Illegittima apposizione del termine e accertamento della risoluzione per mutuo consenso

Elisa Mapelli
13 Novembre 2015

Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.
Massima

Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. (Nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza di merito che aveva ritenuto sufficiente a configurare la risoluzione per mutuo consenso la mancata attuazione del rapporto di lavoro per un periodo di oltre quattro anni).

Il caso

Una ex dipendente a tempo determinato di Poste Italiane ha convenuto in giudizio la suddetta società per chiedere la declaratoria di nullità del termine finale apposto al contratto di lavoro tra le parti tra il 1 marzo 2000 al 31 maggio 2000 per “esigenze eccezionali” previste dal CCNL applicabile.

Il Tribunale del Lavoro di Roma, in primo grado, ha respinto la domanda proposta dalla lavoratrice, la quale conseguentemente ha proposto appello avanti la Corte d'Appello.

In sede di gravame, la Corte d'Appello ha confermato la sentenza di primo grado e, con sentenza del 3 settembre 2008, ha respinto l'appello della lavoratrice, in particolare confermando l'accoglimento dell'eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito avanzata da Poste Italiane.

Per la cassazione di tale sentenza, la lavoratrice ha proposto due motivi e la Suprema Corte, in riforma delle due precedenti sentenze, ha accolto il ricorso della lavoratrice, cassando la sentenza impugnata e rinviando nuovamente alla Corte di Cassazione in diversa composizione.

Le questioni

Le questioni in esame sono le seguenti: a) l'interpretazione dei comportamenti delle parti necessari per determinare una risoluzione del contratto per mutuo consenso tacito, e b) il ruolo del trascorrere del tempo e l'inerzia del lavoratore come fattori determinanti per dar luogo alla risoluzione consensuale del rapporto del lavoro.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione ha più volte affermato che ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (Cass. 10 novembre 2008, n. 26935, Cass. 28 settembre 2007, n. 20390, Cass. 17 dicembre 2004, n. 23554, Cass. 18 novembre 2010, n. 23319, Cass. 11 marzo 2011, n. 5887, Cass. 4 agosto 2011, n. 16932).

La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, non è da sola sufficiente per fondare una risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso (Cass. 15 novembre 2010, n. 23057, Cass. 11 marzo 2011, n. 5887).

Peraltro, grava sul datore di lavoro, che eccepisce tale risoluzione, l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279, Cass. 15 novembre 2010, n. 23057, Cass. 11 marzo 2011, n. 5887), mentre la valutazione del significato e della portata del complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito (Cass. 11 marzo 2011, n. 5887 e Cass. 4 agosto 2011, n. 16932).

Tali principi sono conformi al dettato degli art. 1372 e 1321 c.c.

La Suprema Corte ha, dunque, confermato nuovamente tale consolidato indirizzo giurisprudenziale, il quale si basa sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.

A tal riguardo, infatti, non è ritenuto condivisibile il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il "piano oggettivo" nel quadro di una presupposta valutazione sociale "tipica" (Cass. 6 luglio 2007, n. 15264 e Cass. 5 giugno 2013, n. 14209), prescinde del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale che, in quanto tale, seppure tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo. D'altra parte, il mero decorso del tempo e la mera inerzia del lavoratore sono da considerarsi come un semplice fatto che, al di fuori delle ipotesi tipiche fissate dalla legge, di per sé è irrilevante. Né può essere sufficiente al fine della risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito la mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto stesso, tanto più che nel rapporto di lavoro possono anche intervenire numerose ipotesi di sospensione, previste dalla legge o derivanti dalla volontà delle parti.

Nel caso di specie, invece, la Corte di merito, pur avendo richiamato l'indirizzo consolidato sopra citato, aveva poi, in contrasto con lo stesso, ritenuto configurabile la risoluzione per mutuo consenso tacito in considerazione soltanto della notevolissima fase di non attuazione del rapporto (oltre 4 anni) con la mancanza di qualsiasi manifestazione di interesse da parte del lavoratore alla funzionalità di fatto di esso nel tempo antecedente la proposizione dell'azione giudiziaria e della breve durata dell'esecuzione del contratto (3 mesi).

Sulla base di questi presupposti, la Corte di Cassazione ha, quindi, accolto il ricorso della lavoratrice, cassando la sentenza impugnata con rinvio.

Osservazioni

L'art. 1372 c.c., dopo aver stabilito che “il contratto ha forza di legge tra le parti”, dispone che esso “non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”. La norma trova applicazione anche con riferimento ai contratti di lavoro.

Il tema della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, alla luce di comportamenti concludenti tra le parti, è stato oggetto nel recente passato di disamina giurisprudenziale.

In particolare, si è dibattuto se l'inerzia del lavoratore, assunto a tempo determinato, ad adire alle vie legali per vedersi riconoscere la conversione del rapporto a tempo indeterminato, che si sia protratta nel tempo, possa essere qualificata come idonea a configurare un mutuo consenso in ordine alla definitiva cessazione del rapporto di lavoro.

Secondo l'orientamento giurisprudenziale maggioritario l'inerzia del lavoratore non è sufficiente, in quanto è necessario accertare una precisa e chiara comune volontà delle parti medesime di porre fine al rapporto di lavoro.

Non devono, dunque, ricollegarsi al mero decorso del tempo effetti negoziali, in quanto sarà necessario verificare anche altri elementi che inducono a ritenere perfezionata la fattispecie negoziale volta a determinare la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro per mutuo consenso, quali ad esempio le modalità di cessazione del rapporto ovvero atteggiamenti successivi anche tenuti dal lavoratore, quali la ricerca o lo svolgimento di un nuovo lavoro.

Questo ultimo elemento è stato valutato, tuttavia, con cautela, in quanto i giudici non hanno ritenuto di poter attribuire un valore concludente al comportamento del lavoratore che – estromesso dall'azienda e dal reddito – abbia reperito una nuova occupazione per il proprio sostentamento e per quello della propria famiglia, in una fase di estrema necessità.

La giurisprudenza si è, quindi, mossa nel solco di favorire indirizzi giurisprudenziali molto rigorosi in ordine all'individuazione delle condizioni che devono sussistere perché un comportamento inattivo del lavoratore possa assumere il valore di manifestazione di attività negoziale abdicativa di un diritto e quindi di acquiescenza ad una situazione originata dalla volontà datoriale così come di accettazione tacita di una proposta della controparte (i.e., mutuo consenso).

L'acquiescenza è, infatti, quel comportamento unilaterale del lavoratore incompatibile con la volontà di avvalersi del sistema di tutele previsto dall'ordinamento giuridico, in relazione a comportamenti posti in essere dal datore di lavoro.

Nei contratti a tempo determinato, tuttavia, l'inerzia del lavoratore, anche ad agire in sede giudiziale per il riconoscimento della nullità del termine e la conversione del rapporto a tempo indeterminato, non può essere considerata alla stregua dell'acquiescenza dello stesso alla cessazione del rapporto di lavoro.

Infatti, non è sufficiente il mero decorso del tempo, più o meno lungo, da considerarsi nella specie come un fatto di per sé neutro, che può trovare una sua qualificazione giuridica, un suo significato negoziale, in senso positivo o negativo, se siano accertati fatti incompatibili con la continuità del rapporto (A. Saraceno – E. Cantarella, La conversione del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, in Teoria e Pratica del Diritto, Sez. I – 149 Diritto e Procedura Civile, 2009, 119).

A sostegno di tale tesi, è utile ricordare il principio secondo cui la disdetta intimata dal datore di lavoro al lavoratore per scadenza del termine invalidamente apposto al contratto non si configurava, in passato, come licenziamento né era soggetta alla relativa disciplina. Ne conseguiva che, in tal caso, l'azione proposta dal lavoratore per l'accertamento della illegittimità del termine, non si configurava come impugnazione del licenziamento, ma come azione di nullità parziale per violazione di norme imperative ai sensi dell'art. 1419, comma 2, c.c. tendente a conseguire, unitamente alla dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, anche la sostituzione del rapporto invalidamente costituito con quella a tempo indeterminato.

Di conseguenza, il lavoratore che deduceva l'illegittimità del termine apposto al contratto poteva rivendicare in qualunque momento il suo diritto di ottenere la declaratoria di nullità parziale del contratto a termine, essendo la sua azione imprescrittibile ex art. 1422 c.c.

In ogni caso, vale la pena ricordare che il Legislatore, con le recenti riforme che hanno caratterizzato il mondo del lavoro ed in particolare, prima con il “Collegato Lavoro” nel 2010 (L. 4 novembre 2010, n. 183) e poi con la “Riforma Fornero” nel 2012 (L. 28 giugno 2012, n. 92), ha fissato un termine preciso per il lavoratore che intende impugnare l'atto di recesso.

Infatti, nel caso in cui il licenziamento presupponga la risoluzione di questioni relative alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, il lavoratore deve seguire la seguente procedura:

  • impugnazione a pena di decadenza entro 120 giorni, decorrenti dalla data di cessazione del contratto;
  • ricorso giudiziale entro i successivi 180 giorni, pena l'inefficacia dell'impugnazione.

Pertanto, il Legislatore chiede al lavoratore di non essere inerte e di impugnare il recesso e la cessazione del termine entro una determinata tempistica, pena la decadenza dal diritto alla tutela stessa ed alla verifica del termine e della durata del contratto.

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