

Rebus sic stantibus, la “novità” attiene alla sopravvenuta conoscenza dell'esistenza del documento o dalla sopraggiunta conoscenza dell'ubicazione dello stesso, non potendo la stessa essere riferita ai fatti ed alle eccezioni, nel senso che i “documenti decisivi” non possono introdurre nel giudizio domande ed eccezioni che non abbiano fatto parte del thema decidendum del precedente contenzioso; ragionare in senso contrario significherebbe dare la stura ad una inammissibile, surrettizia e non consentita mutatio libelli.

Quanto appena esposto consente di puntare l'attenzione sul requisito sub b), vale a dire l'impossibilità della parte di produrre tale documentazione nel corso del precedente grado di giudizio.

Come condivisibilmente osservato (A. ATTARDI, La revocazione, Padova, 1959), l'impossibilità può concretizzarsi:

  1. nell'ignoranza incolpevole della parte circa l'esistenza del documento o circa il luogo in cui lo stesso si trovi o circa la persona che lo deteneva, la quale ha fatto sì che la parte soccombente non potesse azionare il rimedio di cui all'art. 210 c.p.c. (ordine di esibizione documentale). Relativamente al coordinamento tra revocazione ed ordine di esibizione documentale, la parte soccombente non può avvalersi dell'istituto revocatorio quando, avendo avanzato istanza ex art. 210 c.p.c., la controparte si sia rifiutata di esibire il documento. Ciò in virtù del fatto che tale comportamento è lasciato al libero apprezzamento del giudice ai sensi dell'art. 116 c.p.c., il quale può ritenere come vere le circostanze di cui la parte soccombente avrebbe voluto dare evidenza attraverso tale documento. Al verificarsi della predetta fattispecie, viene meno, inoltre, il presupposto stesso della revocazione, in quanto il documento era già stato rinvenuto o recuperato in pendenza di giudizio, circostanze, quelle appena elencate, che non sono, quindi, sopravvenute al processo conclusosi con la sentenza che si vorrebbe revocare.

Non potendo la revocazione costituire rimedio per sopperire alla negligenza della parte soccombente nel precedente grado di giudizio, è questa ultima che deve fornire prova contraria (consistendo, infatti, l'ignoranza in un fatto negativo e soggettivo, di essa non può fornirsi una prova diretta) alla presunzione di conoscenza o ignoranza colpevole eventualmente scaturita dalla provenienza, dalla natura e dalle altre circostanze relative al documento o al contegno delle parti, ovvero alle prove positive al riguardo prodotte dalla controparte (Cass. civ., sez. I, 17 gennaio 1989, n. 172).

Pertanto, il giudice, nel valutare se sussista o meno negligenza in capo alla parte soccombente, nell'ipotesi di ignoranza in ordine al luogo di conservazione del documento deve accertare se la parte si sia attivata diligentemente nell'effettuare le dovute ricerche nel luogo ove il documento avrebbe potuto trovarsi; nel caso di un pregresso possesso del documento in capo alla parte stessa, l'organo giudicante deve riscontrare se l'avvenuto smarrimento dello stesso sia avvenuto per cause eccedenti la possibilità di controllo della parte (Cass. civ., sez. III, 4 febbraio 2005, n. 228). Al contrario, per quanto concerne la non conoscenza in merito all'effettiva esistenza della prova documentale, il giudice dovrà appurare, in termini di negligenza, l'omessa verificazione, da parte del soggetto soccombente, di un'ipotesi di esistenza della suddetta, la quale poteva essere avvalorata dalla situazione di fatto (Cass. civ., sez. II, 16 gennaio 2008, n. 735);

  1. nella circostanza che l'avversario impedisca alla parte interessata di produrre il documento di cui abbia la materiale disponibilità. Tale contegno può assumere anche coloriture dolose, non rientrando, però, siffatta ipotesi in quella di cui all'art. 395, n. 1), c.p.c., in quanto una medesima fattispecie non può essere ricondotta ad una o più tra le ipotesi previste dall'art. 395 c.p.c. (A. ATTARDI, La revocazione, Padova, 1959).

Quanto al limite temporale per la produzione del documento “decisivo”, sembrerebbe da ritenersi che lo stesso debba essere individuato in quello posto dall'art. 32 D.Lgs. n. 546/1992, quindi fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione della causa.

Errore di fatto risultante dagli atti o documenti di causa

Qualora la sentenza sia l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa, la parte potrà far valere tale circostanza quale motivo di revocazione ordinaria, ex art. 395, n. 4, c.p.c..

Per espressa previsione legislativa, ricorre questo errore quando la decisione sia fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.

Ne discende che tale errore:

  • deve cadere su fatti costitutivi, impeditivi ed estintivi del rapporto sostanziale;
  • deve riguardare gli atti o documenti di causa, i quali rappresentino uno di tali fatti (la non verità del fatto asserito dal giudice o la verità del fatto dallo stesso escluso non potrà essere provata con nuovi elementi da addurre in sede di revocazione, ma dovrà già risultare ictu oculi dagli elementi raccolti nella fase che ha messo capo alla sentenza);
  • deve essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa. Infatti, nella fase rescindente del giudizio di revocazione, il giudice, una volta verificato l'errore di fatto (sostanziale o processuale), deve valutarne la decisività alla stregua del solo contenuto della sentenza impugnata, vale a dire operando un ragionamento di tipo controfattuale il quale, sostituita mentalmente l'affermazione errata con quella esatta, provi la resistenza della decisione stessa. Ove tale accertamento dia esito negativo, nel senso che la sentenza impugnata risulti in tal modo priva della sua base logico-giuridica, il giudice dovrà procedere alla fase rescissoria attraverso un rinnovato esame del merito della controversia, che tenga conto dell'effettuato emendamento;
  • deve presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche;
  • non deve consistere in un vizio di assunzione del fatto, nè in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo.

L'errore di fatto che, pertanto, può dar luogo alla revocazione, ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c., non consiste, quindi, nell'inesatto apprezzamento delle risultanze di causa, ma deve essere il prodotto dell'errata percezione della realtà, obiettivamente ed immediatamente rilevabile.

A tal riguardo, la Suprema Corte (sez. tributaria, 25 marzo 2005, n. 6511) ha affermato che “nel processo tributario, ai sensi dell'art. 64, D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che fa proprie le regole dell'art. 395 n. 4, c.p.c., l'errore revocatorio presuppone il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto emergenti una dalla sentenza e l'altra dai documenti ed atti processuali, con assoluta immediatezza e senza necessità di particolari indagini ermeneutiche o di argomentazioni introduttive. Un siffatto contrasto non è, pertanto, ravvisabile nell'errore che costituisce frutto di apprezzamento, implicito o esplicito, delle risultanze processuali”.

Tale ultima affermazione non sembrerebbe, tuttavia, pienamente condivisibile, in quanto relativamente ad un documento, l'errore di tal fatta potrebbe riguardare sia il suo contenuto dichiarativo (fatto sostanziale), che la sua produzione in giudizio secondo le norme di rito (fatto processuale). Esemplificativo al riguardo è il caso in cui la revocanda sentenza, senza una previa attività valutativa di supporto al proprio assunto, abbia erroneamente affermato o escluso la proposizione di una domanda giudiziale.

Da quanto brevemente tratteggiato, risulta con tutta evidenza come tale errore (c.d. “percettivo”) debba essere tenuto ben distinto da quello ex art. 360, n. 5, c.p.c. (c.d. “errore motivazionale”), la cui sussistenza legittima il ricorso per Cassazione.

Infatti, mentre l'errore di fatto che dà luogo alla revocazione ordinaria si sostanzia in un erronea percezione, il presupposto del motivo di ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., è l'errore di ragionamento, sotto il profilo della conoscenza, il quale viene svelato dal contrasto insanabile con le risultanze degli atti o dei documenti. In questo ultimo caso, quindi, la “svista” del giudice si traduce in una vera e propria omissione di valutazione di un fatto che ha formato oggetto di indagine (e, quindi, di discussione) nel corso del processo concluso con la sentenza denunziata.

Ciò posto, non integra un errore di fatto idoneo a giustificare la revocazione della pronuncia, ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c, la denunzia della nullità dell'atto di appello effettuata alla parte personale, anziché al difensore, non trattandosi di errata percezione dell'esistenza o dell'inesistenza di un fatto immediatamente emergente dagli atti (sul punto, Cass. civ., sez. trib., 25 marzo 2005, n. 6511; Id., sez. VI, 18 febbraio 2015, n. 3180).

Al contrario, il travisamento delle risultanze della consulenza tecnica può costituire un errore da far valere ex art. 395, n. 4, c.p.c., in quanto si risolve nell'inesatta cognizione, da parte del giudice, di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo e, quindi, in un accertamento di merito non consentito in sede di legittimità.

Parimenti, in tema di accertamento tributario, la non rilevata nullità dell'avviso di accertamento per mancato rinvenimento dell'atto nel fascicolo, trova il suo fondamento in un accertamento di fatto, il cui eventuale errore si colloca nell'ambito dell'ipotesi di revocazione prevista dall'art. 395, n. 4, c.p.c., giacchè, non costituendo l'avviso di rettifica un atto del procedimento (cfr.: Cass. civ., sez. trib., 21 aprile 2001, n. 5924), non è possibile in sede di legittimità sindacare l'esattezza o meno dalla valutazione operata dal giudice di merito mediante l'esame diretto del fascicolo processuale (Cass. civ., sez. trib., 19 marzo 2002, n. 3949).

Integra, altresì, ipotesi di errore revocatorio, l'omessa pronuncia sulle spese processuali, allorquando nella sentenza si dia erroneamente atto che la controparte non abbia resistito risultando, invece, per tabulas, che essa abbia svolto effettiva attività difensiva.

L'omissione che si riscontra in un tal genere di pronuncia in ordine alle spese giudiziali quando né la premessa espositiva né il "decisum" del provvedimento impugnato facciano riferimento (espressamente o implicitamente) alla costituzione in giudizio della controparte, devesi ritenere, perciò, frutto di evidente errore di fatto addebitabile ad una svista percettiva dell'organo giudicante, e non già ad un errore di diritto discendente dalla sua attività critica.

È, pertanto, la falsa percezione della realtà materiale che ha, in sostanza, indotto il giudice ad un “abbaglio” e, quindi, conseguentemente, a ritenere esclusa la partecipazione al giudizio della controparte la quale, invece, si sia ritualmente costituita, senza che tale fatto abbia formato punto controverso (al riguardo, Cass. civ., sez. I, 20 dicembre 2002, n. 18152).

Accertata, quindi, la linea di demarcazione tra la fattispecie di cui all'art. 395, n. 4, c.p.c. e quella di cui all'art. 360, n. 5, c.p.c., non resta che da esaminare la differenza che intercorre tra il motivo revocatorio che ne occupa e l'ipotesi di cui all'art. 287 c.p.c..

L'errore materiale si risolve in un difetto di corrispondenza tra il contenuto ideale del documento e la sua rappresentazione emergente ictu oculi mediante il semplice raffronto tra la parte del provvedimento che ne è inficiata e le considerazioni contenute in motivazione (es: l'omessa trascrizione, nell'epigrafe della sentenza, del nome del difensore di una delle parti), non riguardando, quindi, la sostanza del giudizio (la quale resta individuabile ed individuata senza incertezza) e non manifestandosi a seguito del confronto tra la rappresentazione dei fatti di cui alla sentenza e gli atti o documenti di causa (come, invece, accade nel caso di revocazione).

Rebus sic stantibus, gli errori di conteggio aritmetico, i quali implichino il travisamento dei dati ed i quali si riducano alla percezione di circostanze in modo contrario a quanto risulta dagli atti di causa, integrano errore revocatorio. Al contrario, qualora tali errori consistano in un'erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di presupposti numerici esattamente individuati e determinati, sono emendabili con l'apposita procedura di correzione di cui agli artt. 287 ss. c.p.c.

Il contrasto con il precedente giudicato

L'art. 395, n. 5), c.p.c., dispone che è soggetta a revocazione (ordinaria), la sentenza che sia “contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purchè non abbia pronunciato sulla relativa eccezione”.

Assume portata determinante, ai fini dell'operatività della norma de qua, che in ordine al giudicato già formatosi sia mancata la relativa pronuncia per non essere stata proposta la relativa eccezione. In tal caso la revocazione è l'unico rimedio esperibile in quanto il carattere di novità che assume tale eccezione rende improponibile il ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 4, c.p.c., possibile, quindi, solo in presenza di pronuncia su tale eccezione o di omessa pronuncia pur essendo la stessa stata proposta.

Inoltre, sarebbe proponibile il ricorso per Cassazione ex art. 360, n. 4, c.p.c., e non la revocazione, qualora il giudicato non sia antecedente alla sentenza revocanda, bensì successivo; in tal caso, infatti, verrebbe meno il vizio che, stando alla lettera della legge, deve presentare la sentenza di cui si chiede la revocazione.

Affinchè “una sentenza possa considerarsi contraria ad altra precedente, occorre che vi sia tra i due giudizi identità di soggetti e di oggetti tal che tra le due vicende sussista un'ontologica e strutturale concordanza degli estremi, sui quali deve essere espresso il secondo giudizio, rispetto agli elementi distintivi della decisione emessa per prima. In altri termini, la precedente sentenza deve avere ad oggetto il medesimo fatto o un fatto ad essa antitetico e non anche un fatto costituente un possibile antecedente logico” (Cass. civ., SS.UU., 30 aprile 2008, n. 10867).

Tale principio, traslato nel processo tributario, significa che l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, quale parametro del giudizio di contrarietà alla res iudicata di una sentenza successiva pronunciata tra le stesse parti, non può che attenere allo specifico rapporto tributario come dedotto nel processo tra le parti. Ne segue che, intanto, può configurarsi detta contrarietà in quanto l'oggetto del secondo giudizio sia costituito dal medesimo rapporto tributario definito irrevocabilmente nel primo, ovvero in questo ultimo sia stato definitivamente compiuto, dal giudice tributario un accertamento radicalmente incompatibile con quello operato nel processo successivo.

Non sarebbe, quindi, configurabile questo motivo di revocazione quando il precedente giudicato si riferisca ad un'annualità di imposta sui redditi diversa dal periodo d'imposta considerato nella impugnata sentenza (Cass. civ., sez. trib., 21 novembre 2001, n. 14714), stante il principio di autonomia dei periodi di imposta. Tuttavia, tale impostazione sembrerebbe da intendersi cum grano salis, in virtù del fatto che ben vi possono essere circostanze (quali quelle c.d. “permanenti”) che possono assumere rilevanza per più periodi di imposta. Pertanto, al ricorrere di tali circostanze, sembrerebbe che la revocazione ex art. 395, n. 5, c.p.c. non possa essere negata.

Interessante e condivisibile è il principio di diritto affermato dal Supremo Consesso, sez. trib., 27 giugno 2011, n. 14045, secondo cui in tema di contenzioso tributario, i ricorsi nei confronti di provvedimenti, emessi da distinti organi dell'Amministrazione finanziaria, di diniego, rispettivamente, dell'istanza di rimborso e di quella di riconoscimento dell'agevolazione alla base della stessa richiesta di rimborso, anche se riuniti tra loro, riguardano atti suscettibili di autonoma e separata impugnazione (ai sensi delle lettere g] ed h] dell'art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992) e rappresentano l'oggetto di un distinto "petitum", per cui possono aversi esiti non necessariamente coerenti. In tal qual caso, non è configurabile il contrasto tra giudicati previsto, ai fini della revocazione, dall'art. 395, n. 5, c.p.c., non sussistendo la necessaria identità di soggetti e di oggetto, né in termini soggettivi (attesa la diversità degli organi che hanno adottato i provvedimenti impugnati con ricorsi solo occasionalmente riuniti in unico processo), né in termini oggettivi (stante l'autonomia ontologica dei provvedimenti impugnati).

Nel giudizio di revocazione per contraddittorietà tra giudicati, l'identità di persone deve essere intesa facendo riferimento all'art. 2909 c.c., a tenore del quale la sentenza passata in giudicato “fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.

Rebus sic stantibus, possono chiedere la revocazione della sentenza per il motivo in questione anche coloro che sono subentrati alla parte originaria nel giudizio conclusosi con la sentenza che risulta in contrasto con altra precedente avente autorità di cosa giudicata (emanata nei confronti del loro dante causa), sicchè coloro saranno legittimati ad instaurare il giudizio di revocazione facendo valere tale circostanza.

Il dolo del giudice

Motivo revocatorio straordinario è l'essere la sentenza “effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato” (art. 395, n. 6, c.p.c.).

Costituisce dolo del giudice, rilevante ai fini della revocazione, l'intento fraudolento o la collusione che scientemente e volontariamente determinino il giudice a pronunziare una sentenza ingiusta, sicchè l'atteggiamento psicologico del giudicante deve operare in modo da falsare il corretto iter decisionale, così da restituire causa diretta e determinante della sentenza ingiusta (Cass. civ., sez. I, 27 gennaio 2004, n. 1409).

Dovendo sussistere, come per ogni motivo di revocazione, il nesso di causalità tra lo stesso e la sentenza ingiusta, ne deriva che tale nesso tra il motivo revocatorio in questione, il dolo o la collusione del giudice e la sentenza contra ius, debba essere di matrice psicologica o, comunque, non giuridica. Infatti, allorquando il giudice abbia potuto tenere conto di tutti i fatti giuridici rilevanti ma ciò non sia avvenuto, l'ingiustizia della sentenza non è altro che effetto dell'errore di diritto.

Dal punto di vista operativo, ai sensi dell'art. 65, comma 2°, D.Lgs. n. 546/1992, la prova della sentenza passata in giudicato che accerta il dolo del giudice deve essere data mediante la sua produzione in copia autentica. La littera legis nulla dice in merito alle conseguenze che derivano qualora la sentenza non sia prodotta in copia autentica. La circostanza che tale previsione sia inserita all'interno di una disposizione in cui viene prevista l'inammissibilità del ricorso per revocazione qualora non contenga gli elementi previsti dall' art. 53, comma 1, e la specifica indicazione del motivo di revocazione e della prova dei fatti di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 del c.p.c., nonché del giorno della scoperta o della falsità dichiarata o del recupero del documento, sembrerebbe far sì che, seppur nel silenzio della legge, tale collocazione deponi nel senso dell'inammissibilità anche nel caso in cui la sentenza che abbia accertato il dolo del giudice non sia prodotta in copia autentica.

Nel giudizio tributario tale produzione deve avvenire entro il termine di cui all'art. 32, comma 1 a); D.Lgs. n. 546/1992.

È da rilevare che la difficoltà insita nell'accertamento del predetto presupposto ha reso tale fattispecie di difficile realizzazione specialmente nel giudizio tributario, in cui la collegialità dell'organo impone che il motivo revocatorio de quo sia riscontrato in tutti i componenti dell'organo giudicante.

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