Vincolo di subordinazione o rapporto di impresa familiare? La valutazione spetta al Merito
23 Settembre 2014
La Corte di Appello di Messina riformava parzialmente la sentenza del giudice di prime cure, dichiarando che tra due persone (una donna e la ex suocera, proprietaria di un esercizio commerciale di abbigliamento) era intercorso rapporto di lavoro di natura subordinata per circa cinque anni, periodo precedente alla formalizzazione tra le parti di un rapporto di impresa familiare ex art. 230 bis c.c. Nel ricorso giunto in cassazione (sentenza n. 19925 depositata il 22 settembre), si valuta l'effettiva sussistenza nonché la partecipazione all'impresa stessa.
La qualificazione dell'apporto del lavorativo del congiunto
Il carattere residuale dell'impresa familiare – sottolinea la Suprema Corte nel suo dispositivo – mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo del congiunto (sia esso parente entro il terzo grado od affine entro il secondo) non rientrante nell'archetipo di rapporto di lavoro subordinato. La logica sottesa è quella di confinare in un'area limitata la situazione del lavoro familiare gratuito. Nei casi di attività svolta nell'ambito dell'impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all'impresa familiare, escludendo la causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare (Cass. n. 20157/2005).
Elementi dai quali desumere la subordinazione Sulla scorta del sopra detto principio, la Corte di merito ha accertato quali fossero le modalità con le quali la prestazione lavorativa era stata resa e – pur tenendo in considerazione il vincolo di affinità – ha confermato la sentenza di primo grado che aveva valorizzato le disposizioni testimoniali dalle quali era emerso che il rapporto realizzato fosse dotato delle caratteristiche della subordinazione, desunte nello specifico dalla presenza continuativa della ricorrente in negozio e dal suo orario di lavoro. |