Il nuovo art. 2103 c.c.: mutamento di mansioni orizzontale a parità di livello di inquadramento

Ilario Alvino
26 Novembre 2015

Nell'ambito della riforma del mercato del lavoro che va sotto il nome di Jobs Act, il legislatore ha, con l'art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015, integralmente riscritto la disciplina dettata dall'art. 2103 c.c. in materia di modifica delle mansioni di assunzione del lavoratore. Il presente contributo, con altri che seguiranno, esamina la nuova disciplina con lo scopo: 1) da un lato, di delineare i nuovi limiti entro i quali il datore di lavoro può modificare unilateralmente le mansioni di assunzione del lavoratore; 2) dall'altro, di esaminare contenuti e condizioni di validità degli accordi di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione che la nuova norma consente di stipulare con il lavoratore. Si intende porre l'attenzione sulla possibilità riconosciuta al datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Introduzione

Nell'ambito della riforma del mercato del lavoro che va sotto il nome di Jobs Act, il legislatore ha, con l'art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015, integralmente riscritto la disciplina dettata dall'art. 2103 c.c. in materia di modifica delle mansioni di assunzione del lavoratore. Il presente contributo, insieme con altri due che seguiranno, esamina la nuova disciplina con lo scopo: 1) da un lato, di delineare i nuovi limiti entro i quali il datore di lavoro può modificare unilateralmente le mansioni di assunzione del lavoratore; 2) dall'altro, di esaminare contenuti e condizioni di validità degli accordi di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione che la nuova norma consente di stipulare con il lavoratore. Si intende porre l'attenzione sulla possibilità riconosciuta al datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Dalla flessibilità tipologica alla flessibilità all'interno del rapporto di lavoro subordinato: le ragioni della riforma dell'art. 2103 c.c.

Dopo oltre quarant'anni dalla promulgazione dello

Statuto dei lavoratori

che, con il suo art. 13, aveva riscritto i limiti del potere del datore di lavoro di modificare le mansioni assegnate al lavoratore al momento dell'assunzione, il legislatore, nell'ambito della più ampia riforma del mercato del lavoro battezzata con il nome di Jobs Act, ha rimesso mano alla materia apportando modifiche profonde all'

art. 2103 c.c.

(

art. 2103 c.c.

, come modificato dall'

art. 3 D.Lgs. n. 81/2015

).

Si tratta di un intervento che può essere considerato di importanza non minore a quello che ha riguardato la disciplina dei licenziamenti (

D.Lgs. n. 23/2015

) per almeno due ordini di ragioni.

Da un primo punto di vista, la nuova norma incide sulla relazione di subordinazione, poiché amplia il novero delle mansioni che il datore di lavoro può pretendere dal lavoratore.

Da un secondo punto di vista, la scelta di intervenire sulla disciplina delle mansioni segna anche un importante punto di discontinuità rispetto alle numerose riforme del diritto del lavoro che si sono succedute nell'ordinamento italiano a partire dall'inizio del nuovo millennio. Con la modifica dell'

art. 2103 c.c.

, insieme con la riforma della disciplina dei c.d. controlli a distanza (

art. 4 L. n. 300/1970

), il legislatore è infatti intervenuto per la prima volta sulle regole del rapporto di lavoro subordinato, laddove le riforme precedenti si erano focalizzate sulle regole dei contratti di lavoro c.d. non standard.

Provando ad individuare, in premessa, le ragioni di tale profondo intervento di riforma è possibile individuarne almeno tre, tra loro strettamente connesse.

Il dato più evidente dal quale conviene partire è quello delle rilevanti incertezze interpretative che la vecchia norma aveva posto, principalmente dovute alla difficoltà di attribuire un significato chiaro alla nozione di equivalenza, che costituiva il metro per la valutazione della legittimità dell'esercizio dello ius variandi.

L'assenza di una definizione del concetto di equivalenza all'interno della norma aveva indotto sia la dottrina sia la giurisprudenza a ricercarne il significato muovendo dalla identificazione del bene del lavoratore che quella disposizione intendeva proteggere.

Gli interpreti avevano dunque unanimemente condiviso la conclusione che l'

art. 13 L. n. 300/1970

assolvesse alla funzione di salvaguardare la professionalità del lavoratore

, salvo poi divedersi sul significato da attribuire alla nozione di professionalità ed in particolare sul modo in cui tale professionalità dovesse essere salvaguardata.

La giurisprudenza aveva in particolare precisato che nel confronto fra mansioni di provenienza e mansioni di destinazione non fosse sufficiente affidarsi alle classificazioni dettate dal contratto collettivo (c.d. criterio oggettivo), ma fosse necessario confrontare la professionalità necessaria allo svolgimento in concreto delle diverse mansioni affinché il bagaglio di competenze maturato dal lavoratore nelle mansioni di partenza fosse realmente sufficiente a considerare la mansione di destinazione come equivalente anche sul piano soggettivo (c.d. criterio soggettivo) (cfr., fra le tante:

Cass. 12 gennaio 2006, n. 425

;

Cass. 12 aprile 2005, n. 7453

, in Mass. Giur. Lav., 2005, 430, con nota di De Marco;

Cass. 9 marzo 2004, n. 4790

, in Riv. It. Dir. Lav., II, p. 789, con nota di Novella).

Partendo da tale assunto, la giurisprudenza si era poi spinta oltre sino al punto di attribuire alla nozione di professionalità un significato “dinamico”, nel senso che non era sufficiente che le mansioni di destinazione fossero tali da consentire l'utilizzazione del corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto, ma che fosse altresì necessario che le stesse presentassero l'attitudine a consentire l'arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore (

Cass. 15 febbraio 2003, n. 2328

;

Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150

).

Principi cui, peraltro, la giurisprudenza non ha mancato di apportare dei correttivi volti ad attenuarne la rigidità affermando, da un lato, che le mansioni di destinazione potevano essere considerate equivalenti anche se richiedevano, da parte del lavoratore, un aggiornamento professionale (

Cass. 1 settembre 2000, n. 11457

, in Not. Giur. Lav., 2001, 38) e, dall'altro, che il rispetto del requisito dell'equivalenza non imponeva che le mansioni cui il lavoratore venisse successivamente adibito fossero tali da consentirgli di esprimere “al meglio” le sue capacità (

Cass. 11 giugno 2003, n. 9408, i

n Lav. Giur., 2004, 129, con nota di Girardi). Fino ad arrivare ad ammettere la legittimità delle c.d. clausole di fungibilità delle mansioni previste dalla contrattazione collettiva (

Cass. 24 novrembre 2006

, n. 25033, in Orient. Giur. Lav., 2007, 41, con nota di I. Alvino;

Cass. 3 febbraio 2009, n. 2602

).

Ne risultava un quadro normativo complesso ed incerto in ordine ai presupposti per il corretto esercizio del potere di modificare le mansioni.

Una seconda ragione di intervento sulla disciplina dello ius variandi va ricercata nella eccessiva rigidità di cui era affetto il vecchio

art. 13 L. n. 300/1970

, che non ammetteva eccezioni al divieto di demansionamento. Ed invero, le (poche) eccezioni a tale regola sono poi nel tempo state introdotte dallo stesso legislatore con norme speciali, ovvero dalla giurisprudenza, in tutte le ipotesi con la finalità di proteggere un bene del lavoratore considerato prevalente rispetto alla professionalità, come per esempio l'occupazione o la salute del feto in caso di lavoratrice in gravidanza.

Ad eccezione di tali poche ipotesi, la norma non consentiva alle parti del contratto di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore in senso peggiorativo, sia nel caso in cui il mutamento rispondesse ad una esigenza organizzativa del datore di lavoro, sia nel caso in cui la stessa modifica fosse richiesta dal lavoratore.

Come si vedrà nel prosieguo, il nuovo

art. 2103 c.c.

fornisce una risposta a queste esigenze, riconoscendo la possibilità del demansionamento del lavoratore sia unilateralmente, ossia senza la necessità di acquisire il consenso del lavoratore, sia a seguito di un accordo in tal senso con il lavoratore.

Gli elementi di discontinuità tra la vecchia e la nuova formulazione della norma non si fermano però alla disciplina del demansionamento, poiché troviamo regole sensibilmente diverse dal passato anche con riferimento alle diverse ipotesi del mutamento di mansioni orizzontale e della c.d. promozione a mansioni superiori.

Vedremo che, con riferimento ad entrambe le ipotesi, la nuova disciplina consente di affermare che è mutato l'obiettivo della disciplina qui in esame, non più destinata a proteggere la professionalità del lavoratore, bensì la conservazione della categoria legale di inquadramento che il lavoratore possedeva al momento dell'assunzione o abbia acquisito successivamente nel corso del rapporto.

Il regime di applicazione temporale del nuovo art. 2103 c.c.

Prima di avviare l'esame delle regole dettate dal nuovo testo dell'art. 2103 c.c. è però necessario chiarire quali rapporti di lavoro la stessa sia destinata a regolare, precisandone il regime di applicazione temporale.

Detto altrimenti bisogna appurare se la nuova norma riguardi solo i neo-assunti (ossia gli assunti a partire dal 25 giugno 2015, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015), ovvero se la stessa trovi applicazione ai rapporti in corso ed in tal caso se la stessa possa riguardare anche fattispecie di mutamenti di mansione maturate sotto il vigore della vecchia norma.

La risposta alla prima parte della domanda è agevole: essendo il rapporto di lavoro un rapporto di durata, i cambiamenti della disciplina regolativa applicabile troveranno applicazione anche ai rapporti in corso, cosicché gli eventuali successivi mutamenti delle mansioni di assunzione dovranno essere gestiti alla luce della nuova regolamentazione.

Più complessa è la risposta da dare alla seconda domanda, poiché ci si deve chiedere cosa accada, ad esempio, nel caso in cui un mutamento di mansioni illegittimo sotto il vigore del vecchio art. 2103 c.c. possa essere considerato corretto sotto il vigore della nuova disposizione.

Al riguardo, ha già avuto modo di fornire una prima risposta al quesito il Tribunale di Roma (sent. 30 settembre 2015, est. dott. P. Sordi, il quale ha osservato che “il demansionamento del lavoratore costituisce una sorta di illecito “permanente”, nel senso che esso si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle che egli, secondo legge e contratto, avrebbe diritto di svolgere […] Conseguentemente, la valutazione della liceità o meno della condotta posta in essere dal datore di lavoro nell'esercizio del suo potere di assegnare e variare (a certe condizioni) le mansioni che il dipendente è chiamato ad espletare va necessariamente compiuta con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno; con l'ulteriore conseguenza che l'assegnazione di determinate mansioni che deve essere considerata illegittima in un certo momento, può non esserlo più in un momento successivo.

Secondo tale condivisibile soluzione, dunque, la valutazione della legittimità del mutamento di mansioni disposta dal datore di lavoro o condivisa con il lavoratore andrà valutata in ragione della disciplina vigente tempo per tempo, con la conseguenza che un demansionamento disposto illegittimamente sotto il vigore del vecchio art. 2103 c.c., può essere divenuto legittimo alla luce della nuova norma, con la conseguenza che l'eventuale responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per il demansionamento illegittimo potrà essere riconosciuta solo per il periodo precedente all'entrata in vigore della disposizione riformata.

Il mutamento di mansioni orizzontale: il superamento dell'equivalenza

Chiarito il regime di applicazione temporale della nuova disciplina, possiamo prendere le mosse dall'ipotesi del c.d. mutamento di mansioni orizzontale.

Con riferimento a tale prima ipotesi, l'elemento che immediatamente salta agli occhi è, come anticipato, il superamento del concetto di “equivalenza”, che aveva costituito il fulcro della disciplina previgente.

La nuova disposizione prescrive invece che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Il parametro di riferimento per la valutazione della legittimità del mutamento di mansioni diviene dunque la declaratoria del contratto collettivo nazionale di categoria applicato al rapporto di lavoro, così da poter concludere che la nuova norma conferisce al datore di lavoro il potere di adibire il lavoratore a tutte le mansioni che siano ricomprese dal contratto collettivo nello stesso livello di inquadramento già riconosciuto al lavoratore.

La novità più rilevante sembra dunque essere quella dello svuotamento di ogni margine di discrezionalità in capo al giudice nella valutazione della legittimità del mutamento di mansioni. Il mutamento di mansioni dovrà essere ritenuto legittimo, infatti, in ogni caso in cui le nuove mansioni siano contemplate nello stesso livello di inquadramento in cui siano inserite le mansioni precedenti (il vecchio “criterio oggettivo”), senza che vi sia spazio per valutazioni circa la professionalità necessaria allo svolgimento delle stesse (con il conseguente superamento, dunque, del vecchio “criterio soggettivo”).

La nuova disposizione mette dunque nelle mani delle parti sociali la definizione dei limiti di esercizio dello ius variandi, l'ampiezza del cui esercizio viene a dipendere dalla classificazione delle mansioni realizzata all'interno del contratto collettivo.

Il riferimento alla categoria legale di inquadramento è, dunque, destinato ad operare solo nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia sottoposto all'applicazione di alcun contratto collettivo ed il giudice dovrà dunque far riferimento alle categorie legali per accertare se la mansione di provenienza e quella di destinazione siano riconducibili all'interno della medesima.

In questa ipotesi, anche in ragione dell'assenza di una definizione legale degli elementi caratterizzanti le categorie individuate dall'

art. 2095 c.c.

, residua dunque un rilevante margine di discrezionalità in capo al giudice, il quale verosimilmente si avvarrà comunque delle declaratorie previste dal CCNL, anche se non applicato al rapporto, poiché le stesse potranno costituire un utile parametro esterno di riferimento per valutare la legittimità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.

La nuova disposizione realizza una indubbia semplificazione della disciplina sostituendo un criterio di facile applicazione (il controllo sulla menzione della mansione all'interno della specifica declaratoria contrattuale) con uno (quello della equivalenza) che in passato si era rivelato di difficile applicazione come più sopra ricordato. Va qui segnalato, che un grado di incertezza può residuare anche sotto il vigore della nuova disposizione, nel caso in cui le declaratorie del contratto collettivo applicato al rapporto non prevedano espressamente la mansione di provenienza e/o quella di destinazione. Eventualità tutt'altro che peregrina se si considera che in molti casi i CCNL vigenti contengono declaratorie contrattuali che, essendo molto risalenti nel tempo, possono non essere al “passo con i tempi” e non considerare dunque le attività lavorative di più recente apparizione. In tal caso sarà l'interprete a dover valutare in quale livello debba essere inserita la mansione non prevista, tenuto conto del grado di complessità e delle responsabilità comportanti.

L'enunciazione della possibilità di adibire il lavoratore a tutte le mansioni riconducibili alla categoria legale di inquadramento è suscettibile di comportare effetti particolarmente rilevanti per i lavoratori impiegati in mansioni dirigenziali.

Il superamento della nozione di “equivalenza” comporta infatti l'impossibilità di dare rilevanza, nel confronto fra mansioni di partenza e mansioni di destinazione, al grado di responsabilità e complessità delle mansioni concretamente svolte, purché ovviamente entrambe siano riconducibili all'inquadramento dirigenziale. Ne consegue che la nuova norma attribuisce al datore di lavoro un ampio potere di assegnare il dirigente a mansioni profondamente diverse dalle precedenti, perché ad esempio comportanti l'affidamento della direzione di articolazioni dell'organizzazione produttiva molto più ridotte e meno importanti.

L'accantonamento del bene della professionalità quale punto di riferimento per l'esercizio dello ius variandi richiede che ci si interroghi poi su quali siano le conseguenze nell'eventualità in cui il lavoratore non possegga le competenze necessarie a svolgere le nuove mansioni. Cosa accade, detto altrimenti, nel caso in cui l'incapacità di svolgere le nuove mansioni esponga il lavoratore al rischio di non eseguire correttamente e diligentemente la prestazione richiesta?

Al riguardo, il terzo comma del nuovo

art. 2103 c.c.

prescrive che il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Nell'ipotesi in cui il lavoratore non possegga le competenze necessarie a svolgere le nuove mansioni, il datore di lavoro sarà dunque obbligato a somministrare la relativa formazione necessaria, la cui assenza, prescrive la norma, non rende nullo l'atto di assegnazione, ma non potrà ovviamente fondare, da un primo punto di vista, eventuali sanzioni disciplinari conseguenti al mancato corretto svolgimento della mansione da parte del lavoratore.

Da un secondo punto di vista, si può anche sostenere che il mancato assolvimento dell'obbligo formativo da parte del datore di lavoro può legittimare l'esercizio dell'eccezione di inadempimento da parte del lavoratore per non essere stato posto nelle condizioni di svolgere la nuova prestazione assegnatagli. Le nuove mansioni potranno dunque richiedere anche il possesso di una professionalità inferiore a quella necessaria per lo svolgimento delle mansioni di provenienza, ma non potrà essere a tal punto diversa da non permettere al lavoratore di adempiere all'obbligazione di lavoro.

Sul piano retributivo, ci si deve poi chiedere se il mutamento di mansioni orizzontale possa comportare un mutamento della retribuzione riconosciuta al lavoratore. La soluzione da preferire è quella dettata dal quinto comma del medesimo

art. 2103 c.c.

, il quale dispone che “il lavoratore ha diritto alla conservazione del […] trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa”.

Vero è che il citato quinto comma è espressamente destinato a trovare applicazione alle ipotesi di demansionamento contemplate dai commi secondo e quarto della disposizione, ma il mancato richiamo al comma primo dedicato al mutamento di mansioni orizzontale è giustificato dalla diversa natura della fattispecie regolata. Se invero il lavoratore può essere adibito alle mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento, l'effetto naturale è il diritto del lavoratore alla conservazione della retribuzione nella misura determinata dal contratto collettivo per il livello di inquadramento in questione. Il mutamento di mansioni comporterà, altrettanto naturalmente, l'adeguamento della retribuzione in relazione a quegli elementi che siano collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione (come peraltro la giurisprudenza aveva ammesso anche sotto il vigore del vecchio

art. 2103 c.c.

).

Guida all'approfondimento
  • Brollo, Disciplina delle mansioni (art. 3), in F. CARINCI (a cura di), Commento al D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi”, Adapt Labour Studies, n. 48/2015;
  • Gargiulo, Lo jus variandi nel “nuovo” art. 2103 cod. civ., WP “Massimo D'Antona”-IT, n. 268/2015;
  • Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, WP “Massimo D'Antona”-IT, n. 257/2015;
  • Voza, Autonomia privata e norma inderogabile nella nuova disciplina del mutamento di mansioni, WP “Massimo D'Antona”-IT, n. 262/2015

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