Non è sempre abusiva la scissione finalizzata alla cessione di partecipazioni
03 Ottobre 2017
Premessa
Non si rinviene l'esistenza di un "indebito vantaggio fiscale", riconducibile alle fattispecie di abuso del diritto ai sensi dell'art. 10-bis L. n. 212/2000, in una scissione parziale proporzionale tesa alla creazione di una o più società destinate ad accogliere i rami operativi dell'azienda da far circolare, successivamente, sotto forma di partecipazioni da parte dei soci-persone fisiche, poiché il legislatore consente diverse strade, tutte poste sullo stesso piano e aventi, quindi, pari dignità fiscale. Non può imporsi ad una persona fisica interessata alla monetizzazione dell'azienda (o di un ramo di essa), di cui è titolare una società dalla stessa partecipata, di far circolare l'azienda (o un ramo di essa) esclusivamente attraverso la sua cessione c.d. diretta da parte della società partecipata, con un aggravio fiscale relativo alla doppia imposizione che incide, una volta, in capo all'ente societario (sulla plusvalenza da cessione) e, un'altra volta, in capo alla persona fisica-socio (sulla distribuzione degli utili afferenti a detta cessione). Il caso esaminato nella Risoluzione n. 97/E, del 25 luglio 2017, riguarda una scissione proporzionale di una società che svolgeva sia un'attività di impresa nel settore dei servizi sanitari e, al contempo, possedeva un complesso immobiliare in parte utilizzato per lo svolgimento dell'attività, e in parte concesso in locazione. La scissione era preordinata alla successiva cessione delle partecipazioni nella società scissa, alla quale “restava” l'attività di impresa nel settore dei servizi sanitari, in quanto i soci avevano ricevuto una proposta di acquisto del solo ramo d'azienda operativo. L'operazione complessiva veniva prospettata come segue: in una prima fase, attraverso l'operazione di scissione il compendio immobiliare transitava ad una società beneficiaria di nuova costituzione, cosicché in una seconda fase i soci della società scissa a cui restava la titolarità del solo compendio aziendale, potevano cedere le proprie partecipazioni ai terzi interessati. La Risoluzione affronta non solo il tema dell'abuso di diritto, ma anche il controverso tema dell'art. 20 d.P.R. n. 131/1986 in materia di imposta di registro. La questione
La risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 97 rappresenta un revirement da parte dell'Amministrazione rispetto al proprio orientamento in merito alla scissione parziale proporzionale con beneficiaria neocostituita (assegnataria del solo ramo immobiliare) e alla successiva cessione di tutte le partecipazioni nella scissa, rimasta titolare, all'esito della scissione, del solo ramo operativo, da parte dei relativi soci. La nuova impostazione adottata dall'Amministrazione Finanziaria va letta in relazione all'introduzione dell'art. 10-bis L. n. 212/2000, che ha innovato la disciplina dell'abuso del diritto. In passato, infatti, sono state giudicate elusive le operazioni volte a cedere beni o rami d'azienda nella forma dello share deal, rispetto a all'asset deal (come per esempio, nella risoluzione n. 97/2009 e 256/2009). Ora, invece, la scissione volta a separare due distinti complessi, come operazione prodromica alla successiva cessione delle partecipazioni di una delle società risultanti dalla scissione (ossia di quella contenente il ramo operativo), da parte dei soci, non è considerata abusiva.
La Risoluzione in commento è particolarmente significativa anche perché traccia con rigore giuridico il processo valutativo per giungere al giudizio sull'abusività o meno dell'operazione, applicabile pertanto a qualsivoglia tipo di operazione. Nella sua motivazione, poi, l'Agenzia delle Entrate svolge delle importanti considerazioni sulle modalità di circolazione di un'azienda, esaminando varie alternative (cessione d'azienda, conferimento dell'azienda in una newco e successiva cessione della newco conferitaria, scissione con attribuzione alla scissa del ramo operativa e successiva cessione della scissa), ponendole tutte su un eguale piano di dignità fiscale. Infine è importante perché, unitamente alle successive risoluzione 98 e 99, affronta il tema del rapporto tra l'art. 10-bis L. n. 212/2000 e l'art. 20 d.P.R. n. 131/1986 in materia di imposta registro. Preliminarmente all'analisi del caso, l'Agenzia delle Entrate rileva che -al fine del giudizio sull'abusività dell'operazione- occorre anzitutto verificare la sussistenza o meno di un vantaggio fiscale indebito. In specie, il primo comma dell'articolo 10-bis prevede che, affinché un'operazione possa essere considerata abusiva, l'Amministrazione Finanziaria deve identificare e provare il congiunto verificarsi di tre presupposti costitutivi presupposti costitutivi: a) la realizzazione di un vantaggio fiscale "indebito", costituito da "benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario"; b) l'assenza di "sostanza economica" dell'operazione o delle operazioni poste in essere consistenti in "fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali"; c) l'essenzialità del conseguimento di un "vantaggio fiscale".
L'Agenzia delle Entrate pone la verifica di questi elementi in ordine logico-cronologico (così anche Assonime, nella propria Circolare n. 21/2016), sicchè l'assenza di uno dei tre presupposti costitutivi dell'abuso determina un giudizio di assenza di abusività (viene precisato che è prioritaria la verifica dell'esistenza del primo elemento costitutivo - l'indebito vantaggio fiscale - in assenza del quale l'analisi anti-abusiva deve intendersi terminata). Se, tuttavia, un'operazione presenta i tre elementi sopra indicati, non può comunque considerarsi abusiva (ai sensi del successivo comma 3) se sia giustificata da valide ragioni extrafiscali non marginali (anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa o dell'attività professionale). Nel caso di specie l'Amministrazione Finanziaria ritiene che, non esistendo alcun indebito vantaggio fiscale, l'operazione non integri gli elementi dell'abuso. Tuttavia l'Agenzia delle Entrate aggiunge un ulteriore requisito, per il giudizio di non abusività, che non è previsto dalla legge: precisa infatti che, affinché non siano ravvisabili profili di abuso del diritto, la scissione i) deve caratterizzarsi come un'operazione di riorganizzazione aziendale finalizzata all'effettiva continuazione dell'attività imprenditoriale da parte di ciascuna società partecipante, ed inoltre, ii) non deve trattarsi di società sostanzialmente costituite solo da liquidità, intangibles o immobili, bensì di società che esercitano prevalentemente attività commerciali ai sensi dell'art. 87, comma 1, lett. d), TUIR. In proposito è interessante la ricostruzione critica di tale impostazione fatta da Assonime, nella propria Circolare n. 20/2017, in cui si precisa che “non è detto che si debba ritenere automaticamente abusiva una scissione che abbia ad oggetto singoli beni non costituenti compendio aziendale quando sia seguita da una cessione delle partecipazioni. Dai contatti avuti, infatti, con l'Agenzia, ci risulta che sono ancora pendenti su questa fattispecie interpelli che richiederanno ulteriori riflessioni. Siamo perciò di fronte ad indicazioni di carattere generale suscettibili di essere affinate e meglio precisate in futuro. Ciononostante, queste affermazioni suscitano qualche dubbio che è subito il caso di esplicitare”.
Evidenzia Assonime, infatti, che - una volta che sia stata accertata l'assenza di un vantaggio fiscale indebito- non occorre interrogarsi sugli ulteriori requisiti dell'abuso e in particolare, sulla sostanza economica dell'operazione, altrimenti si contraddice la premessa metodologica del giudizio sull'abusività e si reintroduce surrettiziamente la preminenza delle valutazioni delle ragioni economiche dell'operazione.
Tanto che Assonime afferma, condivisibilmente, che il regime di neutralità della scissione non è affatto subordinato alla presenza presso la società scissa e/o beneficiaria di un compendio aziendale (come confermato dalla stessa Agenzia delle entrate con la risoluzione n. 98/2017): infatti, dato che il regime di neutralità è l'in se della scissione, proprio per la sua natura successoria, non vi è motivo per disconoscere gli effetti della scissione in caso di successiva cessione delle partecipazioni della società (scissa o beneficiaria) destinataria di singoli beni e non di un compendio aziendale. È interessante, infine, la ricostruzione metodologica, operata dall'Agenzia Entrate, sulle varie modalità possibili per realizzare la cessione di un'azienda. In via generale, la circolazione di un'azienda (o di un ramo d'azienda) di cui è titolare un ente societario può avvenire attraverso: i) la cessione diretta (asset deal), in cui: a) la società titolare dell'azienda la aliena direttamente all'acquirente conseguendo, a seconda dei casi, una plusvalenza imponibile ovvero una minusvalenza deducibile (artt. 86, comma 2, e 101, comma 1, del TUIR); gli eventuali utili conseguiti dalla società cedente, possono essere distribuiti ai soci con l'applicazione della tassazione loro propria; b) l'acquirente avrà riconosciuti gli eventuali maggiori (o minori) valori fiscali dei beni e dell'eventuale avviamento relativi all'azienda ceduta, emergenti dalla cessione. (cfr., per il socio-società/imprenditore, gli articoli 89 e 59 TUIR e, per il socio-persona fisica, l'art. 47 TUIR). ii) la cessione indiretta (share deal), in cui: a) i soci della società titolare dell'azienda possono cedere a terzi le partecipazioni detenute in detta società, realizzando così una minus/plusvalenza assoggettata a tassazione secondo la qualifica soggettiva del socio (persona fisica o meno, qualificata o meno, ovvero socio imprenditore persona fisica o IRES); b) diversamente dalla cessione di azienda, tale modalità indiretta di cessione non determina per l'acquirente il riconoscimento degli eventuali maggiori (o minori) valori fiscali dei beni (ivi inclusi i maggiori ammortamenti), contenuti nella partecipata oggetto di cessione.
Afferma l'Agenzia delle Entrateche questi due diversi regimi fiscali, limitatamente alla circolazione dell'azienda, risultano alternativi in quanto, sebbene comportino criteri di imputazione del reddito imponibile, valori fiscali e carichi fiscali differenti, essi costituiscono alternative diverse, tutte poste sullo stesso piano e aventi, quindi, pari dignità fiscale, rimesse ai contribuenti per dare concreta attuazione ai loro interessi economici e, pertanto, il vantaggio fiscale così ottenuto non può qualificarsi di per sé come indebito. Inoltre, viene chiarito che, dal punto di vista fiscale, il patrimonio netto (residuo) attribuito alla società beneficiaria: i) dovrà considerarsi formato nel rispetto della natura (capitale o utile) delle poste di patrimonio netto presenti nella società scindenda; ii) e nelle medesime proporzioni (senza considerare, nella proporzione, le riserve in sospensione d'imposta già ricostituite dalla società beneficiaria). Così come la ripartizione del costo fiscalmente rilevante in capo ai soci della partecipazione nella società post scissione deve avvenire in base ai loro valori economici sussistenti al momento dell'effettuazione dell'operazione medesima. La risoluzione in commento considera non valutabile l'elusività dell'operazione ai fini dell'imposta di registro, ma lascia aperta la possibilità di applicare l'art. 20 DPR n. 131/86 in tema di interpretazione degli atti, richiamando il principio contenuto nella sentenza della Cassazione del 15 marzo 2017 n. 6758, secondo cui sarebbe possibile riqualificare come cessione dell'azienda, a beneficio del cessionario delle quote della società “contenitore”, una serie di operazioni che nel loro complesso possedessero una causa unitaria di cessione aziendale. Si ricorda, infatti, che l'Agenzia delle Entrate, anche a causa di alcuni arresti giurisprudenziali della Corte di Cassazione, è solita effettuare degli accertamenti ai fini dell'imposta di registro, eccependo che il conferimento di un'azienda in una società seguita in un breve lasso temporale dalla cessione delle partecipazioni ricevute in cambio, debbano essere assoggettate ad imposizione proporzionale quali cessioni di azienda (così la sentenza n. 6758 sopracitata della Corte di Cassazione). Tale rilievo, che presuppone evidentemente lo svilimento dello strumento societario scelto dal contribuente – considerato come totalmente inesistente ai fini dell'inquadramento tributario dell'operazione – viene effettuato in forza del noto art. 20 del Testo Unico sull'imposta di registro che consentirebbe agli Uffici tributari di “reinterpretare” gli atti dei contribuenti, tassandoli in ragione della loro “intrinseca natura” e degli “effetti giuridici” da essi spiegati, al di là della “forma apparente”. Ciò accade anche nel caso in cui si sia in presenza di un'operazione di cessione totalitaria di partecipazioni. Infatti, secondo la Suprema Corte, con la sentenza del 12 maggio 2017, n. 11877, l'art. 20 DPR n. 131/1986 attribuisce preminente rilievo all'intrinseca natura ed agli effetti giuridici dell'atto, rispetto al suo titolo ed alla sua forma apparente, sicché l'Amministrazione finanziaria può riqualificare come cessione di azienda la cessione totalitaria delle quote di una società, senza essere tenuta a provare l'intento elusivo delle parti, attesa l'identità della funzione economica dei due contratti, consistente nel trasferimento del potere di godimento e disposizione dell'azienda da un gruppo di soggetti ad un altro gruppo o individuo. In particolare, i giudici di legittimità, sulla falsariga di altre recenti pronunce della Suprema Corte (cfr., ex multis, Cass. n. 3562/2017), pur ribadendo come l'art. 20 non sia una norma anti-elusiva e, pertanto, non permetta all'Ufficio di fondare la propria pretesa contestando la mancanza di ragioni valide economiche e l'abuso del diritto, sostengono che la norma nondimeno legittima una lettura volta ad individuare e valorizzare la causa concreta, intesa quale sintesi degli interessi “oggettivati nell'operazione economica”. Tale tesi viene confermata da alcuni giudici di merito (cfr. sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Toscana del 7 luglio 2016, n. 1252), mentre è respinta da altri (cfr: Commissione Tributaria Provinciale di Roma, n. 14467/18 del 2016, Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza n. 156/3 del 2017 e Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia 189/2 del 2017). Ne deriva perciò un'interpretazione del negozio tesa alla valorizzazione della relativa causa reale, quale elemento sintetico degli effetti economici finali delle operazioni poste in essere. Ciò, però, non è assolutamente condivisibile (si veda anche Assonime nella Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, p. 23). Infatti, la stessa Corte di Cassazione, con sentenza del 27 gennaio 2017, n. 2054, ha sancito che, pur rilevando che l'Amministrazione non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella "forma apparente" al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria non sia possibile travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l'atto risulta inquadrabile, pena l'artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici. In altre parole non deve essere ricercato un presunto effetto economico dell'atto tanto più se e quando lo stesso è il medesimo per due negozi tipici diversi per gli effetti giuridici che si vogliono realizzare. Del resto, come sancito dalla Corte di Cassazione (con sentenza del 27 gennaio 2017, n. 2048) in occasione di un giudizio avente per oggetto l'imponibilità o meno ai fini dell'imposta di registro di una passività trasferita con un ramo d'azienda, i giudici tributari devono sempre vagliare scrupolosamente la documentazione probatoria di parte contribuente e, qualora quest'ultimo riesca a dimostrare che gli effetti di un determinato atto siano diversi da quelli contestati, gli stessi giudici hanno l'obbligo di annullare le pretese dell'Ufficio. Di conseguenza, le eventuali eccezioni di possibili abusi normativi dovranno essere sollevate esclusivamente facendo riferimento all'art 10-bis L. n. 212/2000, sia per i profili sostanziali, che procedimentali in modo d'assicurare condizioni di certezza del diritto e di concorrenza uniformi. Del resto, come sostenuto recentemente da Assonime (Circolare 20 del 3 agosto 2017), rinviando al proprio commento della normativa in merito all'abuso del diritto (Circolare n. 21 del 4 agosto 2016), la nuova disciplina antielusiva, essendo stata concepita come norma a carattere generale, dovrebbe essere un elemento significativo per cogliere l'effettiva portata che oggi occorre assegnare all'art. 20 DPR 131/1986. Poiché non è plausibile che il legislatore abbia voluto far coesistere nel nostro ordinamento due diverse nozioni di abuso, e cioè che, in deroga a quanto stabilito dal nuovo art. 10 bis L. n. 212/2000, una operazione possa essere disconosciuta e/o riqualificata ai soli fini del tributo di registro in base ad un mero apprezzamento delle sue ragioni economiche, sembra logico concludere che l'art. 20 sia stato mantenuto in vita soltanto perché si è ritenuto evidentemente che questa norma fosse del tutto estranea alla finalità di colpire le fattispecie di abuso. In altri termini, nell'attuale contesto normativo, motivi di coerenza logico sistematica indurrebbero a ritenere che l'art. 20 conservi la sola funzione di ribadire che l'imposta di registro vada applicata secondo la corretta interpretazione degli atti negoziali in base ai canoni giuridici, così come da sempre sostenuto dalla dottrina prevalente. |