Il licenziamento per GMO non vale a sanzionare la scarsa produttività del lavoratore nel posto di lavoro assegnato
28 Giugno 2017
Massime
L'accertata riduzione delle vendite nella zona di competenza del lavoratore non ne giustifica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966, se la complessiva vicenda si risolve nella mera assegnazione del posto di lavoro ricoperto ad altro dipendente (avvicendamento), senza che il provvedimento espulsivo si correli a qualche forma di riorganizzazione che investa la posizione lavorativa interessata.
Sebbene la decisione imprenditoriale di ridurre la dimensione occupazionale dell'azienda possa essere motivata anche da finalità che prescindono da situazioni sfavorevoli e che perseguano l'obiettivo dell'aumento di redditività dell'impresa, tuttavia è pur sempre necessario: che la riorganizzazione aziendale sia effettiva; che la stessa si ricolleghi causalmente alla ragione dichiarata dall'imprenditore; che il licenziamento si ponga in termini di riferibilità e di coerenza rispetto alla operata ristrutturazione.
Il caso
Nella vertenza oggetto dell'esame di Cass. sez. lav. n. 4015/2017, si discute della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 3, L. n. 604/1966) di un dipendente, attuato sul presupposto – espresso dalla azienda recedente e rammentato nella parte della sentenza in cui si menziona la quaestio facti sottostante – che “la zona (territorio) di operatività assegnata al lavoratore, non aveva espresso le potenzialità presunte ed era stata consegnata ad altro venditore esperto”.
Più in generale, l'iniziativa dismissiva veniva dall'azienda inquadrata in una (asserita) complessiva situazione sfavorevole (da un punto di vista produttivo), che aveva trovato una propria polarizzazione nella riduzione di vendite nel territorio cui era preposto il lavoratore interessato dal licenziamento.
Mentre il giudice di primo grado aveva confermato la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quello d'Appello ne riformava la sentenza – con condanna a reintegra e al risarcimento – sul rilievo che difettassero, nel caso concreto e secundum alligata e probata partium, i presupposti che integrano la fattispecie, cioè il dipendere il recesso da “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3, L. n. 604/1966).
Rilevava il giudice di secondo grado infatti la contraddittorietà, da una parte, fra l'asserita situazione sfavorevole dell'azienda e i dati di bilancio dalla cui verifica risultava un aumento del fatturato; d'altra parte, la incongruenza fra la riduzione delle vendite nella zona di pertinenza del lavoratore licenziato – riduzione effettivamente riscontrata – e il correlato ricorso a licenziamento per GMO, senza che si desse luogo a una soppressione del posto di lavoro (o a una riarticolazione della relativa struttura operativa), ma soltanto ad un avvicendamento, nel medesimo, di un altro dipendente.
Questo ultimo profilo in particolare, osserva il giudice d'Appello, “non appariva logicamente spendibile se non in base al presupposto per cui la mancata realizzazione delle potenzialità di quella zona fosse addebitabile non a meccanismi di mercato quanto piuttosto all'opera [non adeguata] del venditore”. Come dire che risulterebbe un utilizzo – improprio – del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in luogo di quello per giustificato motivo soggettivo (pure previsto dall'art. 3, L. n. 604/1966, peraltro non invocabile, difettandone i relativi presupposti).
Pertanto, il giudice non nega che, ipoteticamente, sarebbero anche potute sussistere, nel caso de quo, le condizioni per recedere dal rapporto di lavoro, ma - secondo quanto venutosi ad appalesare nel corso del giudizio - la strada da seguire, se del caso, sarebbe stata quella inerente le carenze soggettive del lavoratore, la sua inadeguatezza rispetto alla attività richiestagli, quindi il riferimento a giustificato motivo soggettivo di recesso. La questione
La questione è quindi quella di mettere a fuoco e ribadire gli elementi che integrano la fattispecie indicata dall'art. 3 L. n. 604/1966, nella parte in cui ammette il recesso per “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (attività)”: è a tale compito che si impegnano i giudici di Cass. sez. lav. n. 4015/2017 i quali avvalorano la coerenza del ragionamento seguito dalla Corte di Appello e lo rafforzano con il richiamo ad altri elementi valutativi, mutuati anche da precedenti pronunciamenti di merito. Al riguardo, in particolare, vale il rimando a Cass. sez. lav. n. 25201/2016 per evidenziare innanzitutto come l'andamento negativo dell'azienda (crisi d'impresa) non sia un presupposto fattuale necessario del recesso per GMO, posto che questo ben può conseguire a determinazioni imprenditoriali dirette a realizzare una migliore efficienza gestionale e ad un incremento della redditività dell'impresa: al riguardo, si suole in effetti affiancare l'ipotesi di giustificato motivo economico (andamento negativo) a quella giustificato motivo organizzativo (riassetto d'impresa, a prescindere da un andamento negativo).
Certo è che si è al di fuori del perimetro della norma, se l'andamento negativo dell'attività aziendale risulta inesistente (o indimostrato), o se, a valle di quello o anche a prescinderne, manchi una qualche forma di riorganizzazione della attività aziendale (o di una frazione di essa), non potendosi ritenere tale la mera sostituzione del lavoratore con un altro.
È ben chiaro che il giudice - nel momento in cui afferma di non riscontrare, a fondamento del licenziamento attuato, le necessarie “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” - si limita a verificare la assenza, nel caso concreto, dei presupposti normativi, nei termini di un obiettivo accertamento della non sussistenza delle situazioni afferenti la dinamica organizzativa/funzionale d'impresa riconosciute dal legislatore, sostrato necessario dei provvedimenti incidenti in senso estintivo sui rapporti di lavoro.
Si vuole cioè richiamare l'attenzione sul dato, pacifico nella prevalente dottrina e giurisprudenza, che il giudizio richiesto dall'art. 3 L. n. 604/1966 cit. prescinde del tutto da valutazioni sul merito delle scelte imprenditoriali, nel senso che - riscontrata la effettiva attuazione di un riassetto organizzativo o produttivo - non compete al giudicante estendere la propria verifica (al fine di decidere circa la legittimità del licenziamento) alla congruità/congruenza dei motivi (o finalità) alla base del riassetto deciso, pena un vulnus alla libertà d'impresa ex art. 41 Cost.
Entro tale perimetro, quanto detto può essere reso in termini sintetici (secondo le parole utilizzate da Cass. sez. lav. n. 4015/2017) rilevando che, sebbene la decisione imprenditoriale di ridurre la dimensione occupazionale dell'azienda possa essere motivata anche da finalità che prescindono da situazioni sfavorevoli e che perseguano l'obiettivo dell'aumento di redditività dell'impresa, tuttavia è pur sempre necessario: che la riorganizzazione aziendale sia effettiva; che la stessa si ricolleghi causalmente alla ragione dichiarata dall'imprenditore; che il licenziamento si ponga in termini di riferibilità e di coerenza rispetto alla operata ristrutturazione. Le soluzioni giuridiche
È stato evidenziato (Maresca, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale) che la formula legale in materia di GMO - “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” - non è inquadrabile né fra le clausole generali (es.: buon costume), né fra i concetti elastici (es.: notevole inadempimento) oggetto di adattamento giudiziale in riferimento alla situazione concreta; si tratta invece di una espressione ampia ma neutra che accoglie tutte le situazioni ad essa riconducibili, senza che l'interprete possa qui - a differenza che nelle altre situazioni menzionate - assumere un ruolo attivo volto a delimitarne concretamente l'ambito (cosa che invece era accaduta, in passato, con l'orientamento che delimitava la fattispecie in riferimento all'andamento negativo di impresa).
L'interprete deve limitarsi ad accertare l'effettività della ragione produttiva o organizzativa specificata nell'atto di licenziamento, la sua oggettiva attuazione e il nesso di causalità che lega l'esecuzione delle scelte imprenditoriali alla soppressione del posto di lavoro e quindi al licenziamento.
Riconoscere validità a una diversa impostazione significa ammettere forme di esame del merito della decisione aziendale (a monte del licenziamento), cioè di sindacato giudiziale dell'iniziativa imprenditoriale, posto che la organizzazione dei mezzi di produzione (e riorganizzazione) è una tipica manifestazione della libertà d'impresa (art. 41 Cost.). Per evitare ciò, l'ordinamento non può che limitarsi a prevedere strumenti di tutela mediati, di natura formale, procedurale e - soprattutto - di verifica della coerenza e effettività della situazione data rispetto ai presupposti riorganizzativi alla base del recesso.
Ciò è tanto vero che una conferma indiretta si ha sul fronte dei licenziamenti collettivi conseguenti a una riduzione o trasformazione di attività (art. 24 L. n. 223/1991, che hanno una evidente parentela con quelli qui esaminati), per i quali pure è interdetta la valutazione giudiziale dei motivi alla base della decisione imprenditoriale, come risulta ex adverso anche dal fatto che questi sono espressamente richiamati dalla norma fra gli elementi oggetto del confronto sindacale preventivo all'attuazione della riorganizzazione produttiva. Osservazioni
Al di là di tali profili, si è già detto come si sia addirittura fuori dell'ambito del GMO nelle ipotesi in cui, come nel caso di specie, il licenziamento per motivi economici sia messo in relazione alla inadeguatezza del lavoratore rispetto al posto di lavoro ricoperto, senza che si ricorra ad alcuna forma di riorganizzazione del medesimo, dando luogo ad un mero avvicendamento nel ruolo di altro lavoratore.
È stato anzi evidenziato in dottrina (Maresca, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale) che neppure la soppressione del posto di lavoro – assente nel caso in esame – integra, di per sé, gli estremi del gmo, perché “non si rende evidente a monte la decisione organizzativa (prius) oggettivamente verificabile che determina la soppressione (posterius)”; il che vuol dire che non ci si può limitare a enunciare la soppressione del posto, bensì è necessario indicare in modo espresso le ragioni organizzative o produttive (ma non le motivazioni) che sono la causa di tale soppressione.
Ciò è tanto vero che soppressione di quel dato posto di lavoro non involge di necessità il venir meno della attività ad esso correlata, ma soltanto che questa viene ora svolta con modalità diverse come per esempio nel caso di esternalizzazione, oppure di frazionamento della complessiva attività, con assegnazione a enne posizioni lavorative di ciascuna frazione di essa: tutte situazioni che evidenziano una riorganizzazione a monte della soppressione del posto.
In definitiva, la sentenza in commento vale a riconfermare come la strumentazione giuridica in materia di licenziamenti tenga nettamente distinte le fattispecie in cui il recesso intende “sanzionare” il lavoratore per comportamenti afferenti la sua sfera soggettiva e individuale, in particolare (ma non solo) in riferimento all'esatto, corretto e adeguato adempimento dell'obbligazione lavorativa (e allora gli strumenti sono il recesso per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo); dalle situazioni in cui il recesso prescinde da tali aspetti e si pone in relazione di necessaria effettualità rispetto al potere organizzativo (e riorganizzativo) dell'iniziativa imprenditoriale, cioè rispetto a modifiche che investono il sostrato oggettivo (ampiamente inteso) di cui si avvale l'imprenditore ex art. 2082 c.c. (e allora gli strumenti sono a seconda dei casi il recesso per GMO o i licenziamenti collettivi).
Poi è chiaro che negative performance del lavoratore possono essere alla base di provvedimenti che lo investono direttamente, ovvero, alternativamente, di soluzioni che, transitando dal fronte organizzatorio, vengono comunque a comprometterne la continuità di impiego. |