Licenziamenti discriminatori: favor per il lavoratore?
18 Aprile 2016
Quale reale ed oggettivo valore ha la prova per presunzioni nei licenziamenti discriminatori o ritorsivi? L'inversione dell'onere della prova, la prova agevolata soprattutto per le presunte discriminazioni di genere e per i presunti licenziamenti ritorsivi delle lavoratrici madri dopo il compimento del 1° anno di età del bambino non rischiano di portare ad un pieno convincimento del giudice con relativa sentenza automaticamente favorevole al lavoratore? Accettare le presunzioni come prove civili che esemplifica il favor lavoratoris nelle vertenze di lavoro non rischierebbe di finire nella totale incostituzionalità? Il libero convincimento del giudice derivato dalla prova presuntiva potrebbe portare con la massima facilità ad una reintegra del lavoratore in una piccola azienda (sotto i 15 dipendenti) essendo questo riuscito, magari, a dissimulare un comportamento inaccettabile. L'art. 28 D.lgs. n. 150/2011 prevede una presunzione juris tantum, in base alla quale il lavoratore ha la possibilità di provare, anche mediante dati statistici, la natura discriminatoria del licenziamento. Il datore-convenuto può darne, ovviamente, prova contraria. Si tenga presente, infatti, che non sarà discriminatoria la condotta datoriale laddove la prestazione lavorativa necessiti, oggettivamente, di specifiche qualità personali e competenze del lavoratore (es. lavori particolarmente pesanti). Se l'istituto della presunzione comportasse un quasi automatico convincimento del giudice, ciò si tradurrebbe in un risultato giudiziale preacquisito. Inoltre, di fatto, si individua un'elevata difficoltà per il lavoratore nel provare in giudizio la sussistenza della discriminazione, nonché l'animus nocendi datoriale in ipotesi di licenziamento ritorsivo. È chiaro che il datore raramente procederà a recedere dal rapporto lavorativo in assenza di un giustificato motivo, soggettivo o oggettivo. Ciò soprattutto alla luce di quanto disposto dall'art. 2 D.lgs. n. 23/2015. |