Lavoro
ilGiuslavorista

Estorsione e responsabilità penale del datore: una possibile forma di tutela del mobbing verticale?

Sabrina Apa
12 Luglio 2016

Integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie alla legge ponendolo nell'alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato.
Massima

Integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie alla legge ponendolo nell'alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato.

Il caso

Un datore di lavoro, abusando della sua qualità, mediante minaccia di licenziamento, costringeva alcuni suoi dipendenti ad accettare le condizioni lavorative loro imposte e a firmare una lettera di dimissioni in bianco, nonché a svolgere di fatto attività lavorativa quotidiana e a tempo pieno, pur risultando gli stessi assunti con un contratto a tempo parziale. I prestatori di lavoro non potevano fruire di ferie, né di contributi e TFR, ed erano altresì retribuiti con un compenso inferiore a quello che avrebbe dovuto essere loro erogato. Inoltre, sempre prospettando loro la minaccia del licenziamento, il datore di lavoro li costringeva a dichiarare falsamente dinanzi agli ufficiali dell'Ispettorato del lavoro di svolgere attività lavorativa a tempo parziale, ed ometteva di procedere al versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni corrisposte.

Il giudice per l'udienza preliminare, ritenendo il datore di lavoro responsabile dei reati di estorsione continuata, violenza privata ed omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, ricostruiva la fattispecie concreta come reato continuato e, applicando le circostanze attenuanti generiche e la diminuente per il rito, condannava il datore di lavoro alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed euro 320,00 di multa nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

Il datore di lavoro impugnava la sentenza e, in data 02.10.2014, la Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, assolveva il datore di lavoro dal reato di cui al capo F, violenza privata, per insussistenza del fatto, riducendo la pena inflitta nella misura di anni due, mesi sette, giorni dieci di reclusione ed euro 260,00 di multa, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

Avverso la pronuncia di secondo grado proponeva ricorso per Cassazione il datore di lavoro lamentando con il primo motivo, la violazione di legge in relazione all'

art. 40 cpv. c.p.

e alla

L. n. 67 del 2014, art. 2,

comma 2, lett. C, e, con il secondo motivo, il vizio di motivazione in relazione ai verbali di sommarie informazioni rese dalle persone offese nonché l'omessa motivazione in ordine alla differenziazione tra approfittamento dello stato di bisogno ed estorsione.

In ordine al primo motivo il ricorrente sosteneva che il termine di tre mesi per l'adempimento in materia di reati omissivi decorre dalla notifica dell'Inps e, inoltre, chiedeva l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo G) perché il fatto non è previsto dalla legge come reato a seguito dell'intervenuta depenalizzazione per i reati di omesso versamento delle ritenute previdenziali per importi al di sotto dei diecimila euro.

In relazione al secondo motivo, il datore di lavoro rilevava come fosse stato dedotto con l'atto di appello l'insussistenza del reato di estorsione, in quanto, ancor prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro, tutti i dipendenti erano stati resi edotti delle condizioni, degli orari, delle retribuzioni e dei turni di lavoro, e li avevano “liberamente” accettati.

La Corte di Cassazione ritiene fondato solo il primo motivo di doglianza avuto riguardo alla richiesta di pronuncia di annullamento della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo G) perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, quale circostanza che impone di conseguenza l'eliminazione della relativa pena inflitta a tale titolo, pari a giorni venti di reclusione; mentre nel resto rigetta il ricorso perché infondato.

La questione

La questione sottoposta alla Corte di Cassazione consente di precisare alcuni aspetti della tutela penalistica in ambito lavorativo, con riguardo alla configurabilità del reato di estorsione a carico del datore di lavoro, nonché, in secondo luogo, al reato di omesso versamento di ritenute previdenziali.

Con riferimento alla sussistenza del reato di estorsione la Corte, rilevando l'infondatezza del secondo motivo di ricorso, sottolinea che la ricostruzione del fatto storico è inquadrabile sotto il paradigma dell'

art. 629 c.p.

, in quanto il contratto di lavoro si è configurato quale strumento funzionalmente adoperato dal datore di lavoro per perseguire un ingiusto profitto ai danni dei dipendenti. A riguardo la giurisprudenza è costante nel ritenere che configura il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro il quale costringa i propri lavoratori ad accettare la corresponsione di retribuzioni non adeguate al lavoro svolto, dietro esplicita minaccia di un successivo licenziamento (

Cass. n. 4290 del 2011

). Ne consegue che il reato di estorsione è integrato dalla condotta del datore di lavoro che, approfittando delle condizioni del mercato del lavoro a lui favorevoli nei confronti dei lavoratori per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, con la minaccia consistita, a seconda dei casi, nel prospettare loro la mancata assunzione o il licenziamento o la mancata corresponsione della retribuzione, qualora non venissero accettate le condizioni di lavoro loro imposte, costringa i lavoratori medesimi ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e alla contrattazione collettiva, quali, a seconda dei casi: lavoro in nero, trattamenti economici inferiori rispetto al pattuito, sottoscrizione di lettere di dimissioni in bianco, rinuncia a godere di congedi per malattia o per infortunio sul lavoro; in tal modo procurandosi l'ingiusto profitto rappresentato dalla mancata erogazione delle somme legalmente dovute, anche per oneri contributivi e previdenziali e prestazioni di lavoro straordinario, con pari danno per i suddetti lavoratori. Ciò in quanto la minaccia, quale elemento costitutivo dell'estorsione, non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante la minaccia di un male irreparabile alle persone o alle cose, tale da non lasciare al soggetto passivo una libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di un male che, in relazione alle circostanze che l'accompagnano, sia tale da far sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio (

Cass. n. 32525/2010

).

Dunque, la condotta del datore di lavoro si è esplicata in una molteplicità di comportamenti estorsivi nei confronti dei propri dipendenti, i quali si sono visti costretti ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate e, in genere, condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi, ponendoli in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle condizioni vessatorie equivaleva perdere a il posto di lavoro. Il fatto che sia intervenuto l'accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di quest'ultimo delle suddette condizioni vessatorie, non esclude, di per sé, la sussistenza dei presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia ingiusta, perché è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo (

Cass. n. 28682/2008

).

Per quanto concerne invece la configurazione del reato di omesso versamento di ritenute previdenziali, di cui al primo motivo di ricorso, la Cassazione ribadisce che tale fattispecie (

art. 2, D.L. n. 463 del 1983

, conv. in

L. n. 638 del 1983

), in quanto reato omissivo istantaneo, si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento, termine attualmente fissato, dall'

art. 2, comma primo, lett. b) del D.Lgs. n. 422 del 1998

, al giorno sedici del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi. È a tale termine che deve farsi riferimento, a nulla rilevando, nell'ottica della identificazione del momento consumativo del reato, la data della notifica della intimazione al pagamento nei tre mesi successivi alla contestazione, che rileva al solo fine dell'eventuale sussistenza della causa di non punibilità di cui al cit. art. 2, comma 1 bis (

Cass. n. 43607 del 2015

). Ne consegue che, poiché l'illecito omissivo istantaneo si consuma alla scadenza del termine entro il quale il datore di lavoro deve versare le ritenute operate sulle retribuzioni corrisposte ai propri dipendenti, momento nel quale deve sussistere l'elemento soggettivo, non può dedursi l'assenza del dolo dalla mancata conoscenza della diffida ad adempiere, inviata al contravventore a seguito dell'accertamento della violazione per consentirgli di giovarsi della speciale causa di non punibilità ivi prevista mediante il versamento integrale dei contributi entro tre mesi.

Da ultimo, va notato che la Suprema Corte ritiene fondato il secondo aspetto prospettato dal ricorrente nel primo motivo di ricorso, rilevando che l'

art. 3, comma 6, del D.Lgs. n. 8 del 2016

, prevede che l'

art. 2, comma 1-bis, del D.L. n. 463 del 1983

, convertito, con modificazioni, dalla

L., n. 638 del 1983

, è sostituito dall'1-bis in base al quale l'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l'importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.00 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione. Ne consegue che, nel caso di specie, l'ammontare complessivo delle ritenute previdenziali ed assistenziali per il semestre era pari ad un importo tale da consentire di ritenere depenalizzato il reato de quo.

Le soluzioni giuridiche

Il punto focale della fattispecie è rappresentato dalla configurabilità del reato di estorsione di cui all'

art. 629 c.p.

La prospettazione della minaccia di licenziamento, quale modalità della condotta datoriale tesa a piegare la volontà dei prestatori di lavoro, ha comportato la creazione di un rapporto lavorativo privo fin dall'origine dei caratteri della buona fede e correttezza, quali requisiti fondanti che connotano il rapporto fra le parti. Nel caso di specie, il comportamento del datore di lavoro, volto ad instaurare un rapporto lavorativo basato sulla sopraffazione, attraverso la minaccia di licenziamento, ha determinato una situazione che potrebbe inquadrarsi nell'ambito della categoria civilistica del mobbing. A riguardo va notato che la stessa giurisprudenza definisce mobbing la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità (

Cass. n. 3785/2009

). Ne consegue che nel caso in esame sembrano riscontrarsi gli estremi di una condotta mobbizzante caratterizzata dall'imposizione di trattamenti retributivi peggiorativi e ritorsioni che, attraverso la minaccia del licenziamento o della mancata assunzione, lede la dignità personale comportando la distruzione psicologica e professionale dei dipendenti ab origine così da indurli ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, finanche mentire davanti all'Ispettorato del lavoro, pur di non perdere l'opportunità lavorativa in un mercato del lavoro dominato dalla disoccupazione. Dunque potrebbe prospettarsi una forma di “mobbing verticale in entrata”, cioè un comportamento datoriale antigiuridico, teso non già ad isolare il dipendente per indurlo a dimettersi - come di consueto si riscontra nel mobbing verticale -, quanto piuttosto idoneo a reperire forza lavoro da sfruttare a condizioni inique e contrarie alla legge.

Inoltre va notato che la fattispecie in questione, sotto il profilo civilistico, arreca un vulnus ai principi di buona fede e correttezza vigenti nei rapporti obbligatori di cui agli

artt. 1175

e

1375 c.c

.

, oltre a comportare la violazione l'

art. 2087 c.c.

, in base al quale il datore di lavoro deve tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, e di conseguenza, in caso di violazione, impone di risarcire il danno sia al patrimonio professionale, c.d. danno da dequalificazione, sia alla personalità morale e alla salute, c.d. danno biologico, poiché l'obbligo previsto implica il dovere di astenersi da comportamenti lesivi dell'integrità psicofisica dei dipendenti.

Per quanto riguarda invece la tutela penale giova sottolineare, come rileva parte della dottrina (Perini), che il mobbing, quale forma di inadempimento contrattuale sul fronte civilistico di cui il datore è responsabile per fatto proprio, non trova una specifica collocazione nel diritto quale autonoma fattispecie criminosa, data la mancanza nella legislazione vigente di un'ipotesi specifica di reato a carico del datore di lavoro per le condotte vessatorie. Ne consegue che la condotta costituente mobbing viene fatta rientrare, di volta in volta, in fattispecie diverse. Si pensi alla violenza privata di cui all'

art. 610 c.p.

, quale comportamento di chi, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, o all'abuso d'ufficio di cui all'

art. 323 c.p.

nell'ambito di un rapporto d'impiego con la P.A., o ancora, come nel caso di specie, all'estorsione di cui all'

art. 629 c.p.

In proposito la dottrina (Vallebona), sottolinea che con la qualificazione civilistica può concorrere quella penalistica (ad es. maltrattamenti, lesioni, violenza privata, estorsione, ingiuria, diffamazione), senza che per ciò sia esclusa la natura contrattuale dell'illecito civile. Ne consegue che il lavoratore può far valere la responsabilità aquiliana da reato quale parte civile nel giudizio penale o autonomamente innanzi al giudice civile ordinario, sottoponendosi al relativo regime anche per la prescrizione e per gli oneri probatori, che investono anche l'elemento soggettivo. Né può escludersi la proposizione congiunta delle due azioni innanzi al giudice del lavoro, purché non si confondano i differenti regimi.

Nella vicenda in esame la Corte ritiene la condotta prevaricatrice del datore di lavoro di tale gravità da integrare il reato di estorsione di cui all'

art. 629 c.p.

proprio perché i lavoratori sono stati posti in una condizione di soggezione e dipendenza tali da non consentire loro, senza un apprezzabile sacrificio nell'autonomia decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle quali si vedevano costretti. Proprio la minaccia di licenziamento, a fronte di una particolare situazione del mercato del lavoro, in cui l'offerta superava di gran lunga la domanda, ha determinato un vulnus nella volontà di accettazione delle condizioni contrattuali contra ius, una volontà quindi non già libera di autodeterminarsi, bensì condizionata dall'assenza di possibilità alternative di lavoro.

Agevole risulta la sussunzione della fattispecie concreta in quella del reato di estorsione, il cui oggetto di tutela è rappresentato dall'interesse pubblico alla libertà di autodeterminazione e all'inviolabilità del patrimonio, poiché l'elemento psicologico del dolo, nella sua forma diretta ed intenzionale, è volto, attraverso la coartazione dell'altrui volontà (tamen coactus, voluit), quale scopo mediato, al perseguimento dell'ingiusto profitto con altrui danno.

Né può assumere alcun rilievo scriminante il fatto dell'accordo contrattuale intervenuto fra le parti, nel senso dell'accettazione da parte del dipendente di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative. A riguardo la Suprema Corte ha messo più volte in evidenza che un tale accordo non esclude, di per sé, la sussistenza dei presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo, può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perché è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera (

Cass.

nn

. 3779/2003

e 5426/2002).

Osservazioni

A conclusione della disamina del caso sembra opportuno evidenziare che la condotta datoriale, qualificabile dal punto di vista penalistico quale estorsione, può rilevare sotto il profilo civilistico quale espressione di mobbing verticale, c.d. bossing, configurando un abuso della posizione dominante del datore di lavoro. Infatti, costringere i dipendenti ad accettare le condizioni lavorative arbitrariamente imposte, a firmare una lettera di dimissioni in bianco, a svolgere attività lavorativa quotidiana e a tempo pieno, pur risultando gli stessi assunti con un contratto a tempo parziale, e a non fruire di ferie, contributi e TFR, nonché ad accettare un compenso inferiore a quello che avrebbe dovuto essere loro erogato, configura sicuramente un'ipotesi di abuso del diritto, quale genus in cui rientra la categoria dell'eccesso, o meglio, dello sviamento dei poteri direttivi imprenditoriali. Giova sottolineare infatti che l'abuso del diritto, la cui radice etimologica ab-uti segnala un uso anormale del diritto, si sostanzia più che in un mero eccesso, in uno sviamento tale da comportare la modifica della ratio della norma attributiva del diritto. Diritto che, se esercitato violando il principio generale del neminem laedere, e quindi i canoni di buona fede e correttezza vigenti nei rapporti obbligatori di cui agli

artt. 1175

e

1375 c.c.

, si trasforma in una condotta abusiva sorretta da un animus nocendi volta a soverchiare gli interessi dell'altra parte sulla quale ricade il pregiudizio dell'esercizio di un non-diritto, poiché divenuto un mero arbitrio straripante dagli argini del diritto.

Dunque in questa ipotesi l'antigiuridico comportamento datoriale può essere qualificato come mobbing, perché consistente in una condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti dei lavoratori nell'ambiente di lavoro, risoltasi, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e caratterizzata, sul piano soggettivo, dalla coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni, di vario tipo ed entità, ai dipendenti medesimi. Questi ultimi potranno far valere il loro diritto a percepire le differenze retributive per le prestazioni effettivamente svolte, nonché lamentare il danno alla professionalità

ex

art. 2103 c.c.

, rispetto al quale il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo (pure in mancanza di intenti discriminatori o persecutori idonei a qualificarlo come "mobbing"), alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente, nonché all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore (

Cass. S.U. n. 4063/2010

).

Nell'ipotesi in cui il dipendente abbia rassegnato le proprie dimissioni, sotto minaccia di licenziamento, sembra potersi ravvisare un'ipotesi di vizio della volontà

ex

art. 428 c.c.

in base al quale sarà possibile chiedere l'annullamento dell'atto invocando l'

art. 1434 c.c.

poiché reso sotto violenza, quindi in una condizione volitiva grandemente scemata, non idonea a renderlo riconducibile ad una libera scelta del lavoratore.

In conclusione, per ciò che concerne la tutela civilistica, il dipendente mobbizzato potrà richiedere il risarcimento dei danni

ex

art. 2087 c.c.

facendo valere quindi l'inadempimento contrattuale, o agire

ex

art. 2043 c.c.

lamentando la violazione del più generale dovere del neminem laedere fonte di responsabilità extracontrattuale. Diversi sono i regimi giuridici poiché nel primo caso grava sul lavoratore l'onere di allegare e provare l'inadempimento datoriale che ha provocato il pregiudizio subito ed il rapporto di causalità, secondo il regime degli

artt. 1218

e

1223 c.c.

, entro il termine di prescrizione decennale. Nel secondo caso, invece, il dipendente dovrà provare il danno ingiusto da cui sia originata la lesione all'integrità psicofisica, il nesso di causalità nonché l'elemento psicologico per poter ascrivere la responsabilità aquiliana al datore di lavoro, vale a dire quindi la colpa o il dolo, con un termine prescrizionale di cinque anni. Il datore di lavoro sarà tenuto a risarcire tutti i danni provocati dal suo illegittimo comportamento, quindi sia il danno al patrimonio professionale, c.d. danno da dequalificazione, sia alla personalità morale di cui al combinato disposto degli

artt. 2059 c.c.

e

art.

185 c.p.

, nonché quello alla salute, c.d. danno biologico

ex

art. 32 Cost.

(Per un approfondimento sui danni si veda

Cass.

nn

. 531/2014

e

19778/2014

).

Alla luce di quanto esposto, il fatto del datore di lavoro lede allo stesso tempo sia il diritto del lavoratore all'adempimento degli obblighi contrattuali, sia i suoi diritti assoluti costituzionalmente tutelati. A riguardo, seguendo il più recente orientamento giurisprudenziale (

Cass. S.U. n. 26972/2008

), che ha ammesso la risarcibilità del danno non patrimoniale anche nell'ambito della responsabilità contrattuale nell'ipotesi in cui l'inadempimento violi allo stesso tempo i diritti derivanti dal contratto ed i diritti fondamentali della persona, dando così una lettura costituzionalmente orientata dell'

art. 1218 c.c.

, può dirsi che la responsabilità ex contractu del datore di lavoro assorbe in sé la responsabilità aquiliana senza diminuire la tutela spettante al dipendente mobbizzato, doppiamente leso, nei suoi diritti fondamentali e in quelli nascenti dal contesto lavorativo.

Guida all'approfondimento
  • C. Perini, La tutela penale del mobbing, in A.a.V.v., Mobbing, organizzazione, malattia professionale, (Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali), Torino, 2009, p. 155
  • R. Dies, La difficile tutela penale contro il mobbing in Il mobbing. Analisi giuridica interdisciplinare, in Atti del convegno tenutosi a Trento l'8 novembre 2007, a cura di S. Scarponi, Padova, 2009, p. 103 ss.
  • S. Muggia, I profili penalistici del mobbing: violenza privata ed estorsione come una possibile tutela del lavoratore in Rivista critica di diritto del lavoro, 2006, 4, p. 1293
  • B. Romano, Il mobbing: ai confini del diritto penale?, Riv. Pen. Econ., 2004, p. 167
  • A. Vallebona, Mobbing senza veli in Dir. relaz. ind., fasc. 4, 2005, p. 1051

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