Il fatto contestato tra interpretazioni rigide ed elastiche

25 Maggio 2017

In tema di licenziamenti disciplinari, ai fini della tutela reintegratoria attenuata, l'art. 18 St. Lav. novellato, fa riferimento alla “insussistenza del fatto contestato” mentre l'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015 parla di “insussistenza del fatto materiale contestato”. Lo sforzo esegetico su che cosa debba intendersi per “fatto” ha sviluppato diverse teorie: quelle più rigide, privilegiando il dato letterale, fanno riferimento al fatto valutato nella sua materialità; quelle più elastiche, invece, ritengono debba farsi riferimento al fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità. Nelle tutele crescenti, poi, il tutto è complicato dal precetto per il quale l'insussistenza del fatto materiale contestato debba essere direttamente dimostrato in giudizio e dalla impossibilità in capo al giudice di ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
Brevi premesse

La Legge n. 92/2012 ha modificato l'art. 18, L. n. 300/1970, mentre il D.Lgs. n. 23/2015, in attuazione alla Legge delega n. 183/2014, ha introdotto nel nostro ordinamento un sistema di tutele c.d. “crescenti”.

Queste due forme di tutele in ipotesi di licenziamento disciplinare illegittimo, però, ancorché simili nell'impianto, non sono sovrapponibili per cui, nell'attualità, il sistema normativo si presenta con una connotazione dicotomica. Spartiacque temporale è la data del 7 marzo 2015, ossia quella dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015.

Ciò che caratterizza entrambi gli assetti è un allargamento delle ipotesi di tutela obbligatoria attraverso la monetizzazione della reintegrazione e l'introduzione di un tetto massimo al risarcimento per quelle fattispecie in cui è prevista la reintegrazione.

La tutela c.d. “piena” è circoscritta solo a quelle ipotesi di licenziamento nullo.

La fattispecie che sarà esaminata nel presente scritto è quella della tutela reintegratoria c.d. “attenuata” per cui le norme di interesse sono il comma 4, art. 18, St. Lav. nel testo novellato dalla Legge n. 92/2012 e il comma 2, art. 3, D.Lgs. n. 23/2015.

Il comma 4, art. 18, St. Lav. dispone che: “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro […]”.

Il comma 2, art. 3, D.Lgs. n. 23/2015, invece, dispone che: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro […]”.

L'esame letterale delle due norme evidenzia delle differenze.

L'art. 18, St. Lav. parla di “insussistenza del fatto contestato” mentre l'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015 di “l'insussistenza del fatto materiale contestato … rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, introducendo la necessità che nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore debba essere direttamente dimostrata in giudizio.

Cerchiamo di fare chiarezza e, a tal fine, è necessario chiedersi, innanzitutto, cosa debba intendersi per “fatto” e, cioè, se debba farsi riferimento al "fatto giuridico" o solo al "fatto materiale".

La tutela statutaria

I Supremi Giudici della Sezione Lavoro, nella sentenza 6 novembre 2014, n. 23669, sono stati perentori nell'affermare che debba farsi riferimento al fatto materiale che deve essere tenuto distinto dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo per cui deve essere valutato nella sua materialità.

Hanno reputato necessario, dunque, operare un distinguo tra esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. E, in quest'ottica, hanno affermato che la “reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale” posto a fondamento dal datore di lavoro nel provvedimento espulsivo.

Hanno precisato, quindi, che tale accertamento deve essere compiuto senza alcun margine di discrezionalità con la conseguenza che è esclusa “ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”.

Una interpretazione rigorosa, dunque, del dettato normativo: verificata la sussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento il giudice dovrà operare senza alcun margine di discrezionalità in relazione al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.

Posizione, questa, senza dubbio incline a pericolosi paradossi giuridici soprattutto se la si cala in una accezione rigida anche nell'applicazione del comma 2 dell'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015 che, come evidenziato, si differenza dalla norma statutaria perché precisa che deve farsi riferimento alla “insussistenza del fatto materiale contestato” in relazione alla cui valutazione deve restare estranea “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

Summum ius, summa iniuria” diceva Cicerone nel suo De Officiis.

Pensiamo ad esempio al lavoratore che non saluta il proprio datore di lavoro e viene licenziato per questo. Il fatto materiale c'è: il lavoratore non ha salutato; il giudice sembra avere le mani legate in quanto parrebbe essergli preclusa ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. In entrambe le tutele, quella statutaria e quella delle tutele crescenti, infatti, il giudice, accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, “dichiara risolto il rapporto di lavoro […] e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria” (art. 18, St. Lav.); ovvero “dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità” (art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015).

Un'interpretazione così rigida non poteva soddisfare e Cass. sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540, ha precisato che il fatto non sussiste laddove sia privo del carattere di illiceità, in quanto, “la completa irrilevanza giuridica del fatto contestato equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla tutela reintegratoria attenuata”.

L'insussistenza del fatto contestato, dunque, precisa ulteriormente la Cassazione, va riferito all'ipotesi del fatto “sussistente ma privo del carattere di illiceità […] senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità”.

Interessante è la parte motiva della ordinanza del 10 novembre 2015 della Sezione Lavoro del Tribunale di Teramo in un rito “fornero” dove, tra l'altro, si disquisiva se delle telefonate di una dipendente ad una persona non gradita al datore di lavoro potessero inficiare il rapporto fiduciario e, quindi, giustificare o meno un licenziamento per giusta causa.

Il Tribunale Teramano, prima di entrare nel merito della vicenda da scrutinare, ha ritenuto di dover affrontare la questione della nozione di fatto contestato alla luce della sentenza di Cass. sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540 ed ha affermato che essa corrisponde a quella di “fatto nella pienezza dei suoi elementi costitutivi (sia dell'elemento oggettivo, sia dell'elemento soggettivo)”. Per fatto, quindi, deve intendersi “quello costituente illecito disciplinare alla luce della fattispecie concreta, da valutarsi in base alla contestazione specifica, che può essere ulteriormente connotata anche dall'elemento soggettivo, salva, in ogni caso, l'imputabilità della condotta”.

Tanto perché ai fini della scelta della tutela, il Giudice non può valutare solo il fatto attribuito dal datore di lavoro al lavoratore ma, deve esaminarlo con spirito critico guardando alla sussistenza o meno degli elementi che “costituiscono parte integrante della fattispecie di illecito disciplinare” cosicché, ove riscontri l'assenza anche di un solo requisito costituente la fattispecie dell'illecito disciplinare, dovrà dichiarare l'insussistenza del fatto addebitato.

Non si discosta dalla posizione appena descritta Cass. sez. lav., 20 settembre 2016, n. 18418 la quale, anzi, la rafforza ribadendo che l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18, St. Lav., nel testo novellato dalla c.d. Riforma Fornero ha nel suo seno “l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità” per cui, precisa la Suprema Corte, “la completa irrilevanza giuridica del fatto (pur accertato) equivale alla sua insussistenza materiale”.

In questo paradigma è stato puntualizzato che oggetto della valutazione del giudice non deve essere il “fatto - comportamento” ma, appunto, il “fatto - inadempimento”. E ciò perché “il fatto non sussiste” non solo quando è inesistente nella sua materialità ma, anche quando, pur esistente, è sprovvisto di valenza giuridica.

Solo in quest'ultima ipotesi, dunque, il giudice potrà disporre la reitegrazione ai sensi del 4° comma dell'art. 18, St. Lav.

Corollario conseguente a tale posizione è che esula dall'attività giusdicente ogni valutazione sulla proporzione tra fatto sussistente e gravità del fatto contestato.

Interessante è, pure, la sentenza n. 320/2016 resa dalla Corte di Appello di Genova a conclusione della fase a cognizione piena di un rito Fornero, laddove ha ritenuto che il rifiuto di un lavoratore a svolgere la propria prestazione in difetto di sicurezza (il datore di lavoro non aveva adottato, a norma dell'art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute dei prestatori di lavoro), si fonda su un valore fondamentale per il nostro Ordinamento Giuridico e, pertanto, rappresenta una causa legittima di giustificazione del rifiuto stesso che fa venir meno la connotazione illecita del comportamento e, dunque, dell'illecito disciplinare.

La Corte territoriale ligure annota, quindi, che per "fatto contestato" non deve intendersi “un qualsiasi fatto materiale contestato da parte datoriale, ma si debba far riferimento ad un fatto (materiale, sì, ma) connotato da antigiuridicità”. Questa, secondo la Corte di appello di Genova, è l'unica interpretazione che consente di pervenire ad un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 18, St. Lav. novellato.

Nell'ambito interpretativo delineato, merita attenzione la sentenza della Sezione Lavoro della Suprema Corte 31 gennaio 2017, n. 2513 laddove i Supremi giudici hanno affermato che un fatto non tempestivamente contestato dal datore deve essere considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18, St. Lav. novellato poiché non consente al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori. Spiegano gli Ermellini, infatti, che “non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7 il ‘fatto' è ‘tamquam non esset' e quindi ‘insussistente' ai sensi a dell'art. 18 novellato. Sul piano letterale la norma parla di insussistenza del "fatto contestato" (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare anche l'ipotesi in cui il fatto sia stato contestato abnormemente e cioè in aperta violazione dell'art. 7”.

Il caso che si è sviluppato da tale decisione, ha indotto la Corte di Cassazione, sez. IV, a depositare, il 21 aprile scorso, un'ordinanza interlocutoria ed a proporre ricorso al Primo Presidente per la sua assegnazione alle Sezioni Unite sul tema afferente “la natura del vizio del licenziamento intervenuto in forza di contestazione tardiva”.

Le tutele crescenti

Abbiamo evidenziato nella premessa che le due forme di tutele in essere in ipotesi di licenziamento disciplinare illegittimo, quella di cui all'art. 18, St. Lav., novellato e quella di cui all'art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015, divergono in maniera più evidente laddove l'art. 18, St. Lav. parla di “insussistenza del fatto contestato” mentre l'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015 di “l'insussistenza del fatto materiale contestato”.

La nuova norma, poi, a differenza di quella statutaria, preclude al giudice ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento e richiede che l'insussistenza del fatto materiale contestato sia direttamente dimostrata in giudizio.

Procediamo con ordine.

Ritiene lo scrivente che una lettura troppo rigorosa del testo letterale della norma di cui all'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015 potrebbe portare a esiti giurisprudenziali ingiusti perché qualsiasi fatto materiale compiuto dal lavoratore impedirebbe la reintegra.

Esistono, infatti, situazioni limite che se scrutinate in un'ottica meramente formalistica possono portare a delle aberrazioni. Basti pensare, ad esempio, ad un ritardo di pochi minuti del lavoratore o ad una risposta solo scortese. Il fatto indubbiamente c'è ma, la linea di demarcazione tra disciplinarmente rilevante o non rilevante è talmente labile che il dubbio se la tutela reintegratoria debba essere esclusa o meno è fondato!

L'interpretazione letterale della norma rende palese la volontà del legislatore di voler escludere, nelle fattispecie limite, quali quelle portate come esempio, la possibilità della tutela reintegratoria poiché è evidente la ratio di voler contenere entro confini predeterminati e ristretti l'attività giusdicente limitando lo spazio discrezionale del giudice nel valutare la fattispecie (oltre che nell'applicazione della eventuale sanzione economica a carico del datore agganciandola all'anzianità di servizio del lavoratore).

Quest'ultimo, infatti, stando al dato letterale della disposizione in esame, in presenza di un licenziamento disciplinare, sia esso per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, potrà disporre la reintegrazione solo ove emerga l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto al quale “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. Nelle altre ipotesi, la tutela ripristinatoria è sostituita dalla quella risarcitoria. In altre parole la reintegrazione è monetizzata.

La norma del Jobs Act, dunque, sembra voler superare il discorso del “fatto giuridico” abbracciato dalla giurisprudenza di vertice nell'esegesi dell'art. 18, St. Lav. novellato.

Tale intento, però, deve fare i conti con un quadro normativo che non può essere visto in un'ottica atomistica per non incorrere in inaccettabili paradossi. Per tornare ad un esempio fatto, estremizzandolo, a dar corso all'interpretazione rigorosa della norma, dovrebbe escludersi la tutela reintegratoria in ipotesi di licenziamento intimato per il ritardo di un solo minuto. Ed è evidente che un simile teorema contrasta con l'essenza ontologica del tendere alla giustizia. In quest'ottica un datore di lavoro che vuole liberarsi di un lavoratore ormai inviso, ha strada facile e ad un costo conosciuto facendo leva su comportamenti privi di rilevanza disciplinare.

Orbene, taluno ha visto una possibile soluzione nella possibilità del lavoratore di sostenere in giudizio che l'addebito cui ha fatto capo il licenziamento altro non era che un espediente per liberarsi di lui e che, dunque, era un'ipotesi di licenziamento ritorsivo.

Le difficoltà sul piano probatorio per il lavoratore, però, sono evidenti.

In tema di licenziamenti ritorsivi, infatti, non opera l'inversione dell'onere della prova di cui all'art. 5, L. n. 604/1966 per cui spetta al lavoratore di provare che la ritorsione o la rappresaglia è stata l'unica ed esclusiva ragione che ha determinato il datore di lavoro all'atto espulsivo “anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. sez. lav., 14 luglio 2005, n. 14816)” (Trib. Milano, sez. lav., 12 gennaio 2016).

Prova, questa, che il lavoratore, ferma la sussistenza di un rapporto di casualità tra le allegazioni e il dedotto intento ritorsivo o di rappresaglia, potrà comunque dare anche attraverso presunzioni (Cass. sez. lav., 3 dicembre 2015, n. 24648; Cass. sez. lav., 8 agosto 2011, n. 17087; Cass. sez. lav., 15 novembre 2000, n. 14753).

Alla esposta interpretazione se ne affianca una seconda, meno rigida, indirizzata a considerare che il fatto posto a fondamento del licenziamento deve comunque avere una connotazione illecita.

I Giudici di P.zza Cavour, infatti, con le sentenze 13 ottobre 2015, n. 20540 e 13 ottobre 2015, n. 20545, ancorché hanno scrutinato fatti ricadenti sotto la disciplina dell'art. 18, St. Lav. novellato, obiter dictum e, senza dirlo in maniera palese, hanno dato una interpretazione ante litteram sulla disciplina di cui al D.Lgs. n. 23/2015 laddove affermano che “non è plausibile che il Legislatore, parlando di ‘insussistenza del fatto contestato', abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione. […] In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e da perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 4 cit.”.

Ai fini di escludere la tutela ripristinatoria attenuata non è, dunque, sufficiente la sussistenza del fatto materiale meramente formale.

Su tale scia interpretativa sembra collocarsi la sentenza del Tribunale di Roma del 04 aprile 2016 laddove, nel giudicare su un fatto ricadente nell'ambito di applicabilità delle tutele crescenti, ha annullato il licenziamento e disposto la tutela ripristinatoria attenuata per non aver il datore dimostrato la sussistenza del fatto contestato.

La sentenza de qua, è stato osservato, avrebbe posto nel nulla l'intento innovativo del Legislatore del Jobs Act poiché sarebbe tornata al concetto di “fatto giuridico”.

Le questioni dell'onere probatorio e della proporzionalità

La norma di cui all'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015, superando il disposto di cui al richiamato art. 5, L. n. 604/1966, vuole che l'insussistenza del fatto materiale contestato sia direttamente dimostrata in giudizio e sembra porre il relativo onere probatorio in capo al lavoratore.

Inutile dire che il precetto de quo ha lasciato perplessi molti commentatori, tra i quali alcuni hanno voluto pensare che si sia trattato di una svista del legislatore mentre altri hanno ritenuto che l'avverbio “direttamente” sia privo di significato ed in quanto tale, inidoneo ad incidere sull'architettura probatoria.

Vero è, comunque, che dall'esegesi del dettato normativo emerge che la norma del Jobs Act non ha modificato l'art. 5, L. n. 604/1966 cosicché è sempre il datore di lavoro che deve dimostrare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo; ma, è altresì vero che l'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015 pone in capo al lavoratore l'onere di dare la prova negativa della insussistenza del fatto ai fini della tutela applicabile.

Il dubbio che tale impianto normativo vada a frustrare il principio contenuto nel secondo comma dell'art. 3 Cost. è forte.

Strettamente collegata a tale criticità, poi, è quella legata alla impossibilità in capo al giudice di ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.

Il punto controverso è sempre lo stesso: il ritardo di un solo minuto, ad esempio, esclude la tutela reintegratoria?

È stato osservato, in una interpretazione a “salvare” la noma del D.Lgs. n. 23/2015, che il giudice nella sua attività è libero nel valutare se il fatto posto a base del licenziamento intimato rientri nelle fattispecie della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo mentre, esaurita questa fase, quando andrà ad applicare la sanzione ai fini della tutela deve limitarsi a verificare la sussistenza del fatto contestato senza alcun apprezzamento sulla proporzionalità della sanzione rispetto ai criteri di valutazione di cui all'art. 2106 c.c..

È stata, poi, intravista una possibile soluzione riflettendo pure sul fatto che la norma del Jobs Act non modifica i presupposti per licenziare, che restano quelli contenuti nell'art. 1, L. n. 604/1966, e cioè la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo. Ciò posto, nell'ipotesi in cui la contrattazione collettiva sia applicabile e preveda l'applicazione di una sanzione conservativa quale sanzione per il comportamento scrutinato, il giudice che dovesse effettivamente ritenere che non sussistono i presupposti giustificanti un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo deve applicare la disciplina pattizia più favorevole in quanto vincolante per le parti per loro espressa volontà.

Giusta causa e giustificato motivo soggettivo, infatti, sono norme elastiche che rientrano nell'alveo delle c.d. clausole generali a contenuto assiologico variabile che, per la loro genericità e limitatezza, necessitano di essere specificate “mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.

La contrattazione collettiva si occupa anche di questa attività, e nello scrutinare un determinato comportamento lo sanziona, con sanzioni espulsive o conservative, in relazione alla sua gravità. E, ove, la contrattazione collettiva applicabile preveda per un certo comportamento una sanzione conservativa, tale condotta non potrà essere valutata e sanzionata in maniera più grave.

Conclusioni

Quello descritto è un quadro articolato e complesso che ha posto in evidenza criticità alle quali, chi scrive, auspica che il Legislatore non tardi a dare risposte.

Nel frattempo la giurisprudenza sull'art. 18 novellato sta sviluppando a margine dei decisa un indirizzo interpretativo pure sull'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015, nel senso di escludere che il “fatto contestato” sia esaminato non solo nel suo aspetto materiale, ma anche sotto il profilo della sua illiceità.

Riguardo, poi, la questione circa l'impossibilità in capo al giudice di ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il dubbio sulla correttezza o meno della portata applicativa dell'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015 è forte ed alberga nella norma costituzionale contenuta nell'art. 3 da cui promana l'art. 2106 c.c. e parimenti di difficile lettura in chiave probatoria è il precetto che vuole che l'insussistenza del fatto materiale contestato sia direttamente dimostrata in giudizio.

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