Licenziamento per rifiuto del dipendente di trasferirsi e mancata impugnazione nei termini

Elisa Noto
26 Novembre 2015

Il termine per l'impugnazione del trasferimento disposto ai sensi dell'art. 2103 c.c., a cui, per effetto della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, lett. c) si applica la disciplina dell'impugnazione dei licenziamenti prevista dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6 come modificato dal comma 1 del medesimo art. 32, decorre dalla data di ricezione della lettera di trasferimento anche nel caso in cui, per effetto della mancata ottemperanza, segua un distinto atto di licenziamento autonomamente impugnabile.
Massima

Il termine per l'impugnazione del trasferimento disposto ai sensi dell'art. 2103 c.c., a cui, per effetto della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, lett. c) si applica la disciplina dell'impugnazione dei licenziamenti prevista dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6 come modificato dal comma 1 del medesimo art. 32, decorre dalla data di ricezione della lettera di trasferimento anche nel caso in cui, per effetto della mancata ottemperanza, segua un distinto atto di licenziamento autonomamente impugnabile.

Il caso

Una Società disponeva un trasferimento nei confronti di una sua dipendente la quale veniva successivamente licenziata per assenza ingiustificata nel nuovo posto di lavoro determinata dal rifiuto della lavoratrice di ottemperare al trasferimento ritenendolo illegittimo. Il Tribunale di Arezzo, accogliendo il ricorso della lavoratrice, dichiarava la nullità del licenziamento. La Corte d'Appello di Firenze, accogliendo le eccezioni della Società, riformava la sentenza di prime cure; in particolare, i Giudici dell'Appello rilevavano la mancata impugnazione del trasferimento da parte della lavoratrice nel termine di decadenza di 270 giorni dalla prima impugnativa stragiudiziale dello stesso, così come previsto dall'art. 32 della L. n. 183 del 2010, con conseguente legittimità del successivo licenziamento intimato per assenza ingiustificata. La Suprema Corte, all'esito del ricorso promosso dalla lavoratrice avverso tale pronuncia, confermava quanto statuito dal Giudice di secondo grado.

La questione

Alla base della sentenza in commento vi è la seguente questione giuridica: l'impugnazione del trasferimento ex art. 2103 c.c. ha rilevanza autonoma rispetto all'impugnazione del successivo licenziamento motivato dalla mancata ottemperanza (i.e. dall'assenza ingiustificata) del dipendente a detto trasferimento? In altre parole, un dipendente può far valere l'illegittimità del licenziamento pur non avendo tempestivamente impugnato l'atto di trasferimento – ritenuto illegittimo – che di tale licenziamento costituisce un presupposto?

La soluzione giuridica

Prima di illustrare le conclusioni a cui è giunta la sentenza della Suprema Corte in commento si ricorda che, ai sensi dell'art. 2103 c.c., il lavoratore “non può essere trasferito da un'unità produttiva all'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Le ragionidel trasferimento devono essere riscontrabili in maniera oggettiva – ferma restando l'insindacabilità delle scelte imprenditoriali – pur non essendo necessario che le stesse siano portate a conoscenza del lavoratore contestualmente alla comunicazione del trasferimento.

A far data dal 24 novembre 2010, con l'entrata in vigore della L. n. 183 del 2010 (c.d. Collegato Lavoro), il dipendente che intenda opporsi al trasferimento – ritenendo insussistenti i requisiti prescritti dall'art. 2013 c.c. – dovrà impugnarlo con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la propria volontà, a pena di decadenza, entro i termini espressamente previsti dalla legge. Infatti, l'art. 32 del Collegato Lavoro, al di là della sua rubrica (“Decadenze e disposizioni in materia di contratto a tempo determinato”), ha introdotto una disciplina generale della decadenza in materia di lavoro, che va oltre quella riferibile ai casi di impugnativa del licenziamento o alla scadenza del termine invalidamente apposto al contratto di lavoro, abbracciando anche ipotesi che non attengono strettamente alla risoluzione del rapporto di lavoro. In particolare, l'art. 32, comma 3, lett. c) della citata legge ha esteso al trasferimento i termini previsti per la contestazione formale del licenziamento: il dipendente avrà l'onere di impugnare il trasferimento entro sessanta giorni decorrenti dalla data di ricezione della sua comunicazione, e non anche da quella eventuale in cui sono resi noti i motivi, avendo poi cura di far seguire nei successivi 180 giorni (270 giorni prima dell'entrata in vigore della L. n. 92 del 2012) il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale in funzione di giudice del lavoro oppure la comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o di arbitrato. Pena, l'inefficacia dell'impugnativa con conseguente preclusione dell'accertamento della legittimità o meno del trasferimento.

Fatte queste necessarie premesse, occorre rilevare come nel caso prospettato la Corte di Appello aveva respinto le pretese della dipendente in relazione al trasferimento disposto nei suoi confronti ed al conseguente licenziamento intimatole, proprio in virtù della mancata impugnazione giudiziale del trasferimento nel termine di decadenza di 270 giorni dalla prima impugnativa stragiudiziale. Ricorrendo in Cassazione avverso detta sentenza, la lavoratrice deduceva che la sinallagmaticità del rapporto di lavoro avrebbe imposto al datore l'obbligo di mantenere il lavoratore nel posto di lavoro di assunzione e di non procedere ad alcun trasferimento, se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive ex art. 2103 c.c., per cui il giudice di secondo grado avrebbe dovuto valutare la condotta della dipendente (i.e. l'assenza dal posto di lavoro) alla luce della legittimità o meno del presupposto costituito dal trasferimento.

Dopo aver rilevato il difetto di autosufficienza della doglianza mossa dalla ricorrente per avere la stessa omesso di riportare l'atto di trasferimento e la successiva lettera di licenziamento, la pronuncia della Corte prosegue confermando quanto statuito dal Giudice di secondo grado ossia sottolineando che il motivo di ricorso riguardava il trasferimento che era certamente il presupposto del successivo licenziamento intimato alla ricorrente ma pur sempre un atto autonomo e distinto dal licenziamento. Corollario di tale considerazione è la necessità di un'autonoma impugnazione del trasferimento rispetto al licenziamento, nei modi e tempi espressamente previsti dall'art. 32 del Collegato Lavoro. Nel caso esaminato, non avendo la ricorrente impugnato giudizialmente il trasferimento nel termine di decadenza – all'epoca – di 270 giorni, la Corte ha escluso in assoluto la possibilità di valutarne la legittimità in sede d'impugnazione giudiziale del conseguente licenziamento. La successiva impugnazione del licenziamento, infatti, pur collegata di fatto al precedente trasferimento, non rimette in termini il dipendente; in altre parole, la mancata impugnazione del trasferimento non può di certo essere sanata dall'impugnazione del successivo licenziamento. Di conseguenza, i giudici della Suprema Corte non hanno ritenuto possibile esaminare i profili di legittimità del trasferimento ai fini della valutazione del licenziamento, così riconoscendo la legittimità del recesso della Società fondato sulla mancata ottemperanza ad un provvedimento ormai definitivo e non più censurabile.

Il rigoroso rispetto dell'autonoma decadenza dall'impugnativa di un trasferimento è in linea, come sottolineato dalla Corte di Cassazione, con l'esigenza dell'accertamento dei rapporti giuridici tra il datore di lavoro e i dipendenti, sottesa alla disciplina dettata dal Collegato Lavoro del 2010. Il termine di decadenza trova dunque la sua ratio “nell'esigenza di impedire il dannoso protrarsi di situazioni di incertezza relative alla sussistenza del rapporto di lavorativo, con le tutte le ricadute negative conseguenziali a tale incertezza”.

Osservazioni

Con la sentenza della Cassazione in esame, per la prima volta dopo l'entrata in vigore del Collegato Lavoro, i giudici di legittimità affrontano la questione attinente al collegamento tra l'impugnazione del trasferimento di un dipendente e il successivo licenziamento dello stesso il quale, invocando l'eccezione d'inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., non si presenti in servizio presso la nuova sede lavorativa assegnatagli.

La Suprema Corte, con un ragionamento chiaro e lineare, non fa che applicare in maniera rigorosa la norma di legge introdotta a decorrere dal 24 novembre 2010, imponendo l'osservanza dei termini di impugnazione di un trasferimento, così come previsti a pena di decadenza dalla lett. c) del 3° comma dell'art. 32 citato.

È interessante notare come tale norma abbia introdotto nel nostro ordinamento un regime di decadenza del tutto speciale rispetto al regime di diritto comune secondo il quale – trattandosi di un'azione di nullità – l'impugnativa di un trasferimento disposto in violazione della norma imperativa contenuta all'art. 2103 c.c. avrebbe potuto essere presentata senza alcun limite temporale. Tuttavia, l'esigenza del datore di lavoro di non restare esposto per un periodo indefinito alla azione di nullità avverso il trasferimento era avvertita anche precedentemente all'introduzione della norma che prevede specifici termini di decadenza dall'impugnativa, e – con tutti i limiti derivanti dall'onere probatorio gravante sul datore di lavoro – per certi aspetti soddisfatta assegnando valore concludente all'eventuale comportamento del lavoratore nel senso dell'accettazione tacita del trasferimento. Tale esigenza trova dunque il suo approdo nella riforma sancita con il Collegato Lavoro del 2010, che – estendendo la nuova disciplina dei termini di decadenza a una serie di fattispecie del tutto diverse dal licenziamento – è indice dell'effettiva volontà del legislatore di perseguire la certezza e lealtà nei rapporti giuridici (nel caso di specie, in ordine alla sede di lavoro). Il che appare del tutto condivisibile se si pensa che l'impugnazione di un trasferimento disposto nei confronti di un lavoratore, decorso un notevole lasso di tempo, potrebbe sconvolgere un assetto organizzativo predisposto dal datore di lavoro – basato su detto trasferimento – ormai stabilizzato, “con tutte le ricadute negative conseguenziali”.

Peraltro, in linea con l'interpretazione dottrinale maggioritaria, si è anche affermato che neppure una eventuale comunicazione orale del trasferimento – stante l'assenza di alcun onere formale previsto per legge – potrebbe essere di ostacolo all'operatività di tale decadenza.

Alcuni autori, invece, hanno sottolineato che la decadenza introdotta dall'art. 32 comma 3, lett. c) della L. n. 183 del 2010 pone dubbi di legittimità costituzionalepoiché assegna al lavoratore l'onere di impugnare l'atto datoriale in costanza di rapporto, cioè in una fase di condizionamento psicologico che potrebbe pregiudicare l'esercizio del diritto”, quindi “estendere ad un atto di modifica del rapporto di lavoro - che ne presuppone la conservazione - una disciplina prevista per il licenziamento, che ne presuppone di contro l'avvenuta estinzione (…) non pare una scelta felice”.

La decisione della Suprema Corte appare, dunque, in linea con la ratio sottesa alla riforma introdotta con il Collegato Lavoro – e, in generale, con gli obiettivi perseguiti dal legislatore nell'ultimo quinquennio – di conferire massimo rilievo ai fondamentali principi di certezza e di lealtà nel rapporto di lavoro, pur a discapito delle esigenze di tutela del lavoratore.

Riferimenti bibliografici

Vallebona, “Breviario di diritto del lavoro”, Torino, 2015, 270

Boghetich, “Tutele dei diritti del lavoratore e nuovi termini di decadenza”, Arg. Dir. Lav. 2011, 68 e ss.

Visionà, Perina, “Il regime delle impugnazioni e il contenzioso del lavoro”, 493, in “Rapporto individuale e processo del lavoro”, a cura di Fiorillo, Perulli, Torino, 2014

Bolego, in “La Riforma del mercato del lavoro: Legge 4 novembre 2010”, 302, a cura di Nogler, Marinelli, Milano, 2012

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