Cass.civ., sez. lavoro, 26 novembre 2014, n. 25158
Fatale la prolungata assenza del dipendente, il quale ha pensato bene di non contattare il proprio datore di lavoro. A prescindere dalla normativa contrattuale, è evidente la gravità della condotta del lavoratore, e la conseguente rottura del rapporto fiduciario con l'azienda. Come a scuola: assente ingiustificato. Ma – piccolo particolare, non secondario – il contesto è aziendale, non quello di una classe, e ad aver preferito rimanere a casa – per almeno tre giorni – è il lavoratore, peraltro senza nessuna comunicazione ai vertici della ditta.
Tutto ciò legittima la scelta tranchant compiuta dal datore di lavoro: dipendente licenziato (Cassazione, sentenza n. 25158, sez. Lavoro, depositata oggi).
A casa. Chiaro il quadro tracciato dai vertici dell'azienda – operativa nel settore dell'abbigliamento di qualità –: al dipendente viene addebitata una «assenza ingiustificata protrattasi per oltre tre giorni», e tale condotta ha portato al «licenziamento per giusta causa».
Provvedimento eccessivo, quello del datore di lavoro? Assolutamente no, chiariscono i giudici di merito, i quali ritengono corretta la scelta compiuta dall'azienda.
Così, per il lavoratore, ultima strada percorribile è quella della Cassazione... E di fronte ai giudici di terzo grado egli pone in evidenza un fatto importante, a suo dire: «al momento del licenziamento non si era verificata la fattispecie indicata nella lettera di addebito», cioè un'«assenza ingiustificata superiore ai tre giorni», poiché «al momento della contestazione, l'assenza, poi effettivamente protrattasi per oltre tre giorni, durava solo da tre giorni».
Tale ricostruzione, però, non modifica di un millimetro la posizione del lavoratore, il quale, per giunta, non ha neanche «prodotto la lettera di contestazione, quella di licenziamento né il contratto collettivo».
Ma, comunque, chiariscono i giudici, legittimamente in Appello si è ritenuto che «la clausola contrattuale collettiva avesse carattere esemplificativo e non tassativo». Anche perché, viene aggiunto, «la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo», e, quindi, «il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile», ove «tale inadempimento o tale comportamento abbia fatto venir meno il rapporto fiduciario» rispetto all'azienda.
Ebbene, in questa vicenda, contratto a parte, emerge che «il lavoratore non solo rimase assente per tre giorni, senza avvertire l'azienda, ma protrasse tale assenza ulteriormente, senza fornire alcuna giustificazione»: evidente la «grave violazione», da parte del dipendente, dei suoi «obblighi di diligenza». E proprio questo dato, concludono i giudici, rende comprensibile il «licenziamento» adottato dall'azienda.