Dimissioni o licenziamento. Queste le uniche due vie per metter fine al rapporto di lavoro

La Redazione
07 Febbraio 2015

Il recesso dal rapporto di lavoro subordinato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro oppure delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, mentre non è possibile introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell'intenzione di recedere, ma svincolato dall'effettiva volontà del soggetto e che non ammetta prova contraria.

Cass.civ., sez. lavoro, 21 gennaio 2015, n.1025, sent.

Il recesso dal rapporto di lavoro subordinato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro oppure delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, mentre non è possibile introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell'intenzione di recedere, ma svincolato dall'effettiva volontà del soggetto e che non ammetta prova contraria. Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 1025, depositata il 21 gennaio 2015.

Il caso. Il tribunale di Roma dichiarava legittimo il licenziamento di un lavoratore, che si era ingiustificatamente assentato dal lavoro per due mesi e mezzo. La società aveva applicato il regolamento del personale, secondo cui è considerato dimissionario il dipendente che, senza dare la prevista comunicazione, si assenti senza giustificato motivo dal lavoro per un periodo non superiore a 10 giorni lavorativi. Il comportamento del lavoratore rappresentava, di conseguenza, un'implicita volontà di rassegnare le dimissioni. In totale riforma, la Corte d'appello dichiarava, invece, l'illegittimità del licenziamento.
La società ricorreva, quindi, in Cassazione, deducendo che il comportamento del lavoratore fosse incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro, risolto pertanto per dimissioni e non mediante licenziamento.

Manifestazione implicita da escludere. La Corte di Cassazione ricorda che alle parti non è consentito attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria. In tale ipotesi, non si tratterebbe più di dimissioni manifestate per facta concludentia, che presuppongono una volontà effettiva di dimettersi e la manifestazione di essa seppure in forma diversa dalla dichiarazione esplicita, bensì dell'attribuzione convenzionale di un effetto giuridico tipizzato, cioè la cessazione del rapporto, ad un determinato comportamento. Si tratta di effetti che non possono essere stabiliti dalle parti collettive.

O uno o l'altro. Il recesso dal rapporto di lavoro subordinato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro oppure delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, mentre non è possibile introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell'intenzione di recedere, ma svincolato dall'effettiva volontà del soggetto e che non ammetta prova contraria. Altrimenti, la previsione negoziale si risolverebbe in una clausola risolutiva espressa del rapporto, il che è inammissibile.
Nel caso di specie, inoltre, il lavoratore aveva comunicato telefonicamente alla società di essere in malattia e quest'ultima aveva poi richiesto l'invio di documentazione medica. La mancata trasmissione, secondo la società, rendeva applicabile la fattispecie del regolamento del personale, per cui il lavoratore doveva ritenersi dimissionario.
Ma la richiesta della società non conteneva una diffida espressa a riprendere servizio, né faceva riferimento ad una presunta volontà del lavoratore di recedere dal rapporto. Perciò, si trattava di una situazione di assenza ingiustificata, non della volontà (mai manifestata) del lavoratore di dimettersi.
Eventualmente, la prolungata assenza dovuta a malattia, non documentata, avrebbe potuto essere il fondamento di un licenziamento disciplinare, nel rispetto delle garanzie procedimentali di legge.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

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