Riflessioni sull'istituto giuridico dell'esterovestizione

30 Marzo 2016

Il fenomeno, noto come “esterovestizione”, di localizzazione di una società in uno Stato a fiscalità più favorevole allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime fiscale nazionale, costituisce da sempre vexata quaestio nell'ambito del diritto tributario. L'istituto viene considerato, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ora come fenomeno di violazione di norme tributarie (id est, quale manifestazione di pratiche evasive), ora quale modalità di aggiramento del dato normativo (id est, come concretizzazione di condotte elusive/abusive). Considerata l'incertezza che regna sul punto e l'importanza della tematica in esame, con il presente intervento si cercheranno di individuare i profili peculiari e distintivi dell'esterovestizione e di dare veste giuridica all'istituto de quo.
Normativa nazionale e nozione di “residenza fiscale” delle persone giuridiche: criterio della “sede legale” e della “sede dell'amministrazione”.

La disposizione alla quale bisogna far riferimento per individuare il concetto di “residenza fiscale” dei soggetti IRES è l'art. 73, comma 3, primo periodo, del Tuir, il quale dispone che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d'imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato”.

Dalla lettura del dato normativo emerge, ictu oculi, come il Legislatore abbia individuato tre criteri, tra loro alternativi (come risulta dall'utilizzo della disgiuntiva “o”) e non classificabili secondo un ordine gerarchico di priorità, la sussistenza di uno solo dei quali fa sì che la persona giuridica possa essere considerata residente in Italia, a prescindere dal fatto che il reddito sia prodotto all'estero, con quanto ne consegue in termini di obblighi dichiarativi.

Il primo criterio enunciato è quello della “sede legale”, per la cui determinazione occorre fare riferimento alla normativa civilistica.

L'art. 16 c.c. afferma che “l'atto costitutivo e lo statuto devono contenere la denominazione dell'ente, l'indicazione dello scopo, del patrimonio e della sede, nonché le norme sull'ordinamento e sull'amministrazione”; l'art. 33 c.c. chiarisce, inoltre, che “nel registro devono indicarsi la data dell'atto costitutivo e quella del decreto di riconoscimento, la denominazione, lo scopo, il patrimonio, la durata, qualora sia stata determinata, la sede della persone giuridica e il cognome e il nome degli amministratori con la menzione di quelli ai quali è attribuita la rappresentanza”.

Pertanto, la sede legale della società è quella indicata nell'atto costitutivo o nello statuto, poi trascritto nel Registro delle Imprese ed è il luogo “in cui opera il centro direttivo ed amministrativo della società, ove avviene il compimento di atti giuridici in nome di essa, con l'abituale presenza degli amministratori, investiti della relativa rappresentanza”.

Qualora, l'atto costitutivo nulla dica al riguardo (cioè non indichi la sede della società) sovviene il criterio della “sede dell'amministrazione”, per la cui individuazione bisogna rifarsi alle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. trib., 7 febbraio 2013, n.2869; Cass. civ., sez. trib., 4 agosto 2000, n. 10243), la quale ha ritenuto che debba intendersi come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e dove si convocano le assemblee, cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento (nei rapporti interni e con i terzi), degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente (cioè la localizzazione del management).

Detta sede “non coincide con il luogo in cui si trova un recapito della medesima, oppure una persona che genericamente ne cura gli interessi o sia preposta ad uffici di rappresentanza, dipendenze o stabilimenti, ma si identifica con il luogo dove si svolge la preminente attività direttiva ed amministrativa dell'impresa” (Cass. civ., 9 giugno 1988, n. 3910), “dove si svolgono con regolarità le assemblee dei soci e l'attività dell'organo amministrativo; - si tengono le riunioni di tale organo e in cui la partecipazione dei diversi membri è opportunamente documentata; - si effettua la gestione operativa” (Valente P., Esterovestizione e eterodirezione: equilibri(smi) tra sede di direzione e coordinamento, direzione unitaria e sede di direzione effettiva, in Riv. Dir. Trib., n. 4/2010).

Ne deriva, quindi, che “è l'attività amministrativa che conta, indipendentemente da colui che la compie” ed “occorre indagare chi amministra in effetti e non chi è preposto formalmente a tale attività che non esercita magari in concreto” (Simonetto E., Delle società, in “Commentario al codice civile”, a cura di Scialoja – Branca, Bologna, 1976).

Pertanto, non potrebbe trarsi argomento a sostegno dell'assenza di esterovestizione lo svolgimento, nello Stato estero, di assemblee dirette alla semplice ratifica di decisioni assunte in Italia, qualora in tale ultimo Paese sia radicato il centro decisionale e volitivo (in tal senso, CTP Belluno, sez. I, 3 dicembre 2007, n. 174; CTP Varese, sez. III, 3 ottobre 2013, n. 125; CTP Macerata, sez. I, 12 febbraio 2013, n. 47).

Vi può essere, quindi, ai fini della individuazione della “sede effettiva” una scissione tra il luogo in cui vengono effettivamente assunte le decisioni fondamentali e quello in cui le stesse vengono formalmente deliberate.

Non bisogna trascurare di considerare, infatti, che “il significato dell'espressione "sede" implica un riferimento spaziale” (Marino G., La residenza delle persone giuridiche nel diritto tributario italiano e convenzionale, in “Diritto e pratica tributaria”, 1995, vo. I), il quale deve essere caratterizzato da continuità (non un singolo atto di gestione è sufficiente per poter individuare la “sede amministrativa”) ed attualità (ben potendo accadere che la preminente attività direttiva ed amministrativa subisca mutamenti in relazione alla situazione di fatto esistente).

Proprio il fatto che all'espressione “sede di direzione effettiva” siano connaturati tali requisiti fa ben comprendere il perché tale luogo si identifichi con quello in cui è radicato il centro decisionale e volitivo. Questo ultimo, infatti, non è altro che la summa di una serie di processi, quali sono quelli organizzativi, di controllo dei fattori produttivi, di gestione di personale, di relazione con i soggetti terzi, che non si esauriscono, per ovvi motivi, in atti meramente istantanei o occasionali.

Elementi, quelli appena indicati, che implicano la stabilità del riferimento e, perciò, la percettibilità, da parte di qualunque terzo, della collocazione indicata quale centro di gestione e di elaborazione di tutto quanto attiene alla direzione della società ed al dispiegamento della sua attività.

Da quanto precede risulta, quindi, come l'esistenza della sede dell'amministrazione debba essere valutata in base a fattori di effettività sostanziale e richiede, talora, complessi accertamenti di fatto del reale rapporto della società o dell'ente con un determinato territorio, che possono non corrispondere con quanto rappresentato nell'atto costitutivo o nello statuto (Agenzia delle Entrate, Circolare n. 28/E del 4 agosto 2006).

Tra tali elementi non sembrerebbe che possa annoverarsi tout court la residenza anagrafica degli amministratori, come invece asserito dalla giurisprudenza (CTR Toscana, sez. XXV, 18 gennaio 2008, n. 61) e dalla prassi (UNGDCEC, “La residenza fiscale delle società nell'Ires ed il fenomeno dell'esterovestizione societaria”, Circolare n. 7 del 20 maggio 2009). La conferma di ciò proviene proprio dal nostro legislatore ed, in particolare, dal comma 5-bis dell'art. 73 del TUIR, secondo cui tale elemento rileva quale presunzione iuris tantum, ai fini che ci occupano, solo nei confronti delle holding di partecipazione e, quindi, non indiscriminatamente in tutte le asserite fattispecie di esterovestizione.

Qualora, quindi, gli amministratori risiedano in Italia, ma svolgano le proprie funzioni a mezzo di procuratori operanti all'estero, ivi si dovrà individuare il luogo della concreta messa in esecuzione, da parte dei predetti procuratori, delle direttive ad essi impartite e, quindi, la residenza fiscale societaria.

All'interno dei gruppi, considerato che l'attività di direzione e coordinamento si rinviene in capo alla società capogruppo, sorge inevitabile l'interrogativo circa la corretta individuazione della “sede di direzione effettiva”.

In tal caso la localizzazione del centro decisionale e volitivo niente altro è se non il luogo in cui avviene la gestione e la direzione quotidiana, a nulla rilevando, quale circostanza risolutiva in tal senso, l'esistenza di un penetrante potere di controllo di una società nei confronti di altra, in quanto fenomeno ben diverso dallo svolgimento delle attività di gestione amministrativa.

Infatti, diversamente si assisterebbe all'inaccettabile conclusione che il place of effective management (per mutuare l'espressione di cui all'articolo 4, paragrafo 3 del Modello OCSE) di tutte, o quantomeno gran parte, delle società appartenenti ad un gruppo debba essere ricondotto presso le strutture di comando della capogruppo, con la conseguenza che, qualora non sia evidente il radicamento delle società nel territorio degli Stati esteri, in cui sono situate le sedi legali, esse potrebbero essere considerate fiscalmente residenti nello Stato della controllante, con buona pace della libertà di stabilimento garantita in sede comunitaria (cfr. Gaffuri A. M. – Covino S., Ancora su residenza fiscale, sede amministrativa e società holding, in Dialoghi di diritto tributario, n. 1/2006).

Normativa nazionale e nozione di “residenza fiscale” delle persone giuridiche: criterio dell' “oggetto principale”

L'altro criterio di collegamento utilizzato dal legislatore tributario per ricondurre in Italia la residenza di società estere è quello dell'oggetto principale, concetto che appare di più dubbia definizione rispetto a quello di “sede dell'amministrazione”.

L'identità letterale con la definizione civilistica consente di mutuare l'interpretazione dottrinale elaborata in tale ambito, secondo la quale l'oggetto dell'impresa coincide con la concreta attività svolta per il raggiungimento dello scopo sociale; sotto questo profilo può rilevarsi come anche il secondo periodo del comma 4 dell'art. 73 del TUIR, precisi che per oggetto principale debba intendersi “l'attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto”.

Come condivisibilmente osservato (Guardia di Finanza, Circolare n. 1 del 28 dicembre 2008, vol. III), “si tratta, a ben vedere, di una definizione estremamente ampia, per circoscrivere la quale si ritiene in genere necessario prendere in considerazione lo svolgimento dell'attività per il cui esercizio la società è stata costituita, nonché gli atti produttivi e negoziali ed i rapporti economici che la stessa pone in essere con terzi”.

Anche per tale criterio di collegamento, è utile riportare l'orientamento espresso dalla Cass. civ., 9 giugno 1988, n.3910, la quale ha affermato che “l'oggetto principale dell'attività corrisponde all'attività esercitata in concreto ed in via primaria dalla società”.

Pertanto, tra gli elementi da prendere in considerazione in sede controllo al fine di ricondurre sul territorio nazionale l'oggetto principale della società (e, quindi, per predicare l'esistenza di un fenomeno di esterovestizione), è possibile indicare i seguenti:

  • il luogo di svolgimento delle attività che hanno consentito la conclusione di atti e negozi;
  • l'identità delle controparti di questi ultimi e la loro residenza;
  • l'individuazione dei mercati sui quali sono stati negoziati i titoli di eventuali società partecipate, nonché l'ubicazione di tali società;
  • la localizzazione della effettiva gestione dei conti correnti e delle disponibilità finanziarie della società.

Ove l'attività svolta in Italia risulti prevalente in senso assoluto, o comunque risulti nettamente preponderante nel quadro di tutte le attività svolte, appare possibile sostenere che l'oggetto principale della società sia collocabile, ai fini fiscali, in Italia.

Sembrerebbe corretto ritenere che la preponderanza debba essere valutata dal punto di vista sostanziale, avendo riguardo allo scopo dell'attività sociale (la quale si risolve in un complesso di atti diretti ad un fine), che si manifesta nell'apparato organizzato di beni e persone, da dove promano le attività di direzione dell'ente.

Pertanto, per individuare il luogo in cui viene a realizzarsi l'oggetto sociale rileverebbe non tanto quello dove si trovano i beni principali posseduti dalla società, quanto la circostanza che occorra o meno una presenza in loco per la gestione dell'attività (Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 2012, n. 7080).

In definitiva, quando l'insediamento è reale ed è dimostrato il suo radicamento sul territorio sembrerebbe indubbio che il luogo di direzione effettiva (id est, la “sede dell'amministrazione”) sia quello in cui concretamente viene svolta l'attività imprenditoriale. Ciò sembrerebbe comportare che il luogo di direzione effettiva non possa essere dissociato dal luogo di esercizio concreto dell'attività di produzione di beni e servizi.

Quanto esposto dimostra come l'esterovestizione sia un fenomeno che riguarda l'entità giuridica nel suo complesso e non una parte dell'attività da questa esercitata.

Affermare ciò significherebbe travalicare il tenore letterale dell'art. 73, comma terzo, del Tuir, il quale non legittima in alcun modo l'Organo Verificatore a scindere una società, avente sede all'estero, in due entità, delle quali una venga ritenuta esterovestita, mentre l'altra no (cfr. sul punto, Tribunale di Pesaro, in composizione monocratica penale, 19 novembre 2015 n. 861, il quale ha censurato l'operato della Guardia di Finanza che aveva artificiosamente creato una persona giuridica alla quale imputare le asserite violazioni fiscali, ritenendo essersi verificato un fenomeno di esterovestizione. Il Tribunale ha riconosciuto che la società avesse effettivamente sede a San Marino, ove era operante, sede dalla quale riceveva e spediva i capi di abbigliamento confezionati).

Sul rapporto tra esterovestizione ed elusione fiscale/ abuso del diritto

La collocazione dell'esterovestizione nell'alveo dell'evasione o in quello dell'elusione è interrogativo che ha, da sempre, impegnato gli operatori del diritto.


Al fine di sciogliere il nodo, diviene imprescindibile procedere ad un inquadramento delle categorie concettuali in questione.


L'evasione fiscale, come insegna Autorevole Dottrina, si identifica in “qualsiasi fatto commissivo od omissivo del soggetto passivo dell'imposizione che, avendo posto in essere il presupposto del tributo, si sottrae, in tutto o in parte, ai connessi obblighi previsti dalla legge” (Lovisolo A., L'evasione e l'elusione tributaria, in Enciclopedia del Diritto, III, Giuffrè, Milano, 1988); l'evasione, pertanto, si sostanzia in un comportamento apertamente contra ius.


L'elusione, al contrario, consiste nell'apprestare una concatenazione di atti e procedimenti leciti che consentono di non realizzare la fattispecie imponibile o di porne in essere una meno onerosa per il contribuente; essa si distingue, da un lato, dal risparmio d'imposta, che si muove tutto nell'ambito di opzioni fisiologiche interne al sistema, e dall'altro, dall'evasione fiscale perché non si pone in diretta violazione di un precetto normativo.

In altre parole, gli atti ed i fatti sono tutti rappresentati e documentati in modo conforme alla legge (così distinguendosi dalla frode fiscale e dalla truffa), né si ravvisa la divergenza tra voluto e rappresentato, come avviene, invece, nella simulazione, proprio perché non vi è interesse a mostrare una realtà diversa da quella effettiva. L'obbligo fiscale viene, per così dire, “aggirato”, strumentalizzando le regole fiscali, ovvero violandone la ratio.


Il concetto di “elusione fiscale”, quale quello codificato nell'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, ha, di fatto, subìto un allargamento ad opera del diritto vivente, che, sulla scia delle pronunce della Corte di Giustizia, lo ha fatto assurgere a principio generale dell'ordinamento, definito quale abuso del diritto.

Nelle sentenze nn. 30055, 30056, 30057 del 23 dicembre 2008, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione

hanno affermato che “non può non ritenersi insito nell'ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”.


L'obiettivo di dare maggiore certezza al quadro normativo in tema di elusione-abuso del diritto, di evitare che gli uffici esercitassero i loro poteri di accertamento senza precise linee guida limitandosi a invocare il principio generale antiabuso e, soprattutto, di sganciare la dimostrazione della sussistenza della sostanza economica delle operazioni dalla sfera dei motivi della condotta, oggettivizzandola nel senso dell'effettività, ha indotto il legislatore a porre, in attuazione dell'art. 5 della Legge Delega 11 marzo 2014, n. 23, criteri diretti a promuovere una chiara normativa di attuazione che determinasse esaustivamente e senza ambiguità i connotati dell'abuso e le modalità dell'uso distorto degli strumenti negoziali, in sostituzione del predetto art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.


La norma di delega era, dunque, volta a riequilibrare il rapporto tra lo strumento anti-elusione e la certezza del diritto, messa in discussione dalla prassi amministrativa di sindacare ex post le scelte dei contribuenti sulla base di orientamenti non noti al momento in cui le operazioni sottoposte a controllo fossero già decise ed effettuate. Pertanto, da un lato, si prevedeva che venisse stabilito il generale divieto di utilizzare in modo distorto gli strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d'imposta, ancorchè tale condotta non fosse in contrasto con alcuna specifica disposizione.

Dall'altro lato, si prevedeva che venisse riconosciuto al contribuente il diritto di scelta tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale, purchè essa non fosse volta unicamente ad ottenere indebiti vantaggi fiscali; in particolare, predicando l'ammissibilità dell'operazione qualora fosse giustificata da ragioni extrafiscali “non marginali” id est da ragioni che non producono necessariamente una redditività immediata dell'operazione ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e consistono in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda del contribuente.


Con l'art. 1, comma 1, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, il legislatore ha introdotto il comma 10-bis, rubricato “Disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale”, nel corpus dello Statuto dei Diritti del Contribuente, che ha generalizzato, unificandole, le categorie concettuali dell'abuso del diritto, di matrice giurisprudenziale e dell'elusione fiscale, derivandone, dunque, che nell'articolato normativo i due termini sono equipollenti ed utilizzati indifferentemente.


In attuazione di quanto disposto dall'art. 5 della Legge Delega, la nuova norma contiene una completa, seppur sintetica, definizione di abuso del diritto. Il dato positivo stabilisce, in particolare, che configurano “abuso del diritto” le operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.

La previsione individua, quindi, i tre presupposti per l'esistenza dell'abuso:

1) l'assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate;

2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito;

3) la circostanza che il vantaggio sia l'effetto essenziale dell'operazione (cfr. Studio 151-2015/T del Consiglio Nazionale del Notariato: “L'abuso del diritto o elusione in materia tributaria: prime note nella prospettiva della funzione notarile”, di V. Mastroiacovo).


Tale formulazione potrebbe essere tacciata di indeterminatezza, se non fosse che riceve il suo naturale completamento nel secondo comma del medesimo articolo, laddove vengono elencati gli elementi sintomatici di una condotta abusiva/elusiva.


Nel testo viene precisato che:

a) per “operazioni prive di sostanza economica” si intendono i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, “inidonei a produrre effetti significativi diversi da quelli fiscali" (ad esempio, indici di mancanza di sostanza economica possono essere “la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”);

b) per “vantaggi fiscali indebiti”, si significano i benefici, anche non immediati, contrastanti con le finalità delle norme tributarie o con i principi dell'ordinamento tributario.

In ogni caso, il legislatore sancisce che non si considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni economiche, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, “che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente”. Resta comunque ferma la facoltà di scelta tra regimi opzionali diversi e tra operazioni comportanti un differente carico fiscale.


Senza dubbio, però, per quanto qui di interesse, uno dei punti più delicati della delega riguardava proprio il tema della rilevanza penale delle condotte che si concretizzano in abuso del diritto/elusione fiscale.

Il legislatore delegato si è trovato di fronte ad un bivio: o eliminare tout court la rilevanza penale dei contegni elusivi senza conseguenze nemmeno sul piano sanzionatorio amministrativo, oppure prevedere unicamente la loro sanzionabilità amministrativa nel caso di violazione di norme tributarie.


La scelta adottata dal legislatore delegato è stataquella di escludere la rilevanza penale delle operazioni costituenti abuso del diritto, quali descritte dalla norma generale, facendo salva, per converso, l'applicabilità ad esse delle sanzioni amministrative, ove ne ricorrano in concreto i presupposti (art. 10-bis, comma 13, Legge n. 212/2000, secondo cui “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie” e comma 12 dello stesso articolo: “in sede di accertamento l'abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”).


Tale scelta è, a giudizio di chi scrive, perfettamente conforme all'impianto normativo tratteggiato dal legislatore delegato.


Proprio il riferimento ai “vantaggi fiscali indebiti” fa ben comprendere il perché il legislatore abbia sottratto tali comportamenti alla comminatoria di sanzioni penali. I vantaggi in questione, infatti, sono quelli “disapprovati dal sistema tributario” (cfr. Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 128/2015) e, quindi, formalmente conformi alla littera legis, ma divergenti dalla ratio della stessa (e l'assenza di sostanza economica è un indice in tal senso); in essi non vi è alcuna traccia di frode o simulazione.


Rimane, comunque, “impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali sempre, naturalmente, che ne sussistano i presupposti nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad esempio, negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione)” (Cass. pen., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 40272).


Inquadrato il sistema normativo di riferimento, non resta che da appurare se l'esterovestizione abbia caratteri elusivi o evasivi; la problematica non è di poco conto, considerato il fatto che, ove fosse ricondotta nell'ambito dell'elusione/abuso del diritto, il soggetto agente andrebbe esente da responsabilità penale.


Con particolare riferimento al fenomeno della localizzazione all'estero della residenza fiscale di una società, la sentenza della Corte di Giustizia del 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes, ha affermato, in tema di libertà di stabilimento, che la circostanza secondo cui una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituirebbe, in re ipsa, un abuso di tale libertà. Tuttavia, una misura nazionale che restringerebbe la libertà di stabilimento, sarebbe ammessa solo se concernesse specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato.


L'obiettivo della libertà di stabilimento è quello di permettere ad un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare così, in maniera continuativa, alla vita economica di uno Stato diverso da quello di origine e di trarne vantaggio. La nozione di stabilimento implica, quindi, l'esercizio effettivo di un'attività economica per una durata di tempo indeterminata.


Ne consegue che, perchè sia giustificata da motivi di lotta alle pratiche abusive, la restrizione alla libertà di stabilimento debba avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.


In definitiva, deve ritenersi che quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma verificare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l'operazione consista nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.


Pertanto, nel caso di esterovestizione non vi è alcuna alterazione del fatto economico, come avviene, invece, nel caso di evasione: la libertà di stabilimento, che costituisce uno strumento giuridico lecito, viene piegata in funzione di conseguire una tassazione più favorevole.

Infatti, “il soggetto esterovestito pone in essere delle tecniche e dei comportamenti (quest'ultimi, sinteticamente, individuabili nell'ubicazione, dal punto di vista formale, della residenza fiscale all'estero, finalizzati ad impedire il sorgere della fattispecie legale imponibile nel proprio territorio” (M.Thione- M. Bargagli, Esterovestizione societaria, disciplina tributaria e profili tecnico- operativi, Torino, 2013. In tal senso anche, Tribunale di Pesaro, in composizione monocratica penale, 19 novembre 2015 n. 861, laddove si legge che “non appare destituita di fondamento la tesi formulata dalla difesa nella memoria difensiva depositata all'udienza odierna, secondo cui la c.d. esterovestizione integra una condotta di abuso del diritto”; Cass. pen., sez. III, 28 febbraio 2012, n. 7739. Contra, E.M. Simonelli – F. Ferini, L'abuso del diritto: da principio immanente nell'ordinamento tributario a fattispecie penalmente irrilevante, in Rivista dei dottori commercialisti, n. 1/2013; A. De Nisi – D. Frustaglia, “L'esterovestizione societaria quale pratica elusiva: profili penali e sanzionatori”, in “Rivista della Guardia di Finanza”, n. 3/2013).


L'equivalenza esterovestizione – elusione/abuso del diritto comporta, quindi, l'irrilevanza penale della condotta di esterovestizione in virtù della nuova disciplina dettata dall'art. 10-bis dello Statuto dei diritti del Contribuente, introdotto dal D.Lgs. n. 128/2015(al riguardo, Cassazione Penale, sez. III, 30 ottobre 2015, n. 43809. Si veda il contributo di C. Cravetto, “Assoluzione "Dolce & Gabbana": esterovestizione e reato di omessa dichiarazione tra "vecchia" e "nuova" normativa”, in www.iltributario.it, 1° febbraio 2016).

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