Le nuove regole del licenziamento disciplinare del pubblico dipendente dopo il d.lgs. n. 116/2016
15 Settembre 2016
Il d.lgs. 20 giugno 2016, n. 116 interviene in materia di licenziamento disciplinare dei pubblici dipendenti (S. Giubboni). Viene così aggiunto l'ennesimo tassello al lungo processo di riforma della P.a. che può dirsi in perenne attesa di conclusione (per alcuni passaggi si v., ex multis, F. Carinci, A. Bellavista, A. Garilli, recentemente A. Boscati). La questione dell'efficienza delle P.a. è da tempo all'ordine del giorno giacché il potere disciplinare in tale settore è stato esercitato poco e male per ragioni vuoi strutturali, vuoi culturali (S. Mainardi, P. Tullini). Tuttavia, l'approvazione del d.lgs. n. 116/2016 è stata condizionata - soprattutto per la tempistica - da contingenti fatti di cronaca che hanno riportato in auge l'annoso tema dell'assenteismo nel settore pubblico. La novella ha ad oggetto, nello specifico, la falsa attestazione della presenza in servizio del pubblico dipendente. In particolare, l'art. 1, d.lgs. n. 116/2016 apporta una serie di integrazioni all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165/2001, aggiungendo al testo previgente i nuovi commi 1-bis, 3-bis, 3-ter, 3-quater e 3-quiquies. Norme che ovviamente si applicheranno agli illeciti disciplinari commessi successivamente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 116/2016 (art. 3, comma 1). Le tipizzazioni delle cause di licenziamento e il principio di proporzionalità - Come noto, l'art. 55-quater, introdotto dal d.lgs. n. 150/2009, ha affiancato alle nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo – e alle ulteriori ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, una serie di fattispecie di licenziamento legalmente tipizzate e inderogabili. Tali tipizzazioni hanno posto delicati problemi in relazione al principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione. E se autorevole dottrina ha sostenuto che nelle tipizzazioni legali è il legislatore a “monte” ad effettuare direttamente il giudizio di proporzionalità, precludendo ogni intervento a “valle” del giudice e, prima ancora, del titolare del potere disciplinare (A. Vallebona, R. Romei), altra parte della dottrina ha notato come l'art. 55, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 - richiamando espressamente l'art. 2106 c.c. - importi comunque l'applicazione del principio di proporzionalità (F. Borgogelli). La stessa giurisprudenza ha ribadito, almeno formalmente, che la proporzionalità vada in ogni caso accertata in concreto stante il divieto di automatismi sanzionatori (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1351).
Scendendo nel merito, va ricordato come l'art. 55-quater, comma 1, lett. a) punisca con il licenziamento senza preavviso il lavoratore responsabile della seguente infrazione: «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia». La norma non riguarda specificamente le assenze prive di giustificazione, per le quali provvede, invece, la successiva lett. b) stabilendo precisi limiti quantitativi e temporali (3 giorni di assenza in 2 anni o 7 giorni di assenza in 10 anni). A ben vedere con l'art. 55 quater comma 1, lett. a) il legislatore ha inteso isolare all'interno della categoria delle assenze ingiustificate alcune fattispecie più gravi, in quanto connotate dall'intento fraudolento, tali da giustificare il licenziamento “in tronco” anche per una sola breve assenza o addirittura per un allontanamento di pochi minuti dal posto di lavoro.
Le (presunte) integrazioni della nozione di falsa attestazione della presenza in servizio - Al quadro appena descritto, l'art. 1, d.lgs. n. 116/2016 aggiunge un nuovo comma 1-bis, con il quale si mira a definire cosa debba intendersi per falsa attestazione della presenza in servizio. Ai sensi di tale comma, infatti, «costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso». Difficile capire quale sia il portato innovativo di questa disposizione rispetto al quadro previgente già delineato dal comma 1, lett. a). Di certo non l'attestazione della presenza in servizio con qualunque modalità fraudolenta. Nemmeno la previsione che fa espresso riferimento ai terzi, giacché l'avvalersi di un terzo sarebbe rientrato pur sempre nelle «altre modalità fraudolente» già contemplate. Forse l'unica novità potrebbe individuarsi nella parte in cui si fa riferimento al trarre in inganno la P.a. circa il rispetto dell'orario di lavoro. Ma evidentemente si tratta di novità più nominalistica che altro, se vale l'osservazione che qualsiasi mancato rispetto dell'orario di lavoro presuppone comunque un'assenza dal servizio.
Ha carattere parzialmente innovativo - sebbene una rilevanza disciplinare potesse già desumersi dai principi generali e dalle norme, legali e contrattuali, previgenti (v. in particolare l'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, ultimo periodo) - l'inciso finale del nuovo comma 1-bis, laddove è previsto che «della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta». La parificazione, al comportamento di chi attesta falsamente la presenza, della condotta dei terzi che partecipano o concorrono alla frode parrebbe procedere ad una tipizzazione legale di una ulteriore causale di licenziamento. Anche se la formulazione della norma lascia qualche residua ambiguità. Il comma 1-bis, in effetti, si limita ad affermare che «della violazione risponde anche chi abbia agevolato», senza specificare in che termini e in che modo ne risponde. Se a ciò si aggiunge che l'art. 55-quater, comma 1 prevede come cause di licenziamento solo le infrazioni ivi contemplate e che il comma 3 della medesima norma riserva la sanzione del licenziamento senza preavviso solo ad alcuni dei casi del medesimo comma 1, resta il dubbio su quale sia la sanzione applicabile al terzo agevolatore. Se cioè sia, al pari di quanto previsto per il lavoratore agevolato, il licenziamento senza preavviso o, al contrario, possa anche essere una sanzione meno grave, da determinarsi in proporzione all'importanza del contributo fornito alla consumazione dell'infrazione principale. Allo stesso modo non è chiaro se al terzo agevolatore debba applicarsi il nuovo procedimento disciplinare abbreviato (sui cui infra) previsto dai commi 3-bis e ss., visto che anche in questo caso il richiamo è solo al comma 1, lett. a), non già al comma 1-bis. È appena il caso di notare che se il terzo agevolatore sia un medico trova applicazione anche la speciale disciplina dell'art. 55-quinquies, comma 3, d.lgs. n. 165/2001. La sospensione cautelare immediata: ipotesi e disciplina
Il d.lgs. n. 116/2016 aggiunge all'art. 55-quater anche il comma 3-bis nel quale è previsto uno specifico procedimento disciplinare abbreviato, che si applica nel caso in cui «la falsa attestazione della presenza in servizio» sia «accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze». Ne consegue che qualora l'accertamento avvenga con altre modalità (es. attraverso una segnalazione) continuerà, invece, ad applicarsi il procedimento ordinario ex art. 55-bis. Nei casi previsti dal menzionato comma 3-bis deve essere anzitutto disposta l'immediata sospensione cautelare senza stipendio del dipendente - fatto salvo il diritto all'assegno alimentare nella misura stabilita dalle disposizioni normative e contrattuali - e in assenza, peraltro, di un obbligo di preventiva audizione dell'interessato. Si tratta di un'ipotesi di sospensione cautelare obbligatoria che si aggiunge alle ipotesi già previste per via legale e contrattuale. Sempre ai sensi del comma 3-bis, la sospensione deve essere disposta direttamente dal responsabile della struttura in cui il dipendente è impiegato con provvedimento motivato mentre l'ufficio dei procedimenti disciplinari (UPD) di cui all'art. 55-bis, comma 4, interviene solo nel caso sia venuto a conoscenza per primo dell'infrazione. In tale ultima ipotesi - non essendo prevista una comunicazione interna alla P.a. - potrebbe determinare qualche piccola sovrapposizione. Deve rilevarsi, inoltre, che il responsabile di struttura che procede alla sospensione cautelare può anche non avere, diversamente da quanto stabilito dall'art. 55-bis, comma 1, qualifica dirigenziale. Ad ogni modo la sospensione dal servizio deve avvenire in via immediata e comunque entro 48 ore dal momento in cui i soggetti competenti siano venuti a conoscenza dell'infrazione. La «violazione di tale termine non determina [tuttavia] la decadenza dall'azione disciplinare né l''inefficacia della sospensione cautelare», (art. 55-quater, comma 3-bis). Resta salva, in ogni caso, l'eventuale responsabilità del dipendente cui il mancato rispetto del termine sia imputabile. Sebbene vi sia una lacuna normativa nel decreto n. 116, può affermarsi che – in linea con quanto previsto dai contratti collettivi di comparto (cfr. CCNL Ministeri; CCNL Sanità, etc.) - nell'ipotesi di archiviazione del procedimento disciplinare, al dipendente cautelarmente sospeso competa comunque la retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di sospensione, dedotto quanto percepito a titolo di indennità (cfr. Cass. 1 marzo 2013, n. 5147).
Il nuovo comma 3-ter dell'art. 55-quater, inoltre, stabilisce che con il medesimo provvedimento di sospensione cautelare appena descritto «si procede anche alla contestuale contestazione per iscritto dell'addebito e alla convocazione del dipendente dinanzi all'Ufficio di cui all''art. 55-bis, comma 4». Vi è dunque una drastica riduzione dei termini di avvio procedimentale stabiliti in precedenza. La contestazione dell'addebito, infatti, deve avvenire non più entro 40 giorni dalla conoscenza dell'infrazione - come stabilito l'art. 55-bis, commi 2 e 4 - bensì entro le 48 ore successive. Tuttavia, il mancato rispetto del suddetto termine non producendo – come detto - alcuna conseguenza sull'efficacia del procedimento, non esclude ipotesi di ritardi nell'avvio della procedura. In ogni caso, è previsto che «l'Ufficio conclude il procedimento entro trenta giorni dalla ricezione, da parte del dipendente, della contestazione dell'addebito» (art. 55-quater, comma 3-ter). Rispetto al termine di 120 giorni stabilito in linea generale (art. 55-bis), si registra, dunque, una drastica riduzione del periodo di durata massima del procedimento disciplinare.
La convocazione per il contraddittorio a difesa del dipendente - Ai sensi dell'art. 55-quater, comma 3-ter il «dipendente è convocato, per il contraddittorio a sua difesa, con un preavviso di almeno quindici giorni e può farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell'associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato». Se alla sospensione, e alla contestuale contestazione, disciplinare ha provveduto il responsabile di struttura questi dovrà, sempre con il medesimo atto, convocare il dipendente non dinanzi a sé, bensì dinanzi all'UPD deputato all'audizione (art. 55-quater, comma 3-bis). È da ritenersi - anche se la norma sorprendentemente non lo prevede - che il responsabile di struttura procedente debba (in analogia con quanto previsto dall'art. 55-bis, comma 3), anche trasmettere degli atti all'UPD competente per l'audizione. Non è chiaro, tuttavia, in che modo e in che termini ciò debba avvenire, la cosa più ragionevole è pensare che avvenga in concomitanza con l'atto di sospensione/contestazione. È previsto altresì che «fino alla data dell'audizione, il dipendente convocato può inviare una memoria scritta o, in caso di grave, oggettivo e assoluto impedimento, formulare motivata istanza di rinvio del termine per l'esercizio della sua difesa per un periodo non superiore a cinque giorni» (dell'art. 55-quater, comma 3-ter). Tuttavia, «il differimento del termine a difesa del dipendente può essere disposto solo una volta nel corso del procedimento» e a differenza di quanto previsto in via generale (art. 55-bis, commi 2 e 4) non comporta mai - evidentemente per esigenze di celerità e al fine di evitare atteggiamenti dilatori - una corrispondente sospensione dei termini di conclusione del procedimento. Sia il termine a difesa (15 anziché 20 giorni) che il periodo di rinvio (non più di 5 giorni, in luogo di un possibile termine di più di 20 giorni) sono più brevi di quelli previsti in generale dall'art. 55-bis, commi 2 e 4.
La violazione dei termini del procedimento disciplinare - Come per la sospensione cautelare, viene precisato che «la violazione dei suddetti termini, fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare né l'invalidità della sanzione irrogata» (art. 55-quater, comma 3-ter). I termini del procedimento disciplinare, dunque, in questo caso, da perentori e inderogabili (art. 55-bis, comma 2) divengono ordinatori. Tuttavia, a salvaguardia delle esigenze di certezza del diritto e dei fondamentali principi di immediatezza o tempestività (su cui Cass. 28 dicembre 2012, n. 24009 e Cass. 3 marzo 2010, n. 5115), viene opportunamente stabilito che la violazione dei termini procedimentali non conduce alla decadenza dall'azione disciplinare né all'invalidità della sanzione irrogata esclusivamente nel caso in cui «non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente» e, in ogni caso, «non sia superato il termine per la conclusione del procedimento di cui all'art. 55-bis, comma 4» (ossia 120 giorni).
L'art. 55-quater, comma 3-quater stabilisce, infine, che il dipendente sanzionato per falsa attestazione della presenza venga altresì denunciato penalmente e segnalato alla Corte entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare. La Procura della Corte dei conti può agire anche per il danno d'immagine eventualmente procurato alla P.A., nella valutazione equitativa del quale si terrà conto anche della rilevanza che il fatto ha avuto nei mezzi di informazione. Va ricordato che - a prescindere dall'imputazione di altri reati - il dipendente risponde del reato previsto dall'art. 55-quinquies, ove peraltro era già disciplinata una contestuale responsabilità per danno patrimoniale e all'immagine (commi 1 e 2). Ai sensi dell'art. 55-quater, comma 3-quinquies, per i dirigenti che abbiano acquisito conoscenza del fatto (ovvero per i responsabili di servizio competenti) sia l'«omessa attivazione del procedimento disciplinare» sia l'«omessa adozione del provvedimento di sospensione cautelare, «senza giustificato motivo», costituiscono, a loro volta, «illecito disciplinare punibile con il licenziamento», oltre alla comunicazione all'autorità giudiziaria finalizzata ad individuare la sussistenza di eventuali reati. A differenza di quanto stabilito nell'art. 55-sexies, comma 3 - nel quale si utilizza una formula più comprensiva in quanto rivolta anche a «valutazioni sull'insussistenza dell'illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate» - la mancata attivazione del procedimento è punita in maniera più grave giacché non si applica la sospensione dal servizio bensì il licenziamento. Tuttavia, l'art. 55-quater, comma 3-quinquies, non chiarisce se tale ipotesi di licenziamento debba reputarsi per giusta causa, senza preavviso, o per giustificato motivo soggettivo, con preavviso. Sia argomenti di ordine letterale (visto che le ipotesi di giusta causa vengono indicate espressamente nel comma 3) sia una logica di favor nei confronti del dipendente conducono a prediligere la seconda ipotesi.
In conclusione
L'intervento operato dal d.lsg. n. 116/2016 si muove in continuità con le linee che caratterizzavano già la Riforma Brunetta (su cui H. Bonura, G. Caruso), rafforzandone (o esasperandone) alcuni tratti. Una continuità che si evidenzia sia con riguardo al tentativo di ulteriore specificazione delle causali di licenziamento sia in ordine all'accelerazione impressa al procedimento disciplinare, ora scandito da una tempistica serratissima rispetto al procedimento “ordinario”. Circostanza, quest'ultima, che pone, tuttavia, qualche dubbio sulla ragionevolezza di tale netta differenziazione di regimi procedurali. Come emerso dall'analisi sin qui condotta, tuttavia, non sempre le soluzioni tecniche adottate (law in the code) rispondono pienamente all'esigenza di rigore che voleva imprimere il legislatore e restano dubbi ermeneutici che potranno avere riflessi negativi sull'applicazione concreta della disciplina (law in action). Infine, sia consentito un brevissimo cenno al regime sanzionatorio collegato al licenziamento disciplinare illegittimo. Attesa l'inoperatività nel settore pubblico del contratto a tutele crescenti (S. Mainardi), da tempo, si è aperto un dibattito (da ultimo C.Cester) circa l'applicabilità o meno dell'art. 18 Stat. Lav. come modificato dalla legge Fornero (n. 92/2012). Dibattito che ruota intorno a due ceppi normativi: il rinvio mobile dell'art. 51, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, da un lato, e le speciali previsioni dell'art. 1, commi 7 e 8, legge n. 92/2012, dall'altro. La Cassazione - che inizialmente aveva sposato la tesi dell'applicabilità (Cass. 26 novembre 2015, n. 24157) - è recentemente tornata sui suoi passi, ritendo che al pubblico impiego continui ad applicarsi l'art. 18 ante Fornero (Cass. 9 giugno 2016, n. 11868). Ai dubbi sul piano sostanziale, fa riscontro, sul piano processuale, l'ormai consolidata opinione circa la piena applicabilità del c.d. rito Fornero anche al pubblico impiego (Trib. Roma 23 gennaio 2013).
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