Nullità del termine del contratto di lavoro, reintegro presso altra sede e tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori: l'assistenza del familiare disabile

16 Marzo 2016

Può il datore di lavoro, in esecuzione della sentenza di merito che abbia dichiarato la nullità del termine, ottemperare alla stessa disponendo il trasferimento del dipendente che assista un familiare disabile in una sede distante centinaia di chilometri da quella originaria?
Massima

È illegittimo il provvedimento di assegnazione ad altra sede

della lavoratrice che assiste un familiare disabile adottato – in ottemperanza all'ordine giudiziale di riammissione in servizio a seguito di accertamento della nullità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro – in violazione delle garanzie che disciplinano, in generale, il trasferimento del lavoratore

ai sensi dell'

art. 2103 cod. civ.

nonché delle fondamentali regole di correttezza e buona fede contrattuale ed altresì in contrasto con la normativa che tutela le persone con disabilità,

con conseguente illegittimità del licenziamento intimato a seguito del rifiuto di prendere servizio presso la nuova sede

.

Il caso

Una lavoratrice, a seguito della declaratoria di nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro, veniva assegnata – in ragione dell'avvenuta chiusura dell'unità produttiva presso la quale aveva originariamente prestato la propria attività lavorativa – ad una sede diversa, situata a 800 chilometri di distanza dalla sede di prima assegnazione nonché dal luogo di residenza proprio e dei familiari, tra cui la madre invalida al 100% e bisognevole di cure. Ritenendo tale provvedimento illegittimo, la lavoratrice ne aveva rifiutato l'esecuzione, offrendo nel contempo la propria prestazione lavorativa presso la originaria sede di lavoro (comprensiva sia del Comune sia della Provincia), e a causa di tale rifiuto era stata licenziata per giustificato motivo soggettivo.

La sentenza di primo grado ha ritenuto illegittimo il disposto trasferimento, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato a seguito del rifiuto di prendere servizio presso la nuova sede.

Nel secondo grado di giudizio, viceversa, la Corte d'Appello di Palermo, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava legittimo sia il trasferimento sia il susseguente licenziamento. Non essendo possibile il ripristino del rapporto di lavoro alle condizioni preesistenti, in ragione della soppressione dell'ufficio di precedente adibizione, si è riconosciuta portata dirimente alle regolamentazioni collettive intervenute in materia, ed in special modo all'accordo sindacale del 28 dicembre 2005, relativo alla ricollocazione del personale "in servizio" presso il soppresso ufficio alla data dell'accordo stesso, e del successivo

accordo sindacale del 21 marzo 2007

sulla regolamentazione degli effetti delle riammissioni in servizio ope judicis dei lavoratori assunti presso l'ufficio soppresso, intervenute dopo la relativa chiusura.

La Suprema Corte pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio, con decisione della causa nel merito, confermando la sentenza di primo grado, dichiarativa della illegittimità del licenziamento intimato per assenza dal servizio, ritenendo il disposto trasferimento privo di sufficiente giustificazione nonché lesivo del diritto all'assistenza del familiare disabile.

Le questioni

La Corte di cassazione, pur affrontando il tema del licenziamento per assenza dal servizio dovuto all'avere la lavoratrice rifiutato il trasferimento, è in realtà fondamentalmente chiamata a valutare l'esercizio da parte del datore di lavoro, in sede di riammissione in servizio effettuata a seguito di declaratoria di illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, dello ius variandi mediante l'assegnazione ad una sede diversa da quella originaria: ciò con particolare riferimento all'ipotesi in cui il lavoratore reintegrando assista un familiare disabile.

Può il datore di lavoro, in esecuzione della sentenza di merito che abbia dichiarato la nullità del termine, ottemperare alla stessa disponendo il trasferimento del dipendente che assista un familiare disabile in una sede distante centinaia di chilometri da quella originaria?

Le soluzioni giuridiche

La motivazione della sentenza in commento è praticamente identica a quella di

Cass. 14 luglio 2014, n. 16087

(in Dir. rel. ind., 2015, 497, con nota di Azzoni) – anch'essa originata dal contenzioso sui contratti a termine nulli delle Poste italiane ed accomunata dalla identità della fattispecie oggetto del giudizio –, alla quale la S.C. intende dare continuità: tranne per l'aggiunta della parte della motivazione relativa all'assistenza del familiare disabile.

Circa la prima questione, la giurisprudenza di legittimità ha affrontato in più occasioni la problematica della reintegrazione, dopo la declaratoria di nullità dell'apposizione del termine, in una sede diversa da quella assegnata in origine, ribadendo, con orientamento ormai del tutto consolidato e richiamato nella pronuncia in esame, il principio-cardine per cui la nullità del termine porta alla riammissione nel vecchio posto di lavoro, atteso che il rapporto viziato dal termine illegittimo deve ritenersi mai cessato e che la continuità dello stesso implica che la prestazione debba persistere nella medesima sede. Il trasferimento può aver corso nel rispetto dell'

art. 2103 c.c.

, e quindi del principio della necessaria giustificazione delle ragioni aziendali «in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione di un'eccezione di inadempimento ai sensi dell'

art. 1460 cod. civ.

, sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti (

Cass. 9 agosto 2013, n. 19095

;

Cass. 16 maggio 2013, n. 11927

;

Cass. 23 novembre 2010, n. 23677

;

Cass. 30 dicembre 2009, n. 27844

nello stesso senso,

Cass. 2 ottobre 2002, n. 14142

)».

Nella sentenza in commento, la Corte sottolinea a più riprese la particolarità delle riammissioni in servizio ope judicis dei lavoratori rispetto all'ordinario trasferimento, che rende meritevole di protezione rafforzata l'interesse dei lavoratori alla immodificabilità del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, dovendosi restituire agli stessi il posto di lavoro precedentemente occupato. In questi casi, la gestione del loro rapporto incontra l'ulteriore limite rappresentato dall'esistenza del diritto a lavorare nel luogo e nelle mansioni originarie. Devono pertanto esistere, ed il datore di lavoro deve darne analiticamente la prova, esigenze aziendali tali da giustificare il mutamento di sede, e quindi tali da escludere che lo ius variandi sia diretto ad eludere l'ottemperanza dell'ordine giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro.

Ciò obbliga il datore di lavoro a comprovare e motivare, come detto nella pronuncia in esame, «le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive poste a giustificazione del provvedimento di cui si tratta, che rappresenta una eccezione rispetto alla regola del ripristino della originaria posizione di lavoro del dipendente reintegrato». Questo a prescindere da qualsiasi richiesta in tal senso da parte del lavoratore, non applicandosi al dipendente reintegrato «il regime generale in base al quale il provvedimento di trasferimento, in quanto tale, non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda (

Cass. 17 maggio 2010, n. 11984

;

Cass. 9 agosto 2013, n. 19095

)».

La violazione di tale obbligo di motivazione comporta la nullità del trasferimento e legittima il comportamento di autotutela del lavoratore consistente nel rifiuto di prendere servizio presso la nuova sede (

Cass. 10 giugno 2014, n. 13060

).

La seconda questione è quella della situazione familiare della lavoratrice, che – come risultante dal certificato dello stato di famiglia – assisteva la madre invalida al 100%, ancorché non godesse dei benefici di cui all'

art. 33, 5

°

comma, della l. 5 febbraio 1992, n. 104

(Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), non richiesti e non spettanti nella specie, essendo il rapporto formalmente sorto come contratto a termine di tre mesi poi dichiarato nullo a distanza di anni.

In linea generale, si tratta di esigenze personali diverse ed addirittura alternative alle esigenze aziendali, la cui mancata considerazione – sovente prevista dalla contrattazione collettiva e comunque doverosa alla luce dei principi di buona fede e correttezza contrattuale – vizia anch'essa lo ius variandi.

Nel caso della disabilità, venuto all'attenzione della Corte nella sentenza in commento, sono ragioni e motivazioni ancora più complesse della cura dei figli piccoli (affrontata dal medesimo estensore nella identica controversia decisa con la citata sentenza n. 16087 del 2014), che rendono vieppiù censurabile la circostanza che la società datrice di lavoro non «abbia fornito, sebbene richiesta, adeguata motivazione in merito alla mancata considerazione della situazione familiare della lavoratrice». Tra i numerosi motivi di impugnazione avverso la sentenza di appello, era stata dedotta la violazione dell'art. 53 del CCNL Poste dell'11 luglio 2003, che impone di tenere conto delle "condizioni personali e familiari del lavoratore interessato" nel disporre il trasferimento nonché dell'art. 37 che dà diritto ad un preavviso di sessanta giorni per il trasferimento stesso, sul presupposto della ritenuta applicabilità delle anzidette previsioni collettive anche ai contrattisti a termine reintegrati.

A questa conclusione, raggiunta alla luce delle risultante probatorie e sufficiente a rendere illegittimo il trasferimento alla nuova sede per «patente violazione delle norme che lo disciplinano e delle regole di correttezza e buona fede», come deciso nella sentenza gemella n. 16087 del 2014, la S.C. aggiunge peraltro ulteriori ed estese considerazioni (punti 6, 7 e 8 della motivazione) che allargano il tema della decisione alla questione della violazione del diritti fondamentali dei lavoratori e, più precisamente, del diritto del disabile a ricevere l'assistenza dal familiare lavoratore.

Su questo versante la motivazione della sentenza si segnala per il riferimento ai nuovi provvedimenti che hanno arricchito ancora di più lo statuto protettivo concesso ai lavoratori che assistono familiari disabili, rispetto al complesso di tutele offerto dalla

legge n. 104 del 1992

.

È sufficiente qui segnalare il mutamento del quadro normativo sovranazionale dovuto all'art. 26 della Carta di Nizza e specialmente alla Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con

legge 3 marzo 2009, n. 18

; il progressivo assestamento della

direttiva n. 2000/78/Ce

, sulle discriminazioni per ragioni di handicap, nel senso che essa comprende la disabilità del figlio del lavoratore non disabile (

Corte giust. Ce, 17 luglio 2008, causa n. C-303/06

); la condanna per inadempimento del nostro Paese per scorretta trasposizione della citata direttiva (

Corte giust. Ue, 4 luglio 2013, causa n. C-312/11

) cui ha fatto seguito la esplicita consacrazione legislativa dell'obbligo, per tutti i datori di lavoro pubblici e privati, di adottare "accomodamenti ragionevoli" nei luoghi di lavoro come definiti dalla citata Convenzione Onu (

art. 3, comma 3-bis, d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216

).

Si tratta di una prospettiva ulteriore, e ancora più avanzata, rispetto all'interpretazione costituzionalmente orientata della citata

legge n.

104 del 1992

indicata da

Cass. 7 giugno 2012, n. 9201

, che ha riconosciuto il beneficio della inamovibilità senza il proprio consenso al lavoratore che assista un familiare affetto da disabilità non grave, salva la prova di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte. La decisione in commento afferma che l'assistenza prestata ad un familiare disabile è meritevole di tutela, e si deve considerare garantita, anche al di fuori dei benefici riconosciuti dall'

art. 33, comma 5 della legge n. 104 del 1992

, in nome della tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, sviluppando in questa direzione il sistema normativo sovranazionale che può e deve proseguire fino al traguardo, ad avviso della Corte, «di una adeguata regolamentazione del contratto di lavoro dei familiari conviventi con la persona tutelata (a prescindere dalla fruizione dei benefici di cui alla

L. n. 104 del 1992

cit.)».

La rilevanza dei vincoli normativi derivanti dalle fonti sovranazionali (già valorizzata da

Cass. 6 aprile 2011, n. 7889

, ancorché con riferimento all'impiego del lavoratore disabile assunto in regime di quote riservate), si coglie con particolare evidenza nel passo della motivazione in cui la S.C. presenta il dovere di astenersi dal disporre l'impugnato trasferimento come dovere di osservanza della citata Convenzione Onu e come applicazione sia pure indiretta dell'obbligo di porre in essere gli “accomodamenti ragionevoli” dei luoghi di lavoro per tutelare le persone con disabilità.

Vi è invece appena un cenno, in motivazione, alla questione degli accordi sindacali e della loro interpretazione, su cui era fondata la sentenza di appello riformata.

La S.C. ritenuta non dimostrata la necessità di adibire la lavoratrice ad una sede diversa, non costituendo la mera soppressione del precedente ufficio motivo giustificativo sufficiente per l'assegnazione alla nuova sede, ed anzi valutando tale richiesta del tutto illegittima anche per l'incidenza sulla sfera della madre assistita, ha confermato la sentenza di primo grado: ciò «con la precisazione che l'espressione "il proprio posto di lavoro", presente nel capo del dispositivo della suddetta sentenza relativo alla reintegrazione della lavoratrice deve essere intesa riguardante il posto di lavoro determinato in coerenza con l'accordo aziendale del 28 dicembre 2005». Secondo la S.C. infatti, diversamente dalla sentenza di appello cassata, l'ambito soggettivo di operatività dell'accordo non può essere inteso come limitato ai soli lavoratori effettivamente occupati nella sede soppressa alla data della sua conclusione, ma deve essere esteso a ricomprendere tutti i lavoratori assunti in quella sede, anche in tempi remoti, da considerare giuridicamente in servizio in forza della nullità sopravvenuta del relativo contratto.

Osservazioni

La sentenza in commento offre diversi spunti di riflessione. Come dimostra la quantità dei precedenti richiamati in motivazione, essa è solo l'ultima di un contenzioso dalle dimensioni importanti sui contratti a termine stipulati anni addietro dalle Poste Italiane, che si è divaricato nei due tronconi del giudizio sulla nullità del termine (in un contesto giuridico in cui l'azione di nullità del termine non era soggetta ai rigidi termini di decadenza introdotti nel 2010 dal Collegato lavoro) e del giudizio sulla illegittimità del trasferimento per contestazione della nuova sede assegnata.

La rigorosa lettura dello ius variandi del lavoratore a termine reintegrato incide sui vincoli di coerenza normativa del sistema, che vedono un appesantimento degli oneri probatori e degli obblighi motivazionali dell'illegittimo contratto precario convertito, rispetto ad un contratto ab origine a tempo indeterminato, che più del primo si presta a fondare progetti di vita e aspettative personali e familiari del lavoratore. Da questo punto di vista, il trend legislativo di eliminazione della causale giustificativa per l'apposizione del termine sfociato nel

d.lgs.

15 giugno

2015, n. 81

(art. 19 ss.) consente di realizzare vantaggi visibili sul piano della certezza giuridica, e di evitare contenziosi dagli esiti incerti e dai tempi processuali estremamente lunghi, come quello in esame.

La nota peculiare che caratterizza la sentenza in commento rispetto alla copiosa giurisprudenza in materia, e ne fornisce la chiave di lettura, è senz'altro la questione dei diritti fondamentali dei lavoratori. È infatti qui che si concentra il suo impatto emotivo: la lesione dei diritti della persona disabile, nella loro dimensione più estesa, ossia l'integrazione sociale del disabile che ha il suo centro nella famiglia di appartenenza.

Se si guarda alla vicenda reale, anche questo non è un diritto soggettivo originario, ma un diritto derivato dalla riqualificazione giudiziale del contratto a termine in ordinario contratto a tempo indeterminato ex tunc. Più in generale, nel caso di ripristino del rapporto per illegittimità del termine accertata giudizialmente, fatti e situazioni personali (si pensi alla maternità o alla disabilità propria e dei familiari) possono essersi verificati soltanto nelle more del giudizio e dei relativi tempi processuali. Anche da questo punto di vista si lascia apprezzare la nuova normativa di semplificazione sul contratto a termine.

Ancora più ricca di prospettive e problemi è poi l'apertura della sentenza in commento alle norme sovranazionali, sotto il duplice profilo dei 'diritti' riconosciuti e tutelati da norme comunitarie e internazionali con carattere di assolutezza e di universalità e del possibile contrasto con norme interne di impronta restrittiva, quale la nostra

legge n. 104 del 1992

.

Su questo punto specifico si possono fare solo valutazione approssimative.

L'obbligo del "ragionevole adattamento" dei luoghi di lavoro per favorire le persone disabili impone specifici doveri di collaborazione al datore di lavoro, e sembra comportare un qualche aggravamento dell'onere probatorio, rispetto a quello – per restare al tema qui affrontato – che può sorreggere un trasferimento (l'assenza di posti disponibili nel luogo di esecuzione del contratto a termine illegittimo e le esigenze di integrazione dell'organico nella sede proposta in alternativa dall'azienda). Richiede al datore l'impossibilità di modificare l'organizzazione o le condizioni di lavoro date, qualora abbiano la conseguenza di privare il disabile del suo sostegno familiare.

Per quanto risulta dalle considerazioni svolte nella prima parte della motivazione dalla S.C., sono invece le regole probatorie ordinarie, e non il principio del ragionevole adattamento come tale, a rendere illegittima l'assegnazione alla nuova sede. Il tema dell'adattamento ragionevole dell'organizzazione del lavoro involge quesiti molto delicati, rispetto ai quali dottrina e giurisprudenza devono sforzarsi di dare indicazioni operative, più che proclami in generale o applicazioni indirette. È questo il modo migliore per pervenire ad una reale assimilazione culturale delle nuove frontiere della tutela delle persone con disabilità.

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