Immutabilità della contestazione disciplinare e valutazione delle precedenti condotte

Alberto De Luca
Elena Cannone
18 Novembre 2015

Il principio della immutabilità della contestazione disciplinare, corollario del principio di specificità sancito dall'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, vieta al datore di lavoro di licenziare un dipendente per motivi diversi da quelli contestati. Non è tuttavia preclusa al datore di lavoro la possibilità di considerare, nella valutazione della gravità della condotta, fatti analoghi commessi dal lavoratore, come confermativi della gravità di quelli posti a fondamento del licenziamento, anche se risalenti a più di due anni e perfino ove non contestati.
Massima

Il principio della immutabilità della contestazione disciplinare, corollario del principio di specificità sancito dall'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, vieta al datore di lavoro di licenziare un dipendente per motivi diversi da quelli contestati. Non è tuttavia preclusa al datore di lavoro la possibilità di considerare, nella valutazione della gravità della condotta, fatti analoghi commessi dal lavoratore, come confermativi della gravità di quelli posti a fondamento del licenziamento, anche se risalenti a più di due anni e perfino ove non contestati.

Il caso

La fattispecie in esame prende le mosse dal caso di un lavoratore, licenziato per aver manifestato insubordinazione in occasione del richiamo da parte del suo diretto superiore per un ritardo nel rientro al lavoro da un convegno, fatto già avvenuto in passato.

Il lavoratore conveniva in giudizio la società datrice di lavoro chiedendo che il licenziamento fosse dichiarato illegittimo e conseguentemente la reintegrazione nel posto di lavoro nonché il risarcimento dei danni ai sensi di quanto previsto dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Tra gli altri motivi di impugnazione, il lavoratore rilevava che taluni dei fatti richiamati nella lettera di licenziamento ad avvalorare la gravità della condotta, non erano stati però contestati nella lettera di avvio del procedimento disciplinare.

Il giudice di prime cure rigettava il ricorso ritenendo infondati i motivi di impugnazione. A fronte del predetto rigetto, il lavoratore ricorreva alla Corte d'Appello che, a sua volta, confermava la decisione di primo grado, ritenendo provato il fatto addebitato e irrilevante l'obiezione circa i fatti non dedotti nella contestazione ma richiamati nella lettera di licenziamento.

Avverso tale pronuncia il lavoratore soccombente proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, su questo specifico punto, la erronea applicazione dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300.

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha confermato la decisione di secondo grado.

La questione

La questione in esame, risolta dalla Suprema Corte, riguarda la violazione o meno del canone di immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare allorquando il datore di lavoro, nel valutare il provvedimento da adottare nei confronti del lavoratore manchevole, consideri fatti analoghi accaduti in passato, anche se non contestati.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione ha osservato che i giudici di primo grado e appello, nel ritenere legittimo il licenziamento, hanno valutato complessivamente la vicenda che ha condotto ad esso, con risoluzione di merito insuscettibile di revisione in sede di giudizio di legittimità, considerando sia il ritardo nel rientro sul posto di lavoro sia i precedenti analoghi episodi di insubordinazione, pur non essendo stato in riferimento a questi ultimi azionato alcun procedimento disciplinare.

Al riguardo, peraltro, la Corte di Cassazione ha formato già in epoca risalente un proprio orientamento che aveva marcato i confini del principio di immutabilità dell'addebito, come funzionali unicamente a circoscrivere l'oggetto della contestazione e non a impedire che, nella valutazione della gravità del fatto, il datore di lavoro potesse essere legittimato a prendere in considerazione fatti che, seppur estranei al procedimento disciplinare, avrebbero potuto comunque utilmente contribuire a formare la motivazione del provvedimento espulsivo. Nella specie era stato sancito il divieto di attribuire rilevanza ad ulteriori mancanze non contestate al dipendente, riconoscendo al datore di lavoro in ogni caso la possibilità di valutare altri comportamenti, non costituenti cause autonome di licenziamento bensì conferme dei fatti addebitati e della loro rilevanza disciplinare (cfr. Cass. civ., sez. lav., sent. 15 maggio 1984, n. 2964).

In ossequio al predetto convincimento, la giurisprudenza della Corte e di merito ha consolidato l'orientamento secondo il quale, nel licenziamento disciplinare, il principio della immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di licenziare per motivi diversi da quelli contestati, ma non vieta, ai fini della garanzia del diritto di difesa del lavoratore incolpato, di considerare fatti non contestati e risalenti anche di oltre due anni quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base della sanzione espulsiva. Ciò al fine della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del prestatore di lavoro e della proporzionalità o meno del correlato provvedimento sanzionatorio comminato dal datore di lavoro (cfr. Cass. civ., sez. lav., sent. 20 luglio 1996, n. 6523; Cass. civ., sez. lav., sent. 14 ottobre 2009, n. 21795, in Giust. civ. Mass. 2009, 10, 1441; Cass. civ., sez. lav., sent. 19 gennaio 2011, n. 1145, in Giust. civ. Mass. 2011, 1, 78; Cass. civ., sez. lav., sent. 8 ottobre 2012, n. 17086; Trib. Milano 18 luglio 2013).

Osservazioni

L'instaurazione di un rapporto di lavoro determina l'insorgenza in capo ad entrambe le parti contrattuali di una serie di obblighi e diritti nonché di poteri e vincoli.

In particolare, il prestatore di lavoro subordinato è tenuto ad eseguire correttamente, con obbedienza e diligenza, la propria prestazione e a rispettare le disposizioni per la disciplina e l'organizzazione del lavoro. La violazione di tali precetti può dar luogo, ai sensi dell'art. 2016 c.c., all'applicazione da parte del datore di lavoro di sanzioni disciplinari.

Infatti, il tenore letterale dell'art. 2016 c.c. conferma che il datore di lavoro, nell'esercizio del potere direttivo, attribuitogli espressamente dall'art. 2086 c.c., è libero di decidere se avviare o meno un procedimento disciplinare e la sanzione eventualmente da applicare in relazione alla gravità dell'infrazione commessa, secondo il principio della proporzionalità.

In attuazione di questi principi, la giurisprudenza di merito ha chiarito che il datore di lavoro può discrezionalmente decidere di soprassedere dal sanzionare determinate condotte inadempienti del lavoratore, non implicando tale comportamento datoriale per quest'ultimo il venire meno dei suoi obblighi (cfr. Trib. Milano 25 febbraio 2013).

In altri termini la “tolleranza” del datore di lavoro rispetto a certe mancanze non escludeche, con riferimento ad esse,lo stesso possa riaffermare nel corso del rapporto il proprio potere disciplinare (cfr. Corte d'Appello Milano, 8 giugno 2011). Invero non è configurabile a carico del datore di lavoro l'onere di avviare per ciascuna inadempienza commessa dal dipendente un procedimento disciplinare, pena la decadenza dal potere di attribuire alla stessa rilevanza per un provvedimento più grave (cfr. Cass. civ., sez. lav., sent. 1 febbraio 1996, n. 884).

Ciò detto, il licenziamento disciplinare, al pari delle sanzioni conservative (ad eccezione del richiamo verbale), soggiace alle garanzie procedurali dettate, dai commi 2 e 3 dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, a tutela del prestatore di lavoro. Nella specie esse hanno lo scopo di “difendere” il dipendente contro possibili usi distorti da parte del datore di lavoro del potere disciplinare conferitogli dal legge.

Infatti esse impongono al datore di lavoro la preventiva contestazione, per iscritto, al prestatore di lavoro manchevole dei relativi addebiti, conferendo a quest'ultimo la facoltà di rendere al riguardo le proprie giustificazioni. Ed è solo, all'esito delle controdeduzioni fornite dal dipendente, che il datore di lavoro è legittimato a comminare la sanzione.

Pertanto la contestazione deve essere specifica, deve, cioè, individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti contestati, poiché solo così il lavoratore è posto nelle condizioni di conoscere esattamente quanto addebitatogli ed esercitare appieno il proprio diritto di difesa.

A tale proposito non si dimentichi che la giurisprudenza - aderendo, con meno rigore formale, ad un principio di natura processuale penale - ha da tempo affermato che è indispensabile la corrispondenza tra la condotta contestata e quella posta a fondamento del provvedimento disciplinare. In caso contrario al dipendente verrebbe sottratta la garanzia di poter replicare in fase disciplinare.

Tant'è che il contraddittorio sull'addebitato mosso al lavoratore si ritiene violato allorquando il quadro di riferimento sia totalmente diverso da quello da cui è scaturita la sanzione, ovvero qualora vengano fatte valere dal datore di lavoro, a sostegno dei propri convincimenti, circostanze nuove che conducono ad una diversa valutazione dell'infrazione, anche in termini di diversa tipizzazione da parte della contrattazione collettiva di settore, con conseguente illegittimità della sanzione stessa.

In tale ultimo caso, infatti, il datore di lavoro dovrebbe avviare un procedimento ex novo e, quindi, procedere con una nuova contestazione.

Tuttavia, al datore di lavoro stesso non sono precluse quelle modificazioni dei fatti contestati che - non configurandosi come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella contestata e concernendo circostanze prive di valore identificativo della stessa fattispecie - non ostacolano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa dallo stesso forniti a seguito della contestazione dell'addebito.

Infatti, non di rado può essere opportuno che, nel corso di un procedimento disciplinare, la contestazione venga arricchita di circostanze che, non aggiungendo nuove imputazioni, si ritengono però idonee a suffragare la gravità o comunque a consentirne una più precisa valutazione.

Orbene il principio della immutabilità della contestazione non deve essere inteso in senso estremamente rigido; ciò che conta è che sussista piena identità tra la ricostruzione dell'addebito così come operata nella contestazione e l'addebito preso nel suo complesso che è sotteso alla sanzione applicata, così da non ledere, salvaguardandolo, il diritto di difesa del lavoratore resosi manchevole.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.