Potere disciplinare del datore di lavoro e configurabilità del mobbing

Luigi Santini
02 Ottobre 2015

In tema di mobbing, va esclusa la sussistenza di una condotta persecutoria nella contestazione di una serie di addebiti al lavoratore allorché in nessuno dei casi specificamente presi in considerazione risulti l'assoluta insussistenza degli addebiti, l'evidente sproporzione dei richiami o altro sintomo che consenta di ravvisarvi un carattere meramente pretestuoso o discriminatorio, atteso che l'intento persecutorio del datore di lavoro non può ricavarsi dalle iniziative disciplinari poste in essere dal medesimo, avverso le quali è pur sempre consentito al lavoratore tutelare le proprie ragioni attraverso gli specifici rimedi apprestati dalla legge.
Massima

In tema di mobbing, va esclusa la sussistenza di una condotta persecutoria nella contestazione di una serie di addebiti al lavoratore (rientro in azienda, dopo le festività di fine anno, in ritardo; abbandono del posto di lavoro; non corretta esecuzione delle prestazioni lavorative; "disordine nella postazione di lavoro”; assenza non giustificata) allorché in nessuno dei casi specificamente presi in considerazione risulti l'assoluta insussistenza degli addebiti, l'evidente sproporzione dei richiami o altro sintomo che consenta di ravvisarvi un carattere meramente pretestuoso o discriminatorio, atteso che l'intento persecutorio del datore di lavoro non può ricavarsi dalle iniziative disciplinari poste in essere dal medesimo, avverso le quali è pur sempre consentito al lavoratore tutelare le proprie ragioni attraverso gli specifici rimedi apprestati dalla legge.

Il caso

La controversia trae origine da una domanda, proposta da una lavoratrice destinataria di numerose sanzioni disciplinari (comminate per rientro in ritardo in azienda dopo le festività di fine anno; abbandono del posto di lavoro; non corretta esecuzione delle prestazioni lavorative; "disordine nella postazione di lavoro”; assenza non giustificata), tesa, oltre che alla declaratoria di illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, al ristoro dei danni asseritamente subiti a seguito di una condotta datoriale ritenuta vessatoria e prevaricatrice, posta in essere dal datore di lavoro nell'esercizio del suo potere disciplinare.

La questione

La questione da esaminare è accertare se ed entro quali limiti l'esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, per durata e sistematicità degli episodi, possa assumere caratteri di arbitrarietà e pretestuosità, tali da integrare gli estremi del mobbing.

Le soluzioni giuridiche

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte si pone nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di mobbing, secondo cui “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio” [Cass. sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785].

Ebbene, il punto nodale della questione in disamina è rappresentato dalla necessità di accertare se ed in che limiti alla reiterazione di una serie di sanzioni disciplinari di natura conservativa, comminate dal datore di lavoro, possa essere ex se riconosciuto un carattere di vessatorietà idoneo ad integrare gli estremi del mobbing.

Orbene, pur nella mancanza di definizioni normative e nella conseguente genericità degli elementi costitutivi di tale fattispecie di illecito [nonostante le esortazioni al legislatore nazionale contenute nella Risoluzione A5-0283/2001 del Parlamento Europeo del 21 settembre 2001], non sembra si possa prescindere, per poter parlare di mobbing, dall'esistenza di alcune condizioni minime, desumibili per lo più dall'elaborazione giurisprudenziale in materia, quali un contesto nell'ambito del quale il lavoratore possa essere ritenuto vittima di colleghi o di superiori ovvero la prova di una serie di fatti persecutori effettuati al solo scopo di procurare danni al lavoratore in ambito di lavoro.

In questa prospettiva, risulta evidente che una sequenza di sanzioni disciplinari non integra, di per sé sola, un contesto di mobbing o bossing, dal momento che tale fenomeno presuppone necessariamente una serie di comportamenti reiterati dolosamente, volti ad umiliare, emarginare ed espellere la vittima dall'ambiente di lavoro.

Infatti, ammesso che l'applicazione delle sanzioni disciplinari sia illegittima, ciò non rappresenta condizione necessaria e sufficiente per configurare la fattispecie del mobbing, dovendone ricorrere gli elementi costitutivi, la cui prova incombe sul lavoratore, e cioè la finalizzazione delle condotte ad umiliare, a vessare e ad espellere il lavoratore, nonché il nesso di causalità fra la patologia lamentata e i comportamenti datoriali. Se di tali caratteristiche non viene offerta prova, le doglianze del lavoratore che si affermi vittima di una sorta di “persecuzione personale” non possono assumere valore decisivo, se non accompagnate dalla dimostrazione di una condotta datoriale espressiva di gratuita finalità di vessare la vittima. E ciò a maggior ragione, ove si versi in un ambito in cui, come nella materia disciplinare, il legislatore abbia apprestato specifici rimedi per contrastare eventuali abusi di provenienza datoriale [v. art. 7, comma 6, Legge 20 maggio 1970, n. 300].

Il Supremo Collegio, nella sentenza in esame, giunge quindi alla conclusione che nella fattispecie in esame non possa riscontrarsi prova di un uso abnorme del potere disciplinare, tenuto conto del comportamento del datore di lavoro, globalmente considerato sulla base delle risultanze istruttorie, ritenuto non univocamente dimostrativo di un uso distorto del potere disciplinare. In altre parole, i fatti denunciati dalla lavoratrice non sono risultati espressivi di una condotta vessatoria continuata e dolosa, e non hanno integrato quindi un caso di mobbing o bossing, per carenza sia dell'elemento oggettivo della fattispecie - rappresentato dalla serialità, sistematicità ed abitualità del comportamento vessatorio - nonché dell'elemento soggettivo - integrato dalla volontà di denigrare e vessare il lavoratore - al fine di degradare le condizioni di lavoro per compromettere salute, professionalità o dignità del lavoratore stesso nell'ambito dell'ufficio di appartenenza, ovvero di escludere il lavoratore dal contesto lavorativo di riferimento (dovendosi tuttavia precisare che tale intenzionalità può desumersi anche solo dall'inequivocità delle condotte, senza necessità di elementi ulteriori).

Osservazioni

La sentenza in disamina muove dal presupposto, unanimemente riconosciuto nella giurisprudenza di legittimità e di merito, secondo cui comportamenti datoriali, pur intrinsecamente illegittimi, non necessariamente presentano quei caratteri di arbitrarietà e pretestuosità, necessari per riscontrare un caso di mobbing.

Non trova quindi fondamento giuridico alcuno la tesi della lavoratrice, che dalla sola reiterazione di una molteplicità di sanzioni disciplinari, intendeva ricostruire una volontà datoriale di prevaricarla e di emarginarla dall'ambiente lavorativo.

In realtà, il mobbing non può sostanziarsi in ogni singola azione ostile. La sottoposizione reiterata a procedimenti disciplinari si sostanza, infatti, in una serie di accadimenti o atti di provenienza datoriale suscettibili di specifica repressione nella misura in cui se ne comprovi la illegittimità o contrarietà alla legge, ma non necessariamente possono essere ricondotti nella logica del mobbing; e ciò in quanto questo fenomeno deve caratterizzarsi come una strategia, un attacco ripetuto, continuato, sistematico, duraturo. In altri termini, le condotte (che, ovviamente, devono anch'esse essere singolarmente provate) devono rappresentare le tessere di un unitario disegno persecutorio, realizzato attraverso i comportamenti in questione, ossia di un vero e proprio programma, cosciente e volontario, posto in essere al fine di vessare e perseguitare il dipendente.

Al tempo stesso, il mobbing non deve essere confuso neppure con un mero conflitto quotidiano del lavoratore avverso una gestione aziendale autoritaria. Tale situazione può essere generatrice di una conflittualità interpersonale fisiologica e può rappresentare anche una delle cause scatenanti di mobbing, ma non può di per sé sola integrare tale risultato, occorrendo che essa si materializzi in un conflitto mirato contro il lavoratore, con intento persecutorio. La configurabilità del mobbing, in altri termini, non può limitarsi al riscontro della mera sistematicità degli episodi lamentati, dovendosi valutare l'importanza degli stessi, in termini qualitativi e quantitativi, nonché la durata del conflitto, l'intervallo di tempo tra i vari episodi e la pregnanza dell'elemento psicologico.

Né tanto meno il mobbing può essere desunto dalla mera insorgenza di malattie di tipo psichico o psicosomatico, in quanto, come è evidente, il mobbing è la situazione di fatto che genera tali disturbi, e deve essere oggetto di autonoma allegazione e prova.

Per configurarsi una ipotesi di mobbing, dunque, occorre che il lavoratore provi una serie di circostanze e accadimenti, di lunga durata, con specifica individuazione delle norme violate (in quanto, nell'interpretazione della Suprema Corte, occorre dimostrare “che l'evento sia riferibile a sua colpa [del datore di lavoro] per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuate”) [cfr. Cass. 2 giugno 1998, 5409, ma v. anche Cass. 29 marzo 1995, n. 3740]. Il principio della necessaria rigorosità dell'onere di allegazione gravante sul lavoratore in materia di mobbing, del resto, è stato sempre ribadito dalla giurisprudenza di legittimità che, estendendo il fenomeno del mobbing anche in caso di assenza di inadempimenti contrattuali specifici eventualmente ascrivibili al datore di lavoro, ha gravato comunque il lavoratore di un onere di allegazione puntuale e specifico, poiché le circostanze addotte a sostegno della pretesa non rilevano in re ipsa, dovendosi necessariamente dimostrare l'intento persecutorio che deve permeare le condotte datoriali [cfr. Cass. 6 marzo 2006, n. 4774].

In tale prospettiva, la più recente giurisprudenza di legittimità ha specificamente puntualizzato quali sono i parametri di riconoscimento del mobbing, che il dipendente deve rigorosamente allegare e provare, i quali vanno individuati nell'ambiente di lavoro, nella durata, frequenza e tipologia delle azioni ostili, nel dislivello tra gli antagonisti, nell'andamento della vicenda per fasi successive e nell'intento persecutorio [cfr. Harald EgeLa Valutazione del Danno Peritale da Mobbing”]. Più in dettaglio, perché si configuri il mobbing, l'onere di allegazione e prova gravante sul lavoratore deve investire i seguenti aspetti, nessuno escluso:

  1. le vessazioni devono essersi verificate sul luogo di lavoro;
  2. il conflitto deve essersi esteso in un congruo periodo di tempo;
  3. le vessazioni devono essere state molteplici e sistematiche;
  4. le condotte mobbizzanti devono rientrare in alcune delle tipologie di azioni ostili riconosciute (es.: attacco alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamento delle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione; minacce o comportamenti violenti, etc.);
  5. deve essere presente un dislivello, a livello lavorativo, tra il persecutore ed il soggetto sottoposto a mobbing;
  6. il conflitto deve avere avuto un andamento crescente, per fasi successive;
  7. deve essere riscontrabile un intento persecutorio, e cioè un disegno vessatorio coerente del datore di lavoro [cfr. Cass. sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037 e vedi il commento di Danise].

Fissati tali paletti, considerato che in concreto le situazioni si presentano sovente multiformi ed assai sfaccettate, appare evidente l'esigenza di un approccio valutativo quanto più possibile proteso ad individuare interpretazioni prudenti ed equilibrate, al fine di distinguere reali contesti di mobbing da mere situazioni di disagio o di disadattamento soggettivo nei rapporti interpersonali, evitando possibili situazioni di overcompensation, e cioè di eccesso di tutela risarcitoria.