L'illegittimità del licenziamento ritorsivo e discriminatorio: onere probatorio

13 Ottobre 2015

In tema di licenziamento, laddove vengano in considerazione profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e non in contrasto con la normativa comunitaria, deve tenerne conto senza distinguere tra accertamento della giusta causa e quello avente ad oggetto la verifica della volontà datoriale.
Massima

In tema di licenziamento, laddove vengano in considerazione profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e non in contrasto con la normativa comunitaria, deve tenerne conto senza distinguere tra accertamento della giusta causa e quello avente ad oggetto la verifica della volontà datoriale, sicché, ove risulti che la condotta del datore di lavoro sia univocamente motivata da un intento ritorsivo o discriminatorio nei confronti del lavoratore (nella specie, in ragione dell'attività sindacale del lavoratore diretta a contrastare una prassi aziendale che imponeva agli autisti di lavorare oltre i limiti di orario e di peso del carico trasportato), è illegittimo il licenziamento disposto quale conseguenza del cumulo di pluralità di sanzioni, tanto più in assenza di addebiti idonei a giustificare, di per sé, il recesso.

Il caso

La Corte d'Appello di Brescia ha riformato la pronuncia del giudice di prime cure dichiarando l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore all'esito di numerose sanzioni disciplinari irrogate. Invero, a seguito dell'ammissione della prova testimoniale dedotta dal lavoratore, tesa a dimostrare il carattere discriminatorio e ritorsivo delle varie contestazioni disciplinari subite, la Corte territoriale ha ritenuto provata sia l'insussistenza di addebiti idonei a giustificare il licenziamento, sia la natura ritorsiva e discriminatoria delle sanzioni disciplinari che avevano portato al recesso. Pertanto, rilevato l'intento discriminatorio e ritorsivo posto alla base delle sanzioni disciplinari prima, e del licenziamento poi, la Corte d'Appello ha dichiarato l'illegittimità del recesso basato su tali sanzioni e ha condannato la società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro nonchè a corrispondergli l'importo delle retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento fino all'effettiva reintegra, detratto l' aliunde perceptum.


La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società articolato su tre motivi, con il quale si lamentava la violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. in relazione all'omessa o insufficiente motivazione circa i fatti controversi e decisivi per il giudizio, nonché la violazione dell'art. 7, comma 6, 7 e 8 della L. n. 300/1970, osservando che le censure della società esprimono un mero ed inammissibile dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d'Appello.


Con particolare riferimento all' accertamento della natura ritorsiva delle sanzioni disciplinari, la Suprema Corte ha riscontrato che il lavoratore aveva offerto prove dirette a dimostrare che le varie contestazioni disciplinari subite - che hanno determinato il licenziamento - avevano finalità discriminatoria e ritorsiva. Pertanto, la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso proposto dalla società, ha confermato la correttezza della premessa logica e dell'iter argomentativo seguito dalla Corte d'Appello in virtù del quale, una volta accertata l'insussistenza della giusta causa e la natura ritorsiva delle sanzioni disciplinari, il licenziamento è da ritenersi illegittimo, poichè l'intento discriminatorio e ritorsivo è stato l'unico posto a base delle sanzioni prima e del licenziamento poi.

La questione

La questione sottoposta alla Corte di Cassazione è di particolare rilievo perchè consente una riflessione sulle delicate fattispecie del licenziamento discriminatorio e ritorsivo. Fattispecie che, come si dirà di seguito, è destinata ad assumere particolare rilievo in virtù della disciplina disegnata dal legislatore a seguito della riforma dell'art. 18 introdotta dalla L. n. 92/2012 (Legge Fornero) e dal D.lgs. n. 23/2015 “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, normativa peraltro non applicabile – ratione temporis – al caso di specie.

Nonostante la diversità concettuale fra licenziamento ritorsivo e licenziamento discriminatorio, per consolidato orientamento giurisprudenziale, l'accertamento del carattere ritorsivo del licenziamento, sulla base delle risultanze probatorie del giudizio di merito, consente di applicare, mediante interpretazione estensiva, le tutele previste dall'ordinamento per il licenziamento discriminatorio.




E' stato più volte affermato dalla Corte di Cassazione che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta è assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della L n. 604/1966, 15 della L. n. 300/1970 e 3 della L. n. 108/1990 e si configura come ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa. In altre parole, il recesso discriminatorio costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (Cass. nn. 17087/2011 e 6282/2011).

Ne consegue che, in sede di giudizio di legittimità, il lavoratore che censuri la sentenza di merito per aver negato carattere ritorsivo al provvedimento datoriale, non può limitarsi a dedurre la mancata considerazione, da parte del giudice, di circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma deve indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia (Cass. n. 18283/2010).


Peraltro va rilevato che la Suprema Corte con la sentenza n. 6501/2013, ha precisato che l'allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento intimato non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi dell' art. 5 della L. n. 604/1966, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso. Aggiunge la Suprema Corte che “ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo quale motivo unico e determinante del recesso”.


In definitiva, il carattere ritorsivo del licenziameno costituisce eccezione da sollevarsi da parte del lavoratore, trattandosi di fatto impeditivo del diritto del datore di lavoro di avvalersi del potere di recesso.

In dottrina (cfr. Perina) è stato sottolineato che la sentenza n. 6501/2013 conferisce preminenza alla valutazione circa la giusta causa prospettata dal datore di lavoro, considerandola un prius logico rispetto alla valutazione successiva che inerisce al motivo illecito del recesso. Ne consegue che l'attore-lavoratore non deve provare i fatti costitutivi del diritto conseguente l'illiceità del motivo se non dopo che il convenuto-datore di lavoro abbia fornito la prova della giustificatezza del licenziamento.



D'altra parte, nell'ipotesi di licenziamento discriminatorio grava sul lavoratore l'onere della prova della discriminazione, nonché dei fatti precisi e concordanti idonei a fondare la presunzione di discriminazione, e solo una volta che la prova sia stata acquisita, anche in via presuntiva, scatta l'onere del datore di lavoro di provare il contrario (Cass. n. 14206/2013). Questo regime risulta coerente anche con la giurisprudenza comunitaria, secondo la quale in un primo momento al lavoratore spetta dimostrare i fatti presuntivi di discriminazione e solo successivamente incombe sul datore di lavoro l'onere di dimostrare l'insussistenza della discriminazione (Corte di Giustizia 21 luglio 2011 n. 104 c-104/10). Invero, alla luce della direttiva 97/80, art. 4, n. 1, “incombe a colui che si ritenga leso dal mancato rispetto del principio di parità di trattamento, dimostrare, in un primo momento, i fatti che consentano di presumere la sussistenza di una discriminazione diretta o indiretta. Solamente nel caso in cui questi abbia provato tali fatti, spetterà poi alla controparte, in un secondo momento, dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione”.

Le soluzioni giuridiche

Sia il licenziamento discriminatorio sia quello ritorsivo si caratterizzano per il motivo illecito unico e determinante posto alla base del negozio unilaterale estintivo del rapporto di lavoro.

E' stato evidenziato in dottrina (cfr. Bellocchi) che mentre le discriminazioni in senso proprio sono sempre di per sé antigiuridiche, poiché ictu oculi in contrasto con l'art. 3 Cost. e con le fonti sovranazionali, e dunque non si ravvisa per le stesse la necessità di un sindacato di merito sulla loro riprovevolezza, per qualsiasi altro motivo illecito, il giudizio di illiceità è ancorato, secondo la discrezionale valutazione del giudice, ai canoni della contrarietà a norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume. Ne consegue che il richiamo al motivo illecito ex art. 1345 c.c. permette il controllo delle decisioni datoriali arbitrarie e non tipizzabili a priori, perchè appunto consente di sanzionare l'uso arbitrario discriminatorio del diritto postestativo del datore di lavoro.


In tal senso, il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta che sia, è un licenziamento nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418 c.c., comma 2, artt. 1345 e 1324 c.c. Esso costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta. Siffatto tipo di licenziamento è stato ricondotto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, data l'analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, della L. n. 300/70, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3 - interpretate in maniera estensiva -, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all'art. 18 L. n. 300/70. (cfr., da ultimo, Cass. n. 6282/2011).


Ciò posto, va ribadita la regola che l' onere della prova dell'esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio. Si tratta di una prova non agevole, sostanzialmente fondata sull'utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione dell'inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole. (Cass. n. 17087/2011). Ove il lavoratore deduca il carattere ritorsivo del provvedimento datoriale, è necessario che tale intento abbia avuto un'efficacia determinativa ed esclusiva del licenziamento anche rispetto agli altri eventuali fatti idonei a configurare un'ipotesi di legittima risoluzione del rapporto, dovendosi escludere la possibilità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altre inadempienze (Cass. n. 5555/2011).


Osservazioni

A conclusione della disamina del caso, sembra opportuno fare qualche considerazione in merito alla nuova tutela che il legislatore ha predisposto per le fattispecie del licenziamento ritorsivo e discriminatorio. La riforma Fornero con il comma 42 dell'art. 1 della L. 92/2012 stabilisce che “il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'art. 3 della L. n. 108 del 1990, ovvero intimato in concomitanza di matrimonio ai sensi dell'art. 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al d.lgs. n. 198/2006, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'art. 54, commi 1, 6, e 9 del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al d.lgs. n. 151/2001, e successive modifiche, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c.” applica la tutela reale, ordinando la reintegrazione e condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno.

Anche l' art. 2 del D.lgs. n. 23/2015 contenente disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (c.d. Jobs Act), nel disciplinare il regime del “licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale”, prevede che il giudice, accertata la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell'art. 15 della L. n. 300/70, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto, e lo condanna al pagamento di un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto percepita, maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettivo rientro, in ogni caso non inferiore a cinque mensilità.

Posto che il licenziamento illegittimo non è idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, determinando unicamente una sospensione della prestazione dedotta in contratto, il datore di lavoro è condannato altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

In sostituzione della reintegra, il lavoratore può optare per un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita. Con la comunicazione al datore di lavoro di tale richiesta si determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

Appare opportuno ricordare che sotto il vigore dell'art. 18 Stat. Lav. nella sua originale formulazione, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che qualora il datore di lavoro non avesse ottemperato alla reintegra, non sarebbe stato possibile per il lavoratore ricorrere all'esecuzione in forma specifica, residuando solo il diritto al risarcimento dei danni (Cass. n. 4915/2014). Infatti, mentre l'esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, la reintegrazione comporta non solo la riammissione del lavoratore nell'azienda, ma anche un comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo-funzionale consistente, fra l'altro, nell'impartire direttive al dipendente, nell'ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione (Cass. n. 112/1988).

Guida all'approfondimento
  • Paola Bellocchi, “Il licenziamento discriminatorio” in ADL Argomenti di diritto del lavoro 4-5, 2013 diretti da Mattia Persiani e Franco Carinci, pag. 830 ss.

  • Daniela Carbone, “Il licenziamento discriminatorio, nullo e orale nel contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” in Foro It., n. 5, maggio 2015, pag. 239 ss.
  • Andrea Colombo, Pierlugi Rausei, Alessandro Ripa, Alessandro Varesi, Licenziamento. Nuova disciplina D.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, 2015, pag. 236 ss., Wolters Kluwer.

  • Luigi Perina, “Licenziamento ritorsivo ex art. 1345 c.c. e riparto dell'onere della prova” in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro n. 12, 2013, pag. 869.

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