Inefficacia del licenziamento per vizio di motivazione e sanzioni
16 Novembre 2016
Massima
Il licenziamento intimato senza l'indicazione dei motivi che lo hanno determinato, in violazione dell'art. 2, co. 2, L. n. 604/66, come novellato dall'art. 1, co. 37, L. n. 92/ 2012, è inefficace.
L'inefficacia del licenziamento, nelle aziende che occupano fino a 15 dipendenti, non comporta l'obbligo di reintegrazione e di risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso fino a quella dell'effettiva reintegra, ma solo la corresponsione di un importo compreso tra 2, 5 e 6 mensilità, in applicazione di quanto previsto dall'art. 8 L. n. 604/66. Il caso
Con sentenza del 27 ottobre 2014 la Corte d'Appello di Catanzaro rigettava il ricorso di P.G. srl avverso la sentenza di primo grado, che aveva accertato l'inefficacia del licenziamento intimato in danno di un dipendente, con ordine di riassunzione dello stesso e condanna al risarcimento del danno, in misura di 3,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, ai sensi di quanto disposto dall'art. 8 L. n. 604/66.
La Corte d'Appello motivava il rigetto ritenendo corretta la liquidazione del danno nei termini sopra indicati, in presenza di un licenziamento inefficace per assenza di motivazione nell'ambito della cd. tutela obbligatoria. Avverso la sentenza della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione la società, denunciando tra l'altro il vizio di omessa pronuncia della sentenza impugnata per non aver pronunciato in ordine alle conseguenze del licenziamento inefficace.
Nel rigettare il ricorso per insussistenza del vizio denunciato, la Corte – utilizzando un criterio di ragionevolezza volto ad evitare ingiustificate disparità di trattamento - condivide l'individuazione delle conseguenze del licenziamento inefficace per le aziende che occupino fino a 15 dipendenti non già “nell'obbligo di reintegrazione e di risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso fino a quella dell'effettiva reintegra, ma solo nella corresponsione di un importo pari a quanto previsto dall'art. 8 della stessa legge”.
Le questioni
Come è noto, l'art. 1, co. 37, L. n. 92/2012 ha novellato l'art. 2, co. 2, L. 15 luglio 1966 n. 604, prevedendo che la comunicazione del licenziamento “deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”, in tal modo generalizzando l'obbligo di contestuale motivazione del recesso.
La medesima legge prevede poi che per il licenziamento dichiarato inefficace perché privo dei motivi che lo hanno determinato sia prevista una sanzione meramente indennitaria (da 6 a 12 mensilità), salvo che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso opera la tutela reintegratoria “debole” (reintegrazione e risarcimento danni fino ad un massimo di 12 mensilità), ovvero la tutela indennitaria “forte” (risarcimento da 12 a 24 mensilità).
Il legislatore ha quindi espresso una chiara opzione nell'assegnare all'inefficacia del licenziamento per omessa comunicazione dei motivi nell'ambito della tutela reale una sanzione meramente indennitaria. Ma così facendo si è creata una evidente rottura di sistema, perché mentre nell'area della tutela reale il vizio dell'inefficacia per omessa comunicazione dei motivi comporta l'applicazione della tutela indennitaria debole, nell'area della cd. tutela obbligatoria, in assenza di specifica disciplina, dovrebbero operare i principi di diritto comune in ordine all'inefficacia del recesso, in virtù dei quali, non producendo il recesso effetti, la sanzione applicabile sarebbe quella della ricostituzione con efficacia ex tunc del rapporto di lavoro, con condanna della parte datoriale “non già alle retribuzioni, ma al risarcimento del danno, da determinarsi secondo le regole generali dell'inadempimento delle obbligazioni” (Cass. civ., sez. un., 27 luglio 1999, n. 508).
Con la conseguenza, oggettivamente irrazionale, a fronte del medesimo vizio del recesso, ovverosia di inefficacia per vizio di motivazione, di sanzioni di gran lunga più gravose per le piccole aziende, storicamente viceversa destinate a soggiacere ad un apparato sanzionatorio più leggero rispetto a quello applicabile alle aziende aventi i requisiti dimensionali di cui all'art. 18 St. Lav. Le soluzioni giuridiche
La soluzione offerta dalla Suprema Corte al fine di evitare la dissonanza, a fronte del medesimo vizio dell'inefficacia del licenziamento per omessa comunicazione dei motivi, tra l'ambito della tutela reale e quello della tutela obbligatoria, si fonda su un “criterio di ragionevolezza che eviti disparità di trattamento”.
Valorizzando, quale criterio interpretativo, quello della voluntas legis (art. 12, co. 1, ultima parte, disp. prel. c.c.), la Suprema Corte evidenzia, in via preliminare, come la riforma introdotta dalla Legge Fornero militi a favore di un chiaro depotenziamento della tutela reintegratoria in favore di quella indennitaria risarcitoria, per effetto delle modifiche intervenute nel mercato del lavoro che hanno indotto il legislatore ad effettuare determinate scelte regolative. Tale intenzione del legislatore va necessariamente coniugata con l'assetto normativo previgente, ritenuto costituzionalmente legittimo (Corte Cost., 8 gennaio 1986, n. 2) fondato su un doppio binario di tutela, diversificato tra piccole e grandi imprese, con il precipuo obiettivo di “non gravare di costi eccessivi le imprese minori”.
Sulla scorta di tali premesse, la Suprema Corte ritiene di fornire un'interpretazione “contestualizzata” della norma (art. 2, co. 2, L. n. 604/66) che la rende priva di disarmonie assiologiche, affermando che la sanzione dell'inefficacia del licenziamento nell'ambito della cd. tutela obbligatoria va ricercata nelle previsioni di cui all'art. 8 L. n. 604/66, ossia nella riassunzione del lavoratore ovvero nel pagamento in suo favore di un'indennità risarcitoria compresa tra 2,5 e 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Tale opzione interpretativa, secondo la Suprema Corte, oltre ad evitare aporie di sistema ed ingiustificate disparità di trattamento, si rivela anche costituzionalmente adeguata sotto il profilo della ragionevolezza, poiché idonea ad assicurare un trattamento non ingiustificatamente disparitario e pertanto rispettoso sia dell'art. 3 della Costituzione che del paradigma attuativo della tutela del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 Cost. Osservazioni
La sentenza in commento, sorretta da un condivisibile iter argomentativo, recepisce il dibattito dottrinale sorto all'esito dell'entrata in vigore della Legge Fornero, che aveva correttamente evidenziato la contraddittorietà di un sistema in cui, a fronte del medesimo vizio di inefficacia del licenziamento per difetto di motivazione, le piccole aziende, ricadenti nell'area della cd. tutela obbligatoria, dovessero soggiacere ad una tutela piena di diritto comune (ricostituzione del rapporto di lavoro e risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dalla data di licenziamento fino a quella di ricostituzione del rapporto di lavoro), mentre le grandi aziende, ricadenti nel capo di applicazione della tutela reale, dovessero soggiacere ad un regime sanzionatorio di natura esclusivamente indennitaria (da 6 a 12 mensilità). Con la conseguenza, oggettivamente irrazionale, che “si avrebbe una tutela praticamente reale per le sole aziende minori per il medesimo tipo di vizio per il quale, per le aziende maggiori rientranti nel campo di applicazione dell'art. 18 si applica ormai la sola tutela indennitaria da 6 a 12 mensilità” (Vallebona). Il problema nasce dal fatto che, con l'entrata in vigore della L. n. 92/2012, il legislatore ha chiaramente inteso disciplinare con una mera sanzione indennitaria il licenziamento inefficace per vizio di motivazione nelle aziende che occupino più di 15 dipendenti, mentre un'analoga previsione normativa manca con riferimento alle aziende ricadenti nell'ambito della cd. tutela obbligatoria, per le quali, in assenza di norme specifiche, in un primo momento si è ritenuto che dovesse trovare applicazione il risalente insegnamento delle Sezioni Unite, secondo cui il licenziamento inefficace per vizio di motivazione nelle aziende minori, non essendo produttivo di effetti, non inciderebbe sulla continuità del rapporto di lavoro, con conseguente condanna della parte datoriale al risarcimento del danno secondo la disciplina di diritto comune.
La prima giurisprudenza di merito espressasi sul punto all'esito dell'entrata in vigore della Legge Fornero ha escluso che le innovazioni introdotte da detta legge potessero modificare tale assetto interpretativo, avendo “la L. n. 92/2012 dettato un particolare regime sanzionatorio esclusivamente correlato ai rapporti assistiti dalla tutela reale”, con la conseguenza che “nella altre ipotesi in cui tale requisito non ricorre, la particolare disciplina prevista dalla novella non può evidentemente trovare, in difetto di espressa previsione legislativa, alcuna applicazione, dovendosi invece far riferimento al regime generale relativo al licenziamento inefficace”, escludendosi, quindi, l'applicazione della disciplina sanzionatoria di cui all'art. 8 L. n. 604/66 viceversa dettata “per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo” (Tribunale Roma, 18 settembre 2014). Tale soluzione, pur corretta nella sostanza, pare tuttavia rispondere ad un quesito mal posto: non si tratta, infatti, di applicare tout court la disciplina sanzionatoria in tema di licenziamento inefficace dettata dalla L. n. 92/2012 alle aziende non aventi i requisiti dimensionali previsti dall'art. 18, bensì, viceversa, di reinterpretare la disciplina sanzionatoria del licenziamento inefficace nell'ambito della cd. tutela obbligatoria alla luce dell'entrata in vigore della riforma, consapevoli peraltro del fatto che valutazioni e scelte discrezionali di politica legislativa, rivenienti da determinate condizioni economico – sociali, possono anche mutare nel tempo, modificando la disciplina previgente, la cui adeguatezza va valutata alla luce dei principi costituzionali (Corte Cost., 8 luglio 1975, n. 189). Di diverso avviso, correttamente, la dottrina, che ha evidenziato l'evidente vulnus venutosi a creare nel sistema, definito “schizofrenico” (Cester) dal momento che lo stesso vizio del recesso avrebbe prodotto maggiori oneri per le aziende minori in termini di ricostituzione del rapporto con efficacia ex tunc e risarcimento del danno, gravando viceversa su quelle di maggiori dimensioni unicamente una sanzione indennitaria, con conseguenti problemi di costituzionalità della norma.
Conseguenza peraltro inevitabile ove si consideri la forzatura concettuale contenuta nelle disposizioni con le quali si è assegnata ad un atto risolutivo inefficace, per sua natura inidoneo a produrre effetti, efficacia estintiva del rapporto di lavoro. Al netto delle contraddizioni insite in tale opzione legislativa, occorreva comunque adeguare l'insegnamento delle Sezioni Unite al mutato contesto normativo, in cui la voluntas legis è chiara nel depotenziare i vizi formali e procedurali del licenziamento, con conseguente applicazione di una sanzione meno gravosa. Peraltro, la scelta del legislatore di sanzionare con una tutela meramente indennitaria i licenziamenti privi di motivazione ha trovato ulteriore conferma con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015 in tema di contratto a tutele crescenti, con il quale si prevede che nelle ipotesi di licenziamenti affetti da vizi formali ovvero procedurali (perché privi di motivazione, o perché non rispettosi delle previsioni di cui all'art. 7 L. n. 300/70) il giudice: a) per le imprese assistite da stabilità reale dichiara risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra 2 e 12 mensilità, in misura crescente per ogni anno di servizio (art. 4) b) per le imprese che non raggiungano i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, l'ammontare di dette indennità è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite delle sei mensilità.
E' sintomatico, peraltro, che nel D.Lgs. n. 23/2015 non si faccia alcun riferimento al vizio dell'inefficacia del licenziamento, limitandosi gli artt. 4 e 9 del decreto a disciplinare le conseguenze derivanti dai vizi formali e procedurali del recesso, senza alcun riferimento al all'inefficacia dell'atto che, civilisticamente interpretata, lo renderebbe improduttivo di effetti. Alla luce del mutato quadro normativo, le conclusioni cui perviene la Suprema Corte con la sentenza in commento, tese ad un riallineamento della disciplina sanzionatoria in materia di licenziamento inefficace per vizio di motivazione, appaiono assolutamente condivisibili, atteso che l'interpretazione costituzionalmente orientata del nuovo testo dell'art. 2 L. n. 604/1966 sembra riequilibrare la frattura di sistema venutasi a creare con l'entrata in vigore della L. n. 92/2012. La Suprema Corte tenta quindi di ricondurre ad unità il sistema, mediante un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma che valorizza la ragionevolezza di un apparato sanzionatorio che diversifica la gravosità della sanzione nelle ipotesi di licenziamento inefficace per carenza di motivazione a seconda del requisito dimensionale dell'azienda, costituendo quest'ultimo storicamente un criterio ritenuto idoneo a giustificare la diversificazione delle tutele. A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all'art. 18, in Ridl, 2012, I, 415 e ss. A. Vallebona, Jobs Act e licenziamento, 2015, 41 e ss. C. Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in ADL, 2012, 547 e ss. B. De Mozzi, I vizi formali e procedurali del licenziamento, in ADAPT,2015, 134 e ss. |