Indennità di accompagnamento e chemioterapia tra inquadramento sistematico e onere della prova

17 Febbraio 2015

La possibilità per il soggetto che sia costretto a sottoporsi a trattamenti chemio-radioterapici di vedersi riconosciuta l'indennità di accompagnamento ex art. 1 L.18/1980 è stata oggetto di diverse ricostruzioni interpretative, non sempre coerenti ed anzi spesso di segno diametralmente opposto tra loro.La tematica presenta un duplice profilo di interesse, uno di tipo sostanziale e l'altro di tipo processuale.
Abstract

La possibilità per il soggetto che sia costretto a sottoporsi a trattamenti chemio-radioterapici di vedersi riconosciuta l'indennità di accompagnamento ex art. 1 L.18/1980 è stata oggetto di diverse ricostruzioni interpretative, non sempre coerenti ed anzi spesso di segno diametralmente opposto tra loro.
La tematica presenta un duplice profilo di interesse, uno di tipo sostanziale e l'altro di tipo processuale.

Introduzione

La questione della riconoscibilità del diritto all'indennità di accompagnamento per la durata di cicli di chemio e radioterapia in presenza di patologie oncologiche costituisce una tematica di notevole rilevanza pratica.
Si tratta infatti di una tipologia di problematica quanto mai diffusa nelle aule giudiziarie, e che se ormai pare in via di risoluzione sul piano interpretativo – essendo stata ormai espressamente affermata dalla Corte di Cassazione, come si vedrà, l'astratta riconoscibilità dell'indennità di accompagnamento per i periodi di sottoposizione a siffatte terapie – continua tuttavia a dar luogo ad un rilevante e persistente contrasto giurisprudenziale, essenzialmente di merito, circa i concreti requisiti della prova necessaria per ottenere l'accoglimento del ricorso.
In altre parole, se può attualmente dirsi sufficientemente affermato in sede giurisprudenziale il principio per cui non vi è alcuna incompatibilità astratta tra riconoscimento dell'indennità di accompagnamento e sottoposizione a cicli di chemioterapia, sussiste al contrario una palese difformità interpretativa tra i diversi tribunali – e, non di rado, persino all'interno del singolo ufficio giudiziario - circa il contenuto concreto della prova da fornirsi in tal senso da parte dell'interessato.
Dal punto di vista sostanziale, è discusso che il requisito dell'impossibilità di deambulare e/o di compiere in piena autonomia gli atti quotidiani – espressamente richiesto dalla normativa sopra indicata per la concessione dell'indennità di cui si discute - possa concretamente sussistere in presenza di trattamenti, come quelli antineoplastici, per definizione temporanei e quindi limitati, per quantità e tipologia, a ben precisi periodi di esposizione.
Coloro i quali ritengono che il concetto di “impossibilità” non possa che ritenersi riferibile ad uno stato di fatto - almeno tendenzialmente – permanente ritengono quindi che non vi siano reali margini di riconoscibilità dell'indennità di accompagnamento nei casi in esame.
Prevalente pare però ad oggi la tesi contraria, secondo cui non vi è alcuna incompatibilità sul piano astratto tra requisiti per la concessione dell'indennità di accompagnamento e sottoposizione a trattamenti chemioterapici.
Si potrà e si dovrà quindi effettuare una valutazione in concreto, caso per caso, alla luce di quegli effetti collaterali delle terapie antitumorali che molto spesso – se non sempre – hanno ricadute fortemente invalidanti sul complessivo stato di salute del soggetto interessato.
In tal senso sono ormai le pronunce della Corte di Cassazione sul punto – seppure non particolarmente numerose -, oggetto di analisi nel presente contributo.
Il problema si sposta quindi dal piano sostanziale a quello processuale, e quindi dal “cosa dover provare” al “come provarlo”.
Sul punto è agevole registrare una chiara diversità tra prassi invalse presso i diversi Tribunali.
Non può infatti dirsi sussistente una reale uniformità operativa sul punto, confrontandosi nella giurisprudenza di merito diverse opzioni interpretative.
In alcuni uffici giudiziari la prova indefettibilmente richiesta è l'attestazione nella certificazione medica che prescrive la sottoposizione a chemio-radioterapia e ne registra l'evoluzione dell'esistenza di effetti collaterali invalidanti, nel senso richiesto dall' art. 1 L. 18/1980.
Presso altri Tribunali, in assenza di tale prova diretta è ammesso il ricorso alla consulenza tecnica d'ufficio.
Non manca da ultimo, in proposito, chi sostiene essere possibile la prova testimoniale circa la concreta impossibilità di deambulare e/o di compiere gli atti propri della vita quotidiana da parte dell'interessato nel periodo di sottoposizione a terapia.

Requisiti normativi per la concessione della indennità

Com'è noto, ai sensi dell' art. 1 L. n. 18/1980 l'indennità di accompagnamento viene riconosciuta “ai mutilati ed invalidi civili totalmente inabili per affezioni fisiche o psichiche di cui agli articoli 2 e 12 della L. 30 marzo 1971, n. 118, nei cui confronti le apposite Commissioni sanitarie, previste dall' art. 7 e seguenti della legge citata, abbiano accertato che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un'assistenza continua”.
L'inabilità richiamata dalla norma è quella lavorativa ex artt. 2,12 L.118/1971, mentre per gli infradiciottenni e gli ultrasessantacinquenni il riferimento interpretativo alla determinazione sul diritto all'indennità di accompagnamento è la sussistenza di “difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della età” ex art. 2 L. 118/1971; art. 6 D.Lgs. 509/1988; art. 5 co. 7 D.Lgs. 124/1998.
Al riguardo, va sottolineato come costituisca affermazione costante della Corte di Cassazione il rilievo secondo cui la disciplina dell'indennità di accompagnamento come introdotta dalla già citata L. 18/1980 non è stata in alcun modo modificata dall' art. 6 D.Lgs. 509/1988, art. 6, per cui i requisiti per la concessione della provvidenza assistenziale di cui si discute devono considerarsi unitari e non differenziabili in ragione dell'età.
La novella legislativa del 1988 non è quindi intervenuta sulla normativa base, bensì su quella che regolava in generale l'invalidità civile, apportando una modifica con riferimento ai soggetti ultrasessantacinquenni in considerazione del fatto che:
a) chi aveva più di 65 anni rientrava nell'area della pensione di vecchiaia, per cui non poteva per esso parlarsi di capacità lavorativa;
b) nell'ambito di tale categoria di assistiti, pertanto, potevano e dovevano considerarsi “mutilati ed invalidi” coloro che avessero difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età, analogamente che per i minori di 18 anni.
Per tali soggetti – e solo per tali soggetti - il legislatore ha quindi ritenuto opportuno sostituire il requisito della incapacità lavorativa con quello, più appropriato, della difficoltà suddetta.
Il requisito sostituito, quindi, non era quello della incapacità di deambulare o di svolgere gli atti quotidiani, che rimaneva – e rimane - inalterato e necessario, come detto, anche per gli infradiciottenni e gli ultrasessantacinquenni.
Costituisce causa di esclusione dall'indennità in questione il ricovero gratuito presso istituti di cura e/o di riabilitazione.
Tanto premesso in via estremamente sintetica, deve subito evidenziarsi come l'interpretazione del concreto contenuto dei requisiti delineati dalla normativa appena sopra richiamata fatta propria dalla giurisprudenza, specie di merito, abbia subito visto prevalere una valutazione connessa al profilo fisiologico – se non addirittura meramente meccanico – della compromissione delle facoltà individuali: il tutto, a discapito di una diversa possibile lettura, correlata in modo più elastico al complessivo grado di riduzione dell'autonomia dell'interessato.
Si è quindi per lungo tempo richiesto – e si continua del resto molto spesso ancora oggi a richiedere - ai fini della concessione dell'indennità di accompagnamento un'oggettiva incapacità di deambulare oppure, in alternativa, una comprovata incapacità “fisica” di compiere concretamente gli atti propri della vita quotidiana come lavarsi, vestirsi, e così via.
In tali termini sono solitamente formulati i quesiti rivolti ai c.t.u.
Espressione evidente di tale impostazione sono alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità che, ad esempio, sottolineano come pur essendo astrattamente possibile che l'indennità di accompagnamento possa essere riconosciuta anche in presenza di infermità esclusivamente psichica, richiedono comunque sul piano fattuale il concreto accertamento circa l'“impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o il bisogno di assistenza continua per l'incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita”. Tale incapacità, si legge, pur essendo riferibile anche alla mancanza di autocontrollo che renda il soggetto pericoloso per sé e per gli altri, deve infatti comunque tradursi in una situazione permanente, che non abbia cioè carattere solo episodico e/o eventuale “non essendo riconducibile al concetto di assistenza continua, necessaria per il compimento degli atti del vivere quotidiano, un'assistenza finalizzata alla prevenzione od al contenimento di possibili ed episodiche manifestazioni violente, o comunque pericolose, della malattia” (Cass., 21 aprile 1993, n. 4664).
Dello stesso tenore sono poi altre pronunce, sempre di legittimità, nelle quali si legge che “ai fini della concessione dell'indennità di accompagnamento ai mutilati ed invalidi civili totalmente inabili, sono richiesti dall'art. 1, primo comma, della legge 11 febbraio 1980 n. 18, in via alternativa l' impossibilità di deambulazione o l'incapacità di attendere agli atti della vita quotidiana, requisiti diversi e più rigorosi della semplice difficoltà di deambulazione o di compimento degli atti della vita quotidiana” (Cass., 23 gennaio 1998, n. 36; nello stesso senso Cass., 1 luglio 1999, n.6743).

Nuovi parametri per l'indennità di accompagnamento?

Non mancano però recenti segnali di una diversa sensibilità interpretativa sul punto, volta a svincolare il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento dal mero dato biologico – meccanico correlato al “ciò che si riesce o non si riesce a fare”, privilegiando il diverso profilo del “come” si riesce a fare ciò che si fa.
Tali interpretazioni possono per certi versi considerarsi come espressione dei più recenti studi di medicina legale.
Si è infatti posta a revisione critica la tendenza ad attribuire una preminenza valutativa alla gravità della patologia, i cui riverberi non soddisfino interamente i predetti schematici presupposti di legge, negando il beneficio senza procedere ad una valutazione complessiva del grado di autonomia – anche relazionale, riferibile al contesto sociale di riferimento – di cui concretamente goda l'interessato.
Un siffatto modo di procedere, si è aggiunto, va a scapito di una equilibrata e realistica ponderazione complessiva della disabilità, soprattutto quando le relative valutazioni si rivelano sbilanciate per difetto proprio in virtù della preminenza attribuita al funzionamento locomotorio.
Premesso che il momento centrale e prioritario della valutazione medico-legale per la concessione dell'indennità di accompagnamento è – e rimane - il rigoroso inquadramento diagnostico della infermità e la correlata preliminare quantificazione con codice tabellare D.M. 5 febbraio 1992 nella misura del 100%, si è quindi affermato che il quadro clinico complessivo può assumere una connotazione aggiuntiva di particolare gravità alla luce anche e soprattutto della molteplicità di implicazioni cliniche che investono la persona in ambiti dimensionali più ampi di quelli della funzione deambulatoria o degli atti quotidiani.
Dette implicazioni, pertanto, ben possono motivare il riconoscimento giudiziale del diritto alla provvidenza assistenziale in oggetto “anche in assenza della completa e precisa concretizzazione della totale dipendenza personale, così come divisata giuridicamente”.
A tale più corretta valutazione si può giungere solo attraverso l'esame concreto della singola situazione complessiva, verificando cioè non in astratto ed a priori la riduzione dell'autonomia di autodeterminazione ma effettuando tale accertamento in concreto e nel singolo caso in esame: alla luce, cioè, delle concrete modalità di vita e – va ripetuto – del contesto sociale di riferimento in cui vive l'interessato.
La valutazione il più possibile soggettiva del grado di reale perdita di autonomia nell'ottica del riconoscimento del diritto all'indennità di accompagnamento non potrebbe, secondo tale orientamento scientifico, essere sostituita neppure dal ricorso alle scale di misura della disabilità, tra cui si citano le più frequentemente impiegate quali Activity Daily Living (ADL), Instrumental Activity Daily Living (IADL), Barthel, Functional Independence Measure (FIM), Tinetti, Mini Mental State Examination (MMSE), così frequenti nell'esperienza quotidiana delle controversie in materia.
In primo luogo, si sostiene, dette scale di misura avrebbero in realtà generalmente una finalità prettamente riabilitativa, male attagliandosi quindi a finalità diverse come quella della misurazione del grado di compromissione dell'autonomia individuale ai fini del riconoscimento dell'indennità di accompagnamento.
In seconda battuta, poi, “il recepimento dei dati rilevati o dei punteggi raggiunti, spesso nei confini di un ineludibile soggettivismo, può condurre al travisamento e alla distorsione del compito medico-legale solo una adesione tanto incondizionata ai criteri giuridici della non autosufficienza quanto indifferente alla maggiore complessità del problema indagato”.
In definitiva, quindi, la medicina legale più recente evidenzia sempre più la necessità di valutare i requisiti di cui all' art.1 L. 18/1980 non in modo meccanico e – per così dire – automatico, bensì all'esito di un giudizio il più possibile articolato, complessivo e personalizzato nel quale nel quale tutti gli elementi costitutivi della condizione di salute, classificati come funzionamento e disabilità (funzioni e strutture corporee, attività, partecipazione) e come fattori contestuali (fattori ambientali, fattori personali), interagiscano dinamicamente tra loro.
In tal modo, quindi, la rilevazione delle deficienze nelle varie funzioni quotidiane (vestizione, alimentazione, igiene personale, atti fisiologici, spese, preparazione dei pasti, spostamenti, ecc.) finirebbe con l'essere correttamente intesa come tappa terminale, ma non esaustiva, di una sequenza i cui passaggi precedenti, costituiti dalla patologia, dalla menomazione, dalla limitazione funzionale non vengono emarginati o relegati sullo sfondo ma costituiscono oggetto di prioritaria attenzione.
Tale progressiva evoluzione nel concetto stesso di disabilità e mancanza di autonomia legittimanti la concessione dell'indennità di accompagnamento presenta evidenti riscontri nella più recente giurisprudenza.
Vanno infatti segnalate in tale ottica diverse recenti pronunce – specie di legittimità – in cui appare evidente l'impulso a considerare il quadro patologico oggetto di valutazione non (solo) nella sua immediata e percepibile gravità clinica, ma anche nella sua idoneità a ridurre il grado di autodeterminazione dell'interessato aumentando, contestualmente, la dipendenza di questi dall'aiuto di soggetti terzi.
L'indennità di accompagnamento appare quindi in siffatti arresti giurisprudenziali sempre più tendenzialmente svincolata dall'accertamento di profili di fatto (e principalmente connessi alla capacità locomotoria), avviandosi ad una valutazione complessiva del grado di autonomia, di autodeterminazione e di indipendenza funzionale dall'aiuto di terzi.
E' il caso, ad esempio, di una recente pronuncia della Corte di Cassazione secondo cui “ai fini dell'attribuzione dell'indennità di accompagnamento, la nozione di «incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita» comprende chiunque il quale, pur potendo spostarsi nell'ambito domestico o fuori, non sia per la natura della malattia in grado di provvedere alla propria persona o ai bisogni della vita quotidiana, ossia non possa sopravvivere senza l'aiuto costante del prossimo, riferendosi la nozione di soggetti che «abbisognano di un'assistenza continua», di cui all' art. 1 L. n. 18/1980, anche a coloro che, a causa di disturbi psichici, non siano in grado di gestirsi autonomamente per le necessità della vita quotidiana” (Cass., 27 novembre 2014, n. 25225).
Nel caso in esame, risultava accertata la capacità dell'interessato di deambulare e compiere – nel senso materiale e fisico del termine – gli atti della vita quotidiana: il tutto, con conseguente rigetto della domanda giudiziale sia in primo grado che in appello.
La Corte ha tuttavia contrariamente affermato che “la capacità del malato di compiere gli elementari atti giornalieri debba intendersi non solo in senso fisico, cioè come mera idoneità ad eseguire in senso materiale detti atti, ma anche come capacità di intenderne il significato, la portata, la loro importanza anche ai fini della salvaguardia della propria condizione psico-fisica; e come ancora la capacità richiesta per il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento non debba parametrarsi sul numero degli elementari atti, giornalieri, ma soprattutto sulle loro ricadute, nell'ambito delle quali assume rilievo non certo trascurabile l'incidenza sulla salute del malato nonché la salvaguardia della sua “dignità” come persona”.
La Cassazione ha poi concluso il proprio iter argomentativo evidenziando che la nozione di incapacità di compiere autonomamente le comuni attività del vivere quotidiano con carattere continuo “comprende anche le ipotesi in cui la necessità di far ricorso all'aiuto di terzi si manifesta nel corso della giornata ogni volta che il soggetto debba compiere una determinata attività della vita quotidiana per la quale non può fare a meno dell'aiuto di terzi, per cui si alternano momenti di attesa, qualificabili come di assistenza passiva, a momenti di assistenza attiva (così Cass. 11 aprile 2003, n. 5784)”.
E' il caso, ancora, di un passaggio di altra recente sentenza della Suprema Corte in cui si legge che il requisito dell'incapacità di attendere agli atti della vita quotidiana va valutato ed individuato in termini complessivi, tenendo cioè conto di un'esigenza della necessità di un aiuto non limitato a taluni soltanto degli atti della vita, seppure indispensabili, ma esteso alla generalità dei bisogni o atti giornalieri (Cass., 17 marzo 2014, n. 6091).
Può quindi dirsi ormai affermato nella giurisprudenza di legittimità – e, come si vedrà, anche in quella di merito, seppur con qualche distinguo – il principio secondo cui la valutazione circa l'esistenza dei presupposti per la concessione dell'indennità di accompagnamento non può e non deve presentare profili di automaticità correlati ai soli aspetti biologici e meccanici della capacità di deambulare e di compiere gli atti propri della vita quotidiana, richiedendo al contrario una valutazione il più possibile legata alle specifiche peculiarità del singolo caso concreto.
Non mancano, come detto, anche pronunce di merito in tal senso: per tutte, valga Trib. Trieste, 12 giugno 2012, n. 173, secondo cui “per il riconoscimento del diritto all'indennità di accompagnamento dall'art. 1 della l. 11 febbraio 1980 n. 18 come modificato dall'art. 1, comma 11, della l. 21 novembre 1988 n. 511, la necessità di assistenza continua ben possa riferirsi anche a coloro che a causa del deterioramento delle facoltà psichiche, non siano in grado di gestirsi autonomamente per le quotidiane necessità e non possano sopravvivere senza il costante aiuto del prossimo”.

Indennità di accompagnamento e sottoposizione a chemioterapia

Le brevi – e necessariamente non esaustive – considerazioni preliminari sin qui esposte appaiono necessarie per comprendere appieno i termini della problematica relativa al rapporto tra indennità di accompagnamento e chemioterapia.
Si può al riguardo addirittura affermare che proprio tale specifico settore, unitamente a quello correlato alla vasta gamma delle patologie psichiche, è stato il primo in cui si è avvertita la potenziale inadeguatezza di una lettura per così dire “fisica” e “meccanica” dei requisiti di cui all'art.1 L. 18/1980.
E' infatti evidente che se si traduce in tale ultimo – e ristretto - senso quell' incapacità di deambulare e di compiere gli atti propri della vita quotidiana che è presupposto di diritto per la corresponsione dell'indennità di cui si discute, lo spazio per detto riconoscimento in periodi necessariamente limitati come quelli correlati alle terapie antineoplastiche appare quanto mai limitato.
La nozione stessa di “incapacità”, così declinata, è infatti apparsa a diversi commentatori – ed a larga parte della giurisprudenza di merito, specie meno recente – correlata ad una definitività degli effetti negativi mal conciliabile con la temporaneità propria degli effetti collaterali della chemio e della radioterapia.
Al riguardo, occorre ricordare che può trattarsi anche di periodi quanto mai brevi, persino inferiori al mese.
Ad eguale conclusione negativa circa la compatibilità tra indennità di accompagnamento e terapie antitumorali giungeva poi chi paventava il rischio che, a fronte della notoria perniciosità di tali effetti collaterali, si finisse con il postulare in tali fattispecie la sussistenza in re ipsa dei presupposti per la concessione della prestazione assistenziale de qua (in tal senso, seppur risalenti, alcune pronunce di merito come Trib. Crotone, 4 ottobre 2002, che fa addirittura riferimento al fatto notorio ex art.115 c.p.c.: “spetta l'indennità di accompagnamento alle persone soggette a cicli di terapia chemioterapica, seppure eseguita in regime di day-hospital, limitatamente ai periodi in cui essi sono effettuati, essendo notorio che tale terapia, pur non escludendo di per sé la capacità di deambulare, comporta effetti collaterali immediati (se pure limitati alla fase della terapia stessa), quali enorme debolezza e, più genericamente, gravissimi disagi che determinano - normalmente - la necessità di assistenza per il compimento degli atti ordinari di vita”).
In tal modo ragionando, però, si finirebbe a ben vedere con il contraddire il dato letterale e la valenza sistematica stessa dell'istituto.
Questo orientamento di massima, tendenzialmente sfavorevole nei termini appena sopra esposti al riconoscimento dell'indennità di accompagnamento per i periodi di chemio e radioterapia, è stato tuttavia progressivamente sottoposto a revisione da parte della Corte di Cassazione.
Il presupposto di fondo da cui è partito il revirement dei giudici di legittimità è costituito dal chiaro rilievo per cui nulla vieta di riconoscere l'indennità in questione anche per periodi quanto mai brevi, persino inferiori al mese (sul punto, Cass., 27 maggio 2004, n. 10212).
Sulla scorta di tale osservazione di fondo è stato così finalmente possibile postulare la piena compatibilità, in senso generale ed astratto, tra chemioterapia ed indennità di accompagnamento.
Le argomentazioni al riguardo seguite in sede di giudizio di legittimità sono esaurientemente esplicate in una non risalente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass., 22 ottobre 2009, n. 25569).
Nel caso sottoposto all'attenzione della Corte, il Giudice del lavoro aveva respinto la domanda di indennità di accompagnamento poiché il c.t.u., pur avendo fatto un esplicito riferimento alle gravi condizioni cliniche della ricorrente, non aveva accertato alcun elemento idoneo ad evidenziare una totale e continua impossibilità di deambulare o di attendere autonomamente agli atti quotidiani della vita, anche durante il periodo di trattamento chemioterapico.
La sentenza di primo grado era stata confermata dalla Corte d'Appello.
Investita del ricorso, la Cassazione ha in primo luogo evidenziato che deve escludersi ogni forma di automatico riconoscimento dell'indennità di accompagnamento in favore dei soggetti sottoposti a chemioterapia.
Si è quindi al riguardo espressamente affermato che la sottoposizione a trattamento chemioterapico non comporta di per sé sola, ed in astratto, il diritto alla indennità di accompagnamento dovendosi piuttosto valutare, in concreto, se essa determini, anche per il tempo limitato della terapia, l'effettiva insorgenza delle condizioni previste dall' art. 1 della L. n. 18 del 1980.
Contrariamente a quanto sostenuto dall'interessata nella vicenda processuale in esame, ha proseguito così la Corte, il problema del trattamento chemioterapico non può quindi essere risolto in astratto, con l'affermazione che esso comporti sempre e di per sé - oppure non comporti - il diritto alla indennità di accompagnamento: al contrario, esso costituisce una questione di fatto.
E' quindi compito del giudicante esaminare caso per caso se detto trattamento comporti, per gli alti dosaggi e per i loro effetti sul singolo paziente, ed anche per il tempo limitato della terapia, l'insorgere delle condizioni previste dall'art.1 L.18/1980.
Il tutto, concludono i giudici di legittimità nella pronuncia in commento, dovendo evidenziarsi che l'indennità di accompagnamento può spettare anche in caso di ricovero in ospedale pubblico, nonostante la previsione contraria dell'art.1 co.3 L.18/1980, ma sempre che la parte interessata dimostri che le prestazioni assicurate dall'ospedale medesimo non esauriscono tutte le forme di assistenza di cui il paziente necessita per la vita quotidiana (Cass. 2 febbraio 2007, n. 2770).
La giurisprudenza successiva della Corte di Cassazione ha fatto più volte richiamo al principio di diritto ed alle argomentazioni contenute nella sentenza del 2008 appena sopra citata.
In particolare, si è evidenziato come la valutazione delle conseguenze negative dei cicli chemioterapici ai fini del riconoscimento dell'indennità di accompagnamento debba essere effettuato in senso globale e complessivo, e non avendo riguardo in via esclusiva ad una o più specifiche attività.
Non basterà, quindi, in tal senso che al soggetto sottoposto a terapie antineoplastiche sia preclusa una o più di quelle azioni che costituiscono espressione delle normali attività quotidiane, essendo al contrario necessario verificare l'assenza di autonomia e di capacità di autodeterminazione nel suo complesso, sebbene per periodi limitati come quelli di sottoposizione ai cicli di radio e chemioterapia.
In tal senso si è quindi espressamente affermato che le condizioni previste dall'art. 1 della legge n. 18 del 1980 per l'attribuzione dell'indennità di accompagnamento consistono, alternativamente, nell'impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore oppure nell'incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita senza continua assistenza; ai fini della valutazione di dette situazioni non rilevano episodici contesti, ma è richiesta la verifica della loro inerenza costante al soggetto, non in rapporto ad una soltanto delle possibili esplicazioni del vivere quotidiano (quale per esempio il portarsi fuori dalla propria abitazione), ovvero alla necessità di assistenza determinata da patologie particolari e finalizzata al compimento di alcuni, specifici, atti della vita quotidiana (Cass., 30 marzo 2011, n. 7273).
Alla luce di quanto sin qui evidenziato, può quindi dirsi che almeno dal punto di vista teorico il problema della riconoscibilità dell'indennità di accompagnamento in relazione ai periodi di chemioterapia et similia possa dirsi attualmente risolto, nel senso della piena applicabilità dell'istituto in questione.
Notevoli difformità – e, conseguentemente, rilevanti problemi di ordine pratico – sorgono tuttavia sul connesso e conseguente piano probatorio.

La prova dei requisiti per la concessione

La quotidiana esperienza giurisprudenziale dimostra infatti che la prova della sussistenza dei requisiti ex L. 18/1980 appare quanto mai difficoltosa, dando altresì luogo a prassi operative mutevoli a seconda dell'Ufficio giudiziario.
Detta valutazione sarà quanto mai agevole in tutti i casi in cui la certificazione medica che prescrive detta terapia contenga delle descrizioni di fatto di uno stato di prostrazione psicofisica tale da integrare gli estremi di legge per la concessione della prestazione in esame.
Si tratta però, è bene osservarlo, di notazione che ben può mancare nella certificazione medica in questione, non essendo in alcun modo obbligatoria per il sanitario che disponga e/o esegua la chemioterapia.
La descrizione degli effetti collaterali e del reale stato di salute del soggetto interessato non costituisce infatti un dato medico essenziale in una certificazione che è di solito volta esclusivamente a prescrivere tipologia e connotazioni temporali dell'intervento terapeutico.
Le difficoltà sul piano probatorio aumentano poi se si pensa che normalmente ai fini dell'individuazione della corretta terapia antineoplastica non si fa certo uso, sul piano certificativo, delle risultanze di quelle scale di valutazione della limitazione funzionale dell'autonomia individuale (ADL, IADL, Barthel, FIM, Tinetti, MMSE) che, come visto, costituiscono al contrario i parametri normalmente utilizzati da molti giudici di merito – e dai c.t.u. da questi nominati - per valutare la sussistenza dei requisiti per la concessione dell'indennità di accompagnamento.
E' quindi possibile che l'accertamento peritale intervenga in epoca notevolmente successiva alla somministrazione della terapia antitumorale, magari quando la patologia è in fase di remissione e non vi è traccia attuale alcuna dei pesanti effetti collaterali della chemio-radioterapia.
In tale ipotesi, il rischio di vedere il proprio ricorso respinto per insufficiente riscontro istruttorio circa la sussistenza delle condizioni legittimanti il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento è quindi quanto mai alto.
Una possibile soluzione alternativa ad una siffatta decisione che, per quanto formalmente corretta, può presentare chiari profili di iniquità è costituita dalla formulazione di appositi quesiti al c.t.u. sul punto.
Tale prassi appare seguita dalla maggioranza dei giudici di merito, seppure con alcuni distinguo.
In primo luogo, v'è chi formula direttamente dei quesiti peritali sul punto, chiedendo al consulente di accertare la sussistenza dell'incapacità di deambulare e/o di attendere agli atti ed alle funzioni proprie della vita quotidiana lungo tutto il periodo di terapia antitumorale.
Tale prassi operativa, però, a ben vedere può scontrarsi con la stessa carenza di prova documentale di cui si è detto in precedenza.
Come noto, infatti, il consulente tecnico nominato

può tenere conto, ai fini dell'espletamento dell'incarico a lui affidato, esclusivamente dei documenti entrati a far parte del processo nel rispetto delle preclusioni istruttorie e non può procedere all'acquisizione di ulteriori documenti

(Trib. Salerno, 27 luglio 2010, n. 1780).
Se quindi nella documentazione medico-sanitaria allegata al ricorso oppure, nei limiti del possibile, prodotta successivamente in giudizio (es: certificati medici formatisi successivamente alla data di deposito del ricorso) non vi è riferimento espresso alcuno alla gravità ed alla capacità limitativa dell'autonomia individuale degli effetti collaterali delle terapie di cui si discute, è evidente che ancora una volta il problema probatorio resta immutato in tutta la sua complessità.
Ciò spiega perché, in adesione ad altra prassi operativa, alcuni Tribunali siano soliti chiedere al c.t.u. di evidenziare, in evasione di specifico quesito, se alla luce della migliore letteratura medico-scientifica i dosaggi propri della terapia somministrata nel singolo caso concreto come documentalmente accertati in corso di causa siano o meno, anche alla luce dell'età e delle generali condizioni dell'interessato, idonei a determinare una fase temporale transitoria di perdita di autonomia rilevante ai fini della L.18/1980 (incapacità di deambulare e/o di lavarsi, vestirsi, cucinarsi, assumere farmaci, rispondere al telefono e così via).
E' chiaro – ed è stato osservato in senso critico avverso tali prassi operativa – che in tal modo la valutazione del c.t.u. finisce con l'avere importanza risolutiva ai fini della decisione del giudizio, ponendo alla base di quest'ultimo non un accertamento tecnico di fatti ritualmente dedotti e provati dalla parte bensì proprio una determinazione discrezionale del consulente stesso.
Il rischio di dar luogo ad una c.d. consulenza tecnica esplorativa, non ammessa dal nostro ordinamento (per la costante condivisa affermazione che la consulenza non possa essere un mezzo sostitutivo dell'onus probandi, tra le tante Cass. 14 febbraio 1994 n. 1467), appare quindi ai fautori di tale orientamento critico quanto mai elevato.
In senso contrario può deve però darsi luogo ad un duplice rilievo interpretativo.
In primo luogo, una risposta del c.t.u. ad un siffatto quesito non può in alcun modo dirsi “esplorativa”, atteso che i dati fondamentali per procedere alla relativa formulazione (tipologia dei farmaci antitumorali; entità e modalità di assunzione degli stessi; durata dei cicli di chemio-radioterapia; età ed altre condizioni soggettive dell'interessato) sono pur sempre ritualmente prodotti in atti, e non certo frutto di indagini non autorizzate del consulente.
In secondo luogo,

la Suprema Corte ha

recentemente evidenziato (Cass., 5 marzo 2013, n. 2663) come il divieto della c.t.u. cd. esplorativa non debba essere considerato assoluto, ma al contrario derogabile

in tutti quei casi (eccezionali) in cui la c

onsulenza non

possa

non

assumere rilevanza probatoria.

Si tratta di casi in cui l'accertamento dei fatti risulta possibile soltanto mediante esperimento di indagini supportate da specifiche competenze tecniche

.
S

i distingue

infatti al riguardo

, in giurisprudenza (

già a partire da

Cass.

,

Sez. Un.

,

4

novembre

1996 n. 9522), la figura del consulente deducente e del consulente percipiente

.
Nel primo caso,

la consulenza

tecnica d'ufficio

presuppone l'avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto

diretto solo ed esclusivamente

fatti già completamente provati dalle parti

;

nella seconda

ipotesi

,

al contrario, è la consulenza stessa che

potrà costituire fonte oggettiva di prova,

purché – come accennato -

la parte abbia dedotto quanto meno il fatto che pone a fondamento della propria domanda

,

di cui il giudice affida l'accertamento ad un ausiliario in possesso di cognizioni tecniche che egli non possiede.

Orbene, nella pronuncia del 2013 appena sopra richiamata la Corte di Cassazione ha nuovamente affermato il principio di diritto secondo cui pur non potendo la consulenza tecnica d'ufficio essere considerata, in linea di massima, quale mezzo di prova, essendo in realtà un mero strumento per la valutazione della prova acquisita, essa può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova in tutti i casi in cui si risolva nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (nello stesso senso Cass., 19 gennaio 2011, n.1149; Cass., 11 maggio 2011, n. 6585).
La possibilità di effettuare una valutazione prognostica sulle condizioni del periziando al momento della chemioterapia, considerando i molteplici fattori oggettivi e soggettivi personalizzanti sopra richiamati, costituisce con ogni evidenza proprio un accertamento di fatto possibile solo a chi sia in possesso della dovuta competenza tecnica.
Appare quindi possibile formulare appositi quesiti in tal senso in sede di consulenza tecnica medica d'ufficio svolta nell'ambito di un giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento.
Come ulteriore possibilità di sopperire alla mancata prova documentale della sussistenza dell'incapacità di deambulare e/o di compiere gli atti quotidiani della vita da parte dell'interessato, non mancano nella giurisprudenza di merito alcune sentenze che prospettano l'astratta utilizzabilità della prova per testi.
Quest'ultima, si legge, potrebbe essere richiesta allo scopo di provare il fatto storico dell'assoluta – sebbene temporanea – incapacità di reale ed effettiva autodeterminazione da parte dell'interessato durante il periodo di sottoposizione a chemio-radioterapia.

In conclusione

Anche se l'orientamento che richiede ai fini della concessione dell'indennità di accompagnamento la prova incontrovertibile di un'oggettiva incapacità di deambulare oppure, in alternativa, di una comprovata incapacità “fisica” di compiere concretamente gli atti propri della vita quotidiana (come lavarsi, vestirsi, e così via) appare in via di ridiscussione, affermandosi sempre più voci che pongono al contrario l'accento sulla necessità di una valutazione complessiva dello stato invalidante dell'interessato ai fini della concessione della prestazione di cui all'art.1 L.19/1980, la problematica della concedibilità di quest'ultima per i periodi di chemio e radioterapia risulta ancora ben lungi dall'aver trovato una sistemazione definitiva.
In linea di principio, dopo le sentenze della Corte di Cassazione del 2008 e del 2011 non pare possa più postularsi come esistente alcuna incompatibilità pratica tra l'istituto assistenziale in questione e la sottoposizione a terapie antineoplastiche.
Il problema rimane però inalterato sul diverso piano della prova concretamente richiesta dai singoli Tribunali per concedere l'indennità di cui si discute.
Dei tre orientamenti attualmente registrabili nell'esperienza giurisprudenziale di merito uno (quello della necessaria indicazione in apposita certificazione medica proveniente da struttura pubblica) appare formalmente ineccepibile ma forse eccessivamente gravoso, visto che – come detto – non sussiste alcun obbligo di espressa descrizione degli effetti collaterali di tali terapie a carico del personale medico che predispone e segue queste ultime.
Gli altri due orientamenti operativi (chiedere al c.t.u. espressamente di pronunciarsi, sulla base delle caratteristiche oggettive e soggettive del caso concreto, circa la sussistenza dei requisiti ex L.18/1980 al momento della sottoposizione a terapia antitumorale; ammettere la prova per testi circa la compromissione totale della capacità di autodeterminazione lungo tale ultimo lasso temporale) appaiono al contrario non solo più conformati a principi di equità, ma anche e soprattutto più in linea con la ratio dell'indennità di accompagnamento: che, come noto, va individuata nella volontà del legislatore di assicurare il giusto supporto economico a quei nuclei familiari che decidano di assistere in prima persona soggetti non più autosufficienti

.

Guida all'approfondimento

G. Consolazio, L'indennità di accompagnamento in caso di dissociazione tra gravità della patologia e grado di dipendenza da terzi: metodologia valutativa ed esemplificazione casistica, in Riv.it.medicina legale e dir.sanitario, 3, 2013, p.1321

D. Mesiti, Manuale di diritto previdenziale, Giuffrè, Milano, 2014, p.400 ss.

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