‘No’ del dipendente alla richiesta aziendale di una prestazione aggiuntiva: licenziamento illegittimo

La Redazione
19 Dicembre 2014

Nessun dubbio sulla condotta del lavoratore, che si è rifiutato di soddisfare la pretesa dell'azienda. Ma, tenendo conto delle motivazioni di tale scelta, la sanzione adottata, ossia la rottura del rapporto di lavoro, pare eccessiva.

Cass.civ., sez. lavoro, 18 dicembre 2014, n. 26471, sent.

Nessun dubbio sulla condotta del lavoratore, che si è rifiutato di soddisfare la pretesa dell'azienda. Ma, tenendo conto delle motivazioni di tale scelta, la sanzione adottata, ossia la rottura del rapporto di lavoro, pare eccessiva. Richiesta chiara dell'azienda, che chiede al lavoratore una prestazione aggiuntiva. Altrettanto chiaro il rifiuto opposto dal dipendente, rifiuto legato, da un lato, alla tempistica della domanda, e, dall'altro, al ‘blocco' deciso a livello sindacale.

Condotta discutibile, quella del lavoratore, certo, ma essa non può dare il ‘la' al provvedimento estremo, ossia il licenziamento, deciso dall'azienda (Cass., sent. n. 26741/14, Sezione Lavoro, depositata il 18 dicembre).
Rifiuto. A sorpresa già i giudici di merito hanno sancito la «illegittimità del licenziamento» deciso dall'azienda – ‘Poste Italiane', per la precisione – nei confronti del dipendente, finito sotto accusa per avere «rifiutato di eseguire la prestazione cosiddetta aggiuntiva». Eppure, è stato riconosciuto che «la società aveva ragione di pretendere l'adempimento degli obblighi assunti con l'accordo del 2004, e di lamentare, a causa del comportamento del lavoratore, quantomeno un pregiudizio alla regolarità del servizio». Ma, spiegano i giudici, non sono stati provati, in concreto, i «gravi danni» lamentati dall'azienda.
Eppoi, viene aggiunto, «il lavoratore aveva esposto sufficienti giustificazioni del suo rifiuto, a fronte di una richiesta intempestiva», e, comunque, tale rifiuto «non era avvenuto ad iniziativa del lavoratore, ma era stato deciso in sede sindacale, con ovvie ripercussioni sui rapporti dei singoli non iscritti alle associazioni aderenti all'accordo».
Sanzione eccessiva. E ora la visione tracciata in primo grado, e ripresa in secondo grado, viene fatta propria anche dai giudici della Cassazione, i quali, difatti, ritengono privo di fondamento il ricorso proposto da ‘Poste Italiane', e confermano, quindi, la «illegittimità del licenziamento» adottato nei confronti del dipendente.
Dai giudici di legittimità viene ribadito che, nonostante le proteste dell'azienda, non vi era alcuna ipotesi di «recidiva plurima» a carico del lavoratore, ‘protagonista' di «quattro precedenti disciplinari», soprattutto perché «due delle sanzioni più gravi erano state annullate, e soltanto l'ultima era ancora sub iudice».
Allo stesso tempo, viene ribadita la correttezza dell'operato dei giudici di merito, i quali hanno legittimamente valutato la «gravità» della condotta del lavoratore «ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva». E, a questo proposito, è emerso che «la parte datoriale non aveva indicato i gravi danni subiti», mentre il lavoratore «aveva esposto sufficienti giustificazioni del suo rifiuto», peraltro «deciso in sede sindacale».
Tutto ciò, spiegano, in chiusura, i giudici della Cassazione, ha portato a concludere che non vi era alcuna «proporzionalità» nella «sanzione» decisa dall'azienda.
Vittoria piena e definitiva, quindi, per il lavoratore.

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