Licenziamento in caso di svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia
18 Agosto 2015
Massima
Deve essere confermato il licenziamento per giusta causa irrogato ad un lavoratore, assente per malattia dovuta ad infortunio sul lavoro, il quale era stato sorpreso a svolgere attività lavorativa, in qualità di addetto alle pulizie, per conto della società cooperativa di cui faceva parte la moglie.
Il caso
All'esito del procedimento disciplinare, una società licenziava un proprio dipendente per giusta causa dopo avergli contestato lo svolgimento di attività lavorativa presso un altro datore di lavoro durante un periodo di assenza per malattia dovuta ad un infortunio sul lavoro. Il lavoratore impugnava il licenziamento adducendone l'illegittimità, ma il Giudice di prime cure confermava la posizione della società affermando che le circostanze addebitate fossero di assoluta gravità sotto il profilo disciplinare, avendo arrecato un evidente vulnus ai doveri di lealtà, fedeltà e collaborazione cui la condotta del dipendente deve sempre essere informata. Il lavoratore proponeva ricorso contro la decisione avanti alla Corte di Appello e successivamente in Cassazione, ma entrambi i gradi di giudizio confermavano la pronuncia del giudice di prima istanza e, in tal modo, si riportavano al consolidato orientamento giurisprudenziale. Le questioni
Alla base della sentenza in commento vi sono alcune questione giuridiche sulle quali si è interrogata a lungo la giurisprudenza e che vale la pena di riassumere per poi ripercorrerne sinteticamente l'evoluzione: 1. quando lo svolgimento di attività lavorativa o ludica durante la malattia rappresenta una violazione dei doveri di lealtà e fedeltà da parte del lavoratore? 2. con quali modalità il datore di lavoro può accertare la simulazione della malattia? 3. quali sono le peculiarità dell'assenza del lavoratore a causa di una patologia psichica-depressiva? Le soluzioni giuridiche
i. L'evoluzione giurisprudenzialein tema di svolgimento da parte del lavoratore di attività lavorative o ludiche durante l'assenza per malattia Ripercorrendo la giurisprudenza dei primi anni ‘80 in tema di svolgimento di attività lavorative o ludiche durante la malattia, si può notare un generale favor degli organi giudicanti nei confronti del lavoratore, spesse volte risoltosi nell'annullamento del licenziamento intimato dal datore di lavoro. Si prenda, a titolo esemplificativo, la pronuncia della Suprema Corte n. 2434/1985, a mente della quale la Corte aveva ritenuto non costituire giusta causa di licenziamento l'insegnamento di judo impartito durante l'assenza del lavoratore motivata dalla necessità di visite ed esami medici per un'affezione oculare. In tale occasione, la Corte ha ritenuto che non sussistesse, a carico del dipendente assente per malattia, un divieto assoluto di svolgere un'altra attività “tranne che questa evidenzi … l'inosservanza dei suoi doveri e, in particolare, di quello di fedeltà”. Solo pochi mesi prima, d'altronde, la stessa Corte di Cassazione (Cfr. Cass. 11 febbraio 1985, n. 1158, Giust. civ. Mass.,1985 ) aveva già affermato che, qualora il dipendente fosse assente dal posto di lavoro per stato di malattia, debitamente documentato con certificazione medica, l'assenza non potesse ritenersi ingiustificata e costituire giusta causa di licenziamento, per il solo fatto che, nel relativo periodo, il dipendente medesimo fosse stato sorpreso a svolgere un'altra attività lavorativa. A detta della Corte, infatti, occorreva accertare se l'attività lavorativa avesse “in concreto caratteristiche idonee a far escludere l'impedimento evidenziato da quella documentazione, ovvero presenti [NdR presentasse] un minore impegno fisico, non incompatibile con uno stato di malattia ostativo al ritorno al normale posto di lavoro”. Pertanto, in quegli anni, l'insegnamento della giurisprudenza era quello di considerare generalmente illegittimo il licenziamento a causa dello svolgimento di altra attività lavorativa, salvo i casi in cui il datore potesse provare che l'attività lavorativa svolta fosse compatibile con le mansioni assegnate al dipendente o costituisse una chiara violazione del dovere di fedeltà perché in concorrenza con l'attività del datore di lavoro (Cfr., sul punto, Pret. Milano 26 giugno 1989, in RIDL, 1989 e Pret. Salerno 7 febbraio 1992, in LPO, 1992). La posizione della giurisprudenza in materia si è, negli anni successivi, portata su di un piano meno “garantista” e fondato sull'interpretazione dei principi di correttezza e buona fede, anche in un'ottica di possibile utilizzo parziale della prestazione lavorativa, ove vi fossero posizioni di lavoro compatibili con lo stato di malattia. Si veda, ad esempio, la sentenza della Suprema Corte n. 7467 del 1998 che affermava che, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro, “il dipendente in malattia che, seppur inidoneo temporaneamente alle mansioni alle quali è assegnato dal datore di lavoro, intenda svolgere attività lavorativa presso terzi in costanza di periodo di malattia, per essere non di meno idoneo a mansioni diverse (il cui espletamento non sia pregiudizievole al fine di un più rapido recupero della piena idoneità fisica) è tenuto ad offrire tale prestazione parziale al datore di lavoro, il quale - esercitando lo "ius variandi" di cui all'art. 2103 c.c. - potrebbe temporaneamente assegnare il lavoratore proprio a quelle mansioni (equivalenti a quelle originarie) per le quali il lavoratore stesso sia idoneo”. Da ultimo, la giurisprudenza si è spinta (come ricordato dalla sentenza in commento) su posizioni ancor più rigoriste, mutando definitivamente la propria prospettiva e ammettendo che lo svolgimento di attività lavorativa ed extralavorativa durante il periodo di malattia possa rappresentare una giusta causa di licenziamento, qualora tale comportamento faccia “presumere l'inesistenza della malattia” o “possa pregiudicare o ritardare la guarigione e con essa il rientro del lavoratore in servizio” (Cfr. Cass. 24 aprile 2008, n. 10706 e Cass. 21 aprile 2009, n. 9474) ai sensi delle quali “l'espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell'inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l'espletamento di un'attività ludica o lavorativa”. In buona sostanza, allo stato attuale, lo svolgimento da parte del dipendente di un'attività lavorativa in proprio o presso terzi durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia può giustificare il licenziamento per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell'ipotesi in cui l'attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l' inesistenza della malattia, anche quando la medesima attività, da valutarsi “ex ante” in relazione alla patologia e alle mansioni svolte (Vale a dire con riferimento al momento in cui l'azione stava per essere compiuta dal lavoratore), possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro del lavoratore in servizio (Cfr. Cass. 24 aprile 2008, n. 10706).
ii. Le investigazioni private Stante la delicatezza della materia, la questione dei controlli da parte del datore di lavoro sul lavoratore in malattia è stata inizialmente risolta dalla giurisprudenza in senso negativo per il datore di lavoro sulla base dell' articolo 5 dello Statuto dei Lavoratori che vieta gli “accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente”. Sulla scorta di tale disposizione, le Corti hanno inizialmente vietato al datore qualsivoglia controllo ulteriore rispetto a quelli degli operatori sanitari. Si prenda, a titolo esemplificativo, la sentenza n. 1241 del 1982 con la quale la Cassazione ha chiaramente affermato che “a norma dell'art. 5 della l. 20 maggio 1970 n. 300 - … qualora la legittimità dell'assenza è contestata sotto il profilo dell'inesistenza della malattia denunciata o dell'idoneità di essa ad escludere la capacità lavorativa del dipendente, il relativo controllo deve avvenire necessariamente attraverso i sanitari degli istituti previdenziali ed anche se l'accertamento così condotto può essere sindacato e contraddetto da altri elementi di prova, anche di carattere non sanitario dei quali il datore di lavoro sia venuto in possesso… è da escludere tuttavia che l'accertamento negativo della malattia possa avvenire sulla sola base di indagini di carattere non sanitario, condotte direttamente o per mezzo di terzi dal datore di lavoro”, ivi incluso, pertanto, il ricorso ad un'agenzia investigativa. Dopo alcuni anni, tale impostazione è stata radicalmente ribaltata dalla giurisprudenza che ha iniziato ad affermare che le norme poste dallo Statuto dei Lavoratori, volte a tutelare la libertà e dignità del lavoratore, non escludono il potere dell'imprenditore ai sensi degli art. 2086 e 2104 del Codice Civile di accertare, anche attraverso personale esterno (come una agenzia investigativa), mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei rapporto, né il divieto di cui all' art. 4 dello Statuto dei Lavoratori riferito esclusivamente all'uso di apparecchiature per il controllo a distanza. La Cassazione (Cfr. Cass. 3 maggio 2001, n. 6236), relativamente ad un caso in cui un lavoratore dichiaratosi in stato morboso consistente in lombosciatalgia acuta veniva osservato da un'agenzia investigativa non riportante alcuna difficoltà nei movimenti, ha infatti chiarito che “le disposizioni dell'art. 5 della legge n. 300 del 1970 … non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l'assenza, e, in particolare, ad accertamenti circa lo svolgimento da parte del lavoratore di un'altra attività lavorativa”. Tali accertamenti non attribuiscono infatti all'indagine del datore di lavoro un carattere sanitario in senso tecnico, comportando la sola osservazione del comportamento esteriore nella vita di tutti i giorni al pari di ogni altro accertamento relativo allo svolgimento da parte del lavoratore assente per malattia di attività potenzialmente e apparentemente incompatibili con lo stato di malattia.
iii. La sindrome depressiva e lo svolgimento di attività lavorative ed extralavorative È bene infine ricordare che l'evoluzione sin qui descritta non è del tutto applicabile alle ipotesi di assenza del lavoratore per malattia depressiva. In tali casi, infatti, l'attività lavorativa o extralavorativa potrebbe essere non solo compatibile con la malattia depressiva bensì anche essere stata consigliata dal medico che ha accertato tale patologia. È il caso, Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916 ad esempio, della lavoratrice che, affetta da depressione a seguito di una dermatite, è stata sorpresa prestare servizio presso il bar di cui era titolare la figlia. Tale attività, limitata a un libero e sporadico aiuto, è stata ritenuta del tutto compatibile con le condizioni di salute della lavoratrice e idonea a coadiuvarne la guarigione In un caso simile, Cass. 6 giugno 2005, n. 11747, tuttavia, lo svolgimento dell'attività notturna di sorvegliante presso le discoteche non era stata considerata compatibile con la sindrome depressiva sulla base del principio della violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, poiché idonea a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrandone una fraudolenta simulazione. Osservazioni
Dopo aver ripercorso brevemente la casistica giurisprudenziale in tema di svolgimento di altra attività durante la malattia, si è visto come la delicata questione sia stata risolta dalla giurisprudenza sulla base del combinato disposto delle norme in tema di obbligo di fedeltà e di diligenza del lavoratore nonché quelle di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro. Seppure la lettera della legge non contenga un divieto generale di svolgere altra attività lavorativa (se non in concorrenza) durante la malattia, la giurisprudenza è ormai concorde nel ritenere che l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato abbia un contenuto più ampio di quello risultante dall' art. 2105 c.c., dovendo quest'ultimo essere integrato con gli articoli 1175 e 1375, che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi tenuti dal lavoratore, che non devono essere tali da danneggiare il datore di lavoro (Cfr. Cass. 18 giugno 2009, n. 14176, in Giust. civ. Mass., 2009). Al lavoratore è quindi richiesto di astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall' art. 2105 c.c. (vale a dire svolgere attività in concorrenza), ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa (Cfr. Cass. 1 febbraio 2008, n. 2474) Alla luce di tali considerazioni, la sentenza che qui si commenta ripropone l'ultimo e oramai pacifico orientamento della giurisprudenza che vede nello svolgimento da parte del lavoratore di altra attività durante la malattia (nel caso di specie l'attività di addetto alle pulizie per conto della società cooperativa di cui faceva parte la moglie) una giusta causa di licenziamento poiché in violazione ai doveri di lealtà, fedeltà e collaborazione a cui il dipendente deve conformare la sua condotta. Alcune osservazioni si rendono infine necessarie in tema di onere della prova. In particolare, se la prova della malattia grava sul lavoratore (e sostanzialmente viene assolta attraverso l'esibizione del certificato medico), incombe invece sul datore di lavoro l'onere di riscontrare rigorosamente i comportamenti attraverso i quali si sarebbe realizzata l'infedeltà del dipendente e, pertanto, la gravità della condotta tale da legittimare la sanzione del licenziamento. Il datore ha quindi l'onere di provare la natura degli impegni lavorativi contrattuali idonei ad evidenziare aspetti di illogicità e malafede nel comportamento del lavoratore stesso durante la malattia (Cfr. Cass. 21 marzo 2011, n. 6375). Le certificazioni mediche prodotte dal lavoratore potranno però essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto - pur non risultante da un accertamento sanitario ma, ad esempio da un'agenzia investigativa - atta a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa. È bene porre infine attenzione all'assenza del lavoratore per una patologia depressiva in quanto, in tale caso, un'attività lavorativa o ludica potrebbe essere valutata come una terapia di svago coadiuvante le cure specifiche per le infermità lamentate, un diversivo alla monotonia quotidiana correlata alla necessitata disoccupazione e un valido incentivo al superamento della patologia depressiva. |