Il danno differenziale, prova della causa di servizio e conoscenza dello stato di salute del dipendente
04 Luglio 2017
Massime
La responsabilità del datore di lavoro di cui all'art. 2087 c.c. è di natura contrattuale. Ne consegue che, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.
Ai fini della affermazione di responsabilità del datore di lavoro di cui all'art. 2087 c.c. è sempre necessario che siano ravvisabili, nella condotta del datore di lavoro, profili di colpa cui far risalire il danno all'integrità fisica patito dal dipendente. Pertanto, quando l'espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l'aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest'ultimo e dell'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli. Il caso
La sentenza in commento riguarda il caso di un ufficiale giudiziario che chiedeva la condanna dell'amministrazione datore di lavoro al risarcimento del danno biologico subito per effetto dell'essere stato adibito a mansioni incompatibili con il proprio stato di salute (era stata riscontrata una nevrosi), ed in particolare ad un orario di lavoro prolungato incompatibile con il proprio stato di salute. La Suprema Corte conferma le sentenze dei giudici di merito che avevano rigettato la richiesta risarcitoria in quanto mancava la prova del nesso causale fra insorgenza o aggravamento della patologia e nocività dell'ambiente di lavoro. La questione
La questione affronta dalla sentenza in commento attiene alla disciplina della tutela della salute dei lavoratori di cui all'art. 2087 c.c., in particolare quanto alla ripartizione dell'onere della prova ed in merito al requisito della colpa del datore di lavoro. Le soluzioni giuridiche
Come è noto l'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro e la conseguente responsabilità, derivante dalla violazione di tale precetto, ha natura contrattuale, perché il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ex art. 1374 c.c) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.), che entra così a far parte del sinallagma contrattuale. Quanto alla responsabilità del datore, in relazione al disposto dell'art. 2087 c.c., sul piano della ripartizione dell'onere probatorio spetta al lavoratore lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza (nel caso di malattia professionale la nocività dell'ambiente di lavoro) nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre non è gravato dall'onere della prova della relativa colpa del datore di lavoro danneggiante, ossia in merito alla prova della regola cautelare violata ed il cui rispetto era esigibile da parte del datore di lavoro. Tale onere, che invece incombe sul datore di lavoro, si concreta nel provare la non imputabilità dell'inadempimento, ossia l'aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (fra le tante Cass. Sez. lav., 12 giugno 2017, n. 14566).
Inoltre, nel caso in cui le misure di sicurezza asseritamente omesse siano c.d. “nominate” (quali le misure previste dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa nonché il nesso causale fra l'inosservanza della misura e il danno subito, la prova liberatoria del datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore. Diversamente, nel caso di violazione di misure di sicurezza “innominate” (discendenti dalla violazione dell'art. 2087 c.c., c.d. colpa generica), la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece genericamente correlata alla quantificazione della misura della diligenza tenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi di norma al datore di lavoro l'onere di provare comportamenti specifici che, ancorchè non risultino dettati dalla legge o da ordini o discipline, siano suggeriti dagli standard di sicurezza normalmente osservati e trovino riferimenti in altre fonti analoghe (Cass. Sez. lav., 25 maggio 2006, n. 12445).
Ciò premesso, nel caso oggetto della disamina appariva carente la prova della causa di servizio, ossia del nesso causale fra patologia lamentata dal lavoratore (si trattava di una nevrosi) e attività lavorativa svolta (di ufficiale giudiziario). Infatti la Commissione Medica Ospedaliera deputata a valutare l'idoneità alla mansione del dipendente pubblico aveva in primo luogo ritenuto che la patologia della quale era affetto il lavoratore era congenita ed inoltre riteneva il lavoratore idoneo alla mansione alla quale era assegnato.
Ebbene, la Suprema Corte nella sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proprio sull'assorbente motivo in base al quale spetta al lavoratore l'onere di dimostrare il nesso causale fra inadempimento dell'obbligo di sicurezza, ossia nocività dell'ambiente di lavoro e patologia sofferta (insorgenza od aggravamento della stessa).
Aggiunge la sentenza annotata che anche ove tale prova del nesso causale fosse stata raggiunta (circostanza non ricorrente nel caso di specie), comunque ai fini dell'affermazione di responsabilità del datore di lavoro, questi non è in colpa per non aver adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest'ultimo e dell'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli.
Osservazioni
La sentenza in commento enuncia principi che sono ormai consolidati in seno alla giurisprudenza italiana, ciò non toglie che appare doveroso formulare alcune precisazioni, quanto alla seconda massima indicata dalla sentenza, recante l'esenzione da responsabilità colposa del datore di lavoro, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest'ultimo e dell'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli.
In particolare, a parere di chi scrive non è sufficiente che il datore non sia a conoscenza dello stato di salute del lavoratore, ma per andare esente da qualsiasi rimprovero è necessario che la propria ignoranza non sia a sua volta violatrice di un obbligo di diligenza in materia di sorveglianza sanitaria.
Ora, l'obbligo di prevedere la sorveglianza sanitaria di cui agli artt. 41 e ss. del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, con conseguente necessità di nominare al tal fine un medico competente, si applica solo nelle aziende che eseguono lavorazioni "a rischio" onde tale obbligo è positivamente prescritto: ad esempio, le lavorazioni che comportano esposizione dei lavoratori a piombo, amianto o rumore, nonché le lavorazioni che comportano movimentazioni manuali dei carichi, con rischio di lesioni dorso-lombari, che comportano l'uso di videoterminali, che espongono i lavoratori ad agenti cancerogeni o mutageni, chimici o biologici (Cass. pen. sez. III, 9 dicembre 2004, n. 1728).
La sorveglianza sanitaria, ossia l' «insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all'ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa» (art. 41 co. 2 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) comprende le seguenti attività:
Ebbene, è sul datore di lavoro che incombe l'obbligo, penalmente sanzionato ,di nominare il medico competente per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria, di inviare i lavoratori alla visita medica entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria e richiedere al medico competente l'osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel presente Decreto (art. 18 co. 1 lett. a) e g) e art. 55 D.Lgs. 9 aprile 2008 , n. 81).
Se così stanno le cose il datore di lavoro non potrà invocare l'ignoranza dello stato di salute del lavoratore e l'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli, ove tale ignoranza sia derivante dall'inosservanza di uno dei predetti obblighi di sorveglianza sanitaria sullo stesso incombente. Così, ad esempio, se il lavoratore risulta affetto da una malattia che è stata diagnosticata al momento dell'assunzione o ha determinato assenze superiori ai 60 gg. o della quale il lavoratore ha informato il medico competente, il datore di lavoro difficilmente potrà sostenere di non aver avuto consapevolezza di tale patologia e dell'incompatibilità della stessa con le mansioni affidatigli. Diversamente, e salva responsabilità del medico competente che abbia sottaciuto al datore di lavoro circostanze rilevanti quanto allo stato di salute del dipendente, il datore di lavoro potrà andare esente da colpa. |