Licenziamenti collettivi: nozione di stabilimento e computo dei rapporti a termine cessati alla scadenza

16 Ottobre 2015

Il giudice spagnolo remittente ha chiesto alla Corte di Giustizia se risulti conforme la normativa spagnola la quale riferisce l'ambito del calcolo della soglia numerica dei licenziamenti all'intera impresa e non già al singolo stabilimento e se ai fini del calcolo del numero di licenziamenti computabili al fine di determinare se ricorra un caso di licenziamento collettivo si debbano comprendere anche le cessazioni dei rapporti per scadenza del contratto a tempo determinato.
Massime

Stabilmento

L'art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che introduca come sola unità di riferimento l'impresa e non lo stabilimento, qualora l'applicazione di tale criterio abbia la conseguenza di ostacolare la procedura di informazione e di consultazione prevista dagli articoli da 2 a 4 della medesima direttiva, mentre se si utilizzasse come unità di riferimento lo stabilimento, i licenziamenti di cui trattasi dovrebbero essere qualificati come collettivi alla luce della definizione di cui all'art. 1, paragrafo 1, primo comma lettera a), della stessa direttiva.

Contratto a tempo determinato

L'articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 98/59 deve essere interpretato nel senso che, per verificare se siano stati effettuati licenziamenti collettivi ai sensi di detta disposizione, non si deve tenere conto delle cessazioni individuali di contratti di lavoro stipulati a tempo determinato o per un compito determinato, nel caso in cui tali cessazioni avvengano alla data di scadenza del contratto di lavoro o alla data di espletamento di tale compito

Il caso

La pronuncia della Corte di Giustizia è stata pronunciata a seguito di rinvio proposto da un giudice spagnolo relativamente ad una controversia avente ad oggetto un licenziamento individuale di un lavoratore per motivi economici, licenziamento che si afferma illegittimo sul presupposto che il datore di lavoro avrebbe dovuto attivare la procedura di licenziamento collettivo.

Il procedimento davanti al giudice spagnolo ha riguardato il licenziamento di un dipendente di una società avente due stabilimenti, uno a Madrid e uno a Barcellona, sedi che occupavano rispettivamente 164 e 20 addetti. Contestualmente al licenziamento del lavoratore, addetto allo stabilimento di Barcellona, l'impresa datrice di lavoro aveva licenziato, per la medesima ragione collegata al calo del fatturato, altri 11 dipendenti, non applicando la normativa sul licenziamento collettivo, non essendo stata raggiunta la percentuale del 10% dei dipendenti dell'intera impresa. Nello stesso periodo di tempo erano cessati anche alcuni rapporti di lavoro stipulati a tempo determinato per scadenza del termine.

Secondo la legislazione spagnola per licenziamento collettivo si intende la cessazione dei contratti di lavoro dovuta a cause economiche, tecniche, organizzative o legate alla produzione qualora nell'arco di novanta giorni tale cessazione riguardi almeno 10 lavoratori in imprese che ne occupino meno di 100 ovvero il 10% di lavoratori in imprese che ne occupano tra 100 e 300 ovvero 30 lavoratori in imprese che ne occupano oltre 300.

Le questioni

La direttiva 98/59 in materia di licenziamenti collettivi dispone che si debba fare ricorso alla procedura di informazione e consultazione in presenza di un numero di licenziamenti intimati per motivi non inerenti la persona del lavoratore che in un arco temporale di 30 giorni risulti pari a 10 negli stabilimenti che occupano più di 20 e meno di 100 lavoratori, pari al 10% del numero dei lavoratori occupati negli stabilimenti con almeno 100 lavoratori fino a 300 e pari a 30 negli stabilimenti che occupino più di 300 lavoratori oppure che in un arco temporale di 90 giorni risulti pari a 20 indipendentemente dal numero dei lavoratori occupati negli stabilimenti interessati (art. 1, comma 1).

Come si può agevolmente riscontrate dal confronto tra la normativa comunitaria e quella spagnola, l'ambito spaziale in cui si deve verificare il numero dei licenziamenti ai fini dell'applicazione della procedura di licenziamento collettivo è per la prima lo stabilimento, per la seconda l'intera impresa.




Il giudice spagnolo remittente ha allora chiesto alla Corte di Giustizia:
- se risulti conforme la normativa spagnola la quale riferisce l'ambito del calcolo della soglia numerica dei licenziamenti all'intera impresa e non già al singolo stabilimento;

- se ai fini del calcolo del numero di licenziamenti computabili al fine di determinare se ricorra un caso di licenziamento collettivo si debbano comprendere anche le cessazioni dei rapporti per scadenza del contratto a tempo determinato.

Le soluzioni giuridiche

In relazione alla prima delle due questioni affrontate, la Corte di Giustizia ha operato una ricognizione del concetto di stabilimento. Premesso che il rapporto di lavoro è essenzialmente caratterizzato dal vincolo esistente tra il lavoratore e la parte dell'impresa cui esso è addetto per svolgere il suo compito, la nozione di «stabilimento» che figura nell'articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della direttiva 98/59 designa, secondo le circostanze, l'unità alla quale i lavoratori colpiti da licenziamento sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni. Il fatto che l'unità di cui trattasi disponga di una direzione che possa effettuare licenziamenti collettivi in modo autonomo non è essenziale per la definizione della nozione di «stabilimento» (della sentenza Rockfon C‑449/93, punto 32).

Ai fini dell'applicazione della direttiva 98/59, può segnatamente costituire uno «stabilimento», nell'ambito di un'impresa, un'entità distinta, che presenta caratteristiche di permanenza e stabilità, che è destinata ad effettuare una o più operazioni determinate e che dispone di un insieme di lavoratori nonché di strumenti tecnici e di una determinata struttura organizzativa che permette il compimento di tali operazioni (sentenza Athinaïki Chartopoiïa C‑270/05 punto 27). Pertanto, secondo la direttiva le nozioni di «impresa» e di «stabilimento» sono diverse e lo stabilimento costituisce di regola una parte di un'impresa. Tuttavia, ciò non esclude che, qualora l'impresa non disponga di varie unità distinte, lo stabilimento e l'impresa possano coincidere. Peraltro, la Corte ha affermato che, in considerazione del fatto che lo scopo della direttiva 98/59 attiene agli effetti socioeconomici che i licenziamenti collettivi potrebbero provocare in un contesto locale e in un ambiente sociale determinati, l'entità in questione non deve necessariamente essere dotata di una qualsivoglia autonomia giuridica e neppure di un'autonomia economica, finanziaria, amministrativa o tecnologica per poter essere qualificata come «stabilimento».

Di conseguenza, la direttiva europea ha chiaramente inteso collegare l'ambito all'interno del quale verificare la sussistenza del requisito numerico dei licenziamenti, qualora l'impresa sia suddivisa in più entità che soddisfano i criteri sopra precisati, allo stabilimento cui siano addetti i lavoratori interessati alla procedura.


Chiarito il concetto di stabilimento e precisato che la direttiva fa riferimento ad esso nell'individuazione dell'ambito territoriale per valutare la sussistenza di un numero di licenziamenti che renda necessario il ricorso alla procedura di informazione e consultazione sindacale, l'utilizzo da parte del legislatore nazionale del riferimento all'intera impresa non si pone automaticamente in contrasto con la direttiva medesima.

Infatti, la Corte dichiara che una normativa nazionale che introduce, come sola unità di riferimento, l'impresa - e non lo stabilimento - viola la direttiva, qualora l'applicazione di tale criterio abbia la conseguenza di ostacolare la procedura di informazione e di consultazione prevista nella direttiva, mentre, se come unità di riferimento fosse stato utilizzato lo stabilimento, i licenziamenti avrebbero dovuto essere qualificati come «licenziamento collettivo». La sostituzione della nozione di «stabilimento» con quella di «impresa» può pertanto essere considerata favorevole ai lavoratori solo a condizione che tale elemento sia aggiuntivo e non comporti un abbandono o una riduzione della tutela che sarebbe stata concessa ai lavoratori se il numero di licenziamenti richiesto dalla direttiva ai fini della qualificazione come «licenziamento collettivo» fosse stato raggiunto utilizzando la nozione di stabilimento.

La soluzione relativa alla seconda delle questioni proposte, circa la possibilità di calcolare nel numero dei licenziamenti anche i rapporti di lavoro a tempo determinato cessati per scadenza del termine, la si rinviene nella direttiva medesima: il secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59 prevede che la stessa non si applica ai licenziamenti collettivi effettuati nel quadro di contratti di lavoro a tempo determinato o per un compito determinato, a meno che tali licenziamenti non avvengano prima della scadenza del termine o dell'espletamento del compito previsto dai suddetti contratti.


Afferma, allora, la Corte di Giustizia che detta esclusione dall'ambito di applicazione della direttiva 98/59 delle cessazioni individuali di contratti conclusi per una durata o un compito determinati risulta chiaramente dal testo e dalla struttura di tale direttiva. Infatti, contratti del genere non cessano su iniziativa del datore di lavoro, bensì in forza delle clausole ivi contenute o della legge applicabile, alla loro data di scadenza o alla data in cui il compito per il quale essi sono stati stipulati è stato espletato. Pertanto, sarebbe inutile seguire le procedure previste agli articoli da 2 a 4 della direttiva 98/59. In particolare, l'obiettivo di evitare o ridurre i licenziamenti e di attenuarne le conseguenze non potrebbe in alcun modo essere raggiunto per quanto riguarda i licenziamenti risultanti da dette cessazioni di contratti.

Osservazioni

Per quanto riguarda le questioni trattate nella sentenza della Corte di Giustizia in commento, si deve evidenziare che la normativa italiana risulta in linea con la direttiva europea. Infatti, l'art. 24, primo comma, della legge n. 223 del 1991 ha previsto che la procedura di licenziamento collettivo deve trovare applicazione per le imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia.

La norma, pertanto, combina tra loro una pluralità di criteri: da un lato si fa riferimento alle imprese che nel loro complesso occupino più di quindici dipendenti, con un ambito spaziale che certamente è più favorevole di quanto sarebbe il riferimento ad ogni singola unità produttiva (che è il criterio utilizzato ai fini dell'applicazione della tutela verso i licenziamenti di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970), dall'altro tali aziende devono avere l'intenzione di licenziare almeno cinque dipendenti in ciascuna unità produttiva, ovvero in più unità produttive qualora collocate nell'ambito della stessa provincia.

In tal caso, però, ciascun riferimento ad un ambito maggiore rispetto alla singola unità produttiva non solo non è idoneo ad ostacolare l'applicazione della normativa sui licenziamenti collettivi, ma lo facilita: se infatti, il legislatore avesse fatto riferimento al singolo stabilimento al fine di calcolare la soglia numerica (quindici dipendenti) in luogo dell'intera impresa avrebbe reso più complesso il raggiungimento del requisito; allo stesso modo il riferimento del numero dei cinque licenziamenti ad una pluralità di unità produttive collocate all'interno della stessa provincia facilita il raggiungimento del limite numerico.

Sulla seconda delle questioni trattate, l' art. 24, comma 4, della legge n. 223 del 1991, nello stabilire le ipotesi in cui, pur sussistendone i requisiti, il datore di lavoro non deve applicare la disciplina dei licenziamenti collettivi fa espresso riferimento alla “scadenza dei rapporti di lavoro a termine”. La norma esclude il ricorso ai licenziamenti collettivi solo relativamente alla ‘scadenza dei contratti a termine', con la conseguenza che la procedura debba essere attivata in presenza di una risoluzione ante tempus dei rapporti.

Questa disposizione corrisponde alla previsione della direttiva comunitaria (75/129/CEE, sul punto riprodotta dalla direttiva 98/59/CE) secondo la quale la direttiva non si applica nel quadro di contratti a tempo determinato, a meno che tali licenziamenti non avvengano prima della scadenza del termine.

Peraltro, in base alla normativa italiana, la cessazione del rapporto di lavoro per scadenza del contratto a termine non può essere assimilata ad una ipotesi di licenziamento, per cui in ogni caso sarebbe sottratta dall'applicazione della disciplina (Cass. 17 marzo 2014, n. 6100).

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