Dopo oltre quarant'anni dalla promulgazione dello
Statuto dei lavoratori
che, con il suo art. 13, aveva riscritto i limiti del potere del datore di lavoro di modificare le mansioni assegnate al lavoratore al momento dell'assunzione, il legislatore, nell'ambito della più ampia riforma del mercato del lavoro battezzata con il nome di Jobs Act, ha rimesso mano alla materia apportando modifiche profonde all'
art. 2103 c.c. (
art. 2103 c.c., come modificato dall'
art. 3 D.Lgs. n. 81/2015).
Si tratta di un intervento che può essere considerato di importanza non minore a quello che ha riguardato la disciplina dei licenziamenti (
D.Lgs. n. 23/2015) per almeno due ordini di ragioni.
Da un primo punto di vista, la nuova norma incide sulla relazione di subordinazione, poiché amplia il novero delle mansioni che il datore di lavoro può pretendere dal lavoratore.
Da un secondo punto di vista, la scelta di intervenire sulla disciplina delle mansioni segna anche un importante punto di discontinuità rispetto alle numerose riforme del diritto del lavoro che si sono succedute nell'ordinamento italiano a partire dall'inizio del nuovo millennio. Con la modifica dell'
art. 2103 c.c., insieme con la riforma della disciplina dei c.d. controlli a distanza (
art. 4 L. n. 300/1970), il legislatore è infatti intervenuto per la prima volta sulle regole del rapporto di lavoro subordinato, laddove le riforme precedenti si erano focalizzate sulle regole dei contratti di lavoro c.d. non standard.
Provando ad individuare, in premessa, le ragioni di tale profondo intervento di riforma è possibile individuarne almeno tre, tra loro strettamente connesse.
Il dato più evidente dal quale conviene partire è quello delle rilevanti incertezze interpretative che la vecchia norma aveva posto, principalmente dovute alla difficoltà di attribuire un significato chiaro alla nozione di equivalenza, che costituiva il metro per la valutazione della legittimità dell'esercizio dello ius variandi.
L'assenza di una definizione del concetto di equivalenza all'interno della norma aveva indotto sia la dottrina sia la giurisprudenza a ricercarne il significato muovendo dalla identificazione del bene del lavoratore che quella disposizione intendeva proteggere.
Gli interpreti avevano dunque unanimemente condiviso la conclusione che l'
art. 13 L. n. 300/1970 assolvesse alla funzione di salvaguardare la professionalità del lavoratore
, salvo poi divedersi sul significato da attribuire alla nozione di professionalità ed in particolare sul modo in cui tale professionalità dovesse essere salvaguardata.
La giurisprudenza aveva in particolare precisato che nel confronto fra mansioni di provenienza e mansioni di destinazione non fosse sufficiente affidarsi alle classificazioni dettate dal contratto collettivo (c.d. criterio oggettivo), ma fosse necessario confrontare la professionalità necessaria allo svolgimento in concreto delle diverse mansioni affinché il bagaglio di competenze maturato dal lavoratore nelle mansioni di partenza fosse realmente sufficiente a considerare la mansione di destinazione come equivalente anche sul piano soggettivo (c.d. criterio soggettivo) (cfr., fra le tante:
Cass. 12 gennaio 2006, n. 425;
Cass. 12 aprile 2005, n. 7453, in Mass. Giur. Lav., 2005, 430, con nota di De Marco;
Cass. 9 marzo 2004, n. 4790, in Riv. It. Dir. Lav., II, p. 789, con nota di Novella).
Partendo da tale assunto, la giurisprudenza si era poi spinta oltre sino al punto di attribuire alla nozione di professionalità un significato “dinamico”, nel senso che non era sufficiente che le mansioni di destinazione fossero tali da consentire l'utilizzazione del corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto, ma che fosse altresì necessario che le stesse presentassero l'attitudine a consentire l'arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore (
Cass. 15 febbraio 2003, n. 2328;
Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150).
Principi cui, peraltro, la giurisprudenza non ha mancato di apportare dei correttivi volti ad attenuarne la rigidità affermando, da un lato, che le mansioni di destinazione potevano essere considerate equivalenti anche se richiedevano, da parte del lavoratore, un aggiornamento professionale (
Cass. 1 settembre 2000, n. 11457, in Not. Giur. Lav., 2001, 38) e, dall'altro, che il rispetto del requisito dell'equivalenza non imponeva che le mansioni cui il lavoratore venisse successivamente adibito fossero tali da consentirgli di esprimere “al meglio” le sue capacità (
Cass. 11 giugno 2003, n. 9408, i
n Lav. Giur., 2004, 129, con nota di Girardi). Fino ad arrivare ad ammettere la legittimità delle c.d. clausole di fungibilità delle mansioni previste dalla contrattazione collettiva (
Cass. 24 novrembre 2006, n. 25033, in Orient. Giur. Lav., 2007, 41, con nota di I. Alvino;
Cass. 3 febbraio 2009, n. 2602).
Ne risultava un quadro normativo complesso ed incerto in ordine ai presupposti per il corretto esercizio del potere di modificare le mansioni.
Una seconda ragione di intervento sulla disciplina dello ius variandi va ricercata nella eccessiva rigidità di cui era affetto il vecchio
art. 13 L. n. 300/1970, che non ammetteva eccezioni al divieto di demansionamento. Ed invero, le (poche) eccezioni a tale regola sono poi nel tempo state introdotte dallo stesso legislatore con norme speciali, ovvero dalla giurisprudenza, in tutte le ipotesi con la finalità di proteggere un bene del lavoratore considerato prevalente rispetto alla professionalità, come per esempio l'occupazione o la salute del feto in caso di lavoratrice in gravidanza.
Ad eccezione di tali poche ipotesi, la norma non consentiva alle parti del contratto di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore in senso peggiorativo, sia nel caso in cui il mutamento rispondesse ad una esigenza organizzativa del datore di lavoro, sia nel caso in cui la stessa modifica fosse richiesta dal lavoratore.
Come si vedrà nel prosieguo, il nuovo
art. 2103 c.c. fornisce una risposta a queste esigenze, riconoscendo la possibilità del demansionamento del lavoratore sia unilateralmente, ossia senza la necessità di acquisire il consenso del lavoratore, sia a seguito di un accordo in tal senso con il lavoratore.
Gli elementi di discontinuità tra la vecchia e la nuova formulazione della norma non si fermano però alla disciplina del demansionamento, poiché troviamo regole sensibilmente diverse dal passato anche con riferimento alle diverse ipotesi del mutamento di mansioni orizzontale e della c.d. promozione a mansioni superiori.
Vedremo che, con riferimento ad entrambe le ipotesi, la nuova disciplina consente di affermare che è mutato l'obiettivo della disciplina qui in esame, non più destinata a proteggere la professionalità del lavoratore, bensì la conservazione della categoria legale di inquadramento che il lavoratore possedeva al momento dell'assunzione o abbia acquisito successivamente nel corso del rapporto.