Disoccupazione per malattia: involontarietà quale presupposto per l’indennità

27 Novembre 2015

Il sopravvenuto aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore dipendente che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto costituisce giusta causa di dimissioni. In questo caso si configura un'ipotesi di non volontarietà del recesso equiparabile alla disoccupazione involontaria ai fini del riconoscimento della correlata indennità. Detta causa deve consistere in …
Massima

Il sopravvenuto aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore dipendente che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto costituisce giusta causa di dimissioni. In questo caso si configura un'ipotesi di non volontarietà del recesso equiparabile alla disoccupazione involontaria ai fini del riconoscimento della correlata indennità. Detta causa deve consistere in circostanze che si presentino con caratteristiche di obiettiva gravità, e non siano solo valutate soggettivamente tali dal lavoratore, dovendo rendere incompatibile la prosecuzione del rapporto di lavoro a prescindere dall'individuazione di un inadempimento contrattuale o comunque di una condotta colposa del datore di lavoro o di un terzo. L'incompatibilità dello stato di salute con la prestazione lavorativa deve risultare da elementi oggettivamente verificabili.

Il caso

Una lavoratrice che prestava la sua opera in un ambiente con alta concentrazione di polveri e impiego di sostanze coloranti, dopo aver subito un intervento chirurgico al naso, ha chiesto all'INPS il pagamento dell'indennità di disoccupazione. L'assicurata ha sostenuto che le dimissioni medesime erano da considerarsi involontarie in quanto necessitate dall'esigenza di tutelare la propria salute. A causa, infatti, delle conseguenze patologiche residuatele dopo l'intervento chirurgico subito non poteva più svolgere la propria attività nell'ambiente lavorativo in cui aveva fino ad allora prestato la propria opera.

La questione

La sentenza che si commenta riconosce l'involontarietà dello stato di disoccupazione in capo al lavoratore che si dimette a causa dell'insorgere di uno stato patologico che gli impedisce di continuare a svolgere la sua prestazione nell'ambiente di lavoro cui era addetto. Si sostiene, in particolare, che l'evento malattia, in coerenza con l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2119 c.c., adottata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 269 del 2002, costituisce una circostanza che non consente la prosecuzione del rapporto.

Le soluzioni giuridiche

L'assicurazione contro la disoccupazione involontaria è stata istituita nel nostro ordinamento dall'art. 45 del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827. Il fine prefissatosi dal legislatore è quello di assicurare un sostegno al reddito del lavoratore subordinato che abbia perso la propria occupazione per motivi indipendenti dalla sua volontà. L'indicato scopo viene realizzato attraverso il riconoscimento ai menzionati lavoratori di una prestazione previdenziale per un determinato arco temporale correlata, oggi, alla pregressa storia contributiva del lavoratore medesimo.

Lo stato di disoccupazione conseguente al recesso dal rapporto lavorativo costituisce il presupposto fondamentale per il riconoscimento della descritta provvidenza. A tale proposito, mette conto riferire che l'art. 34, comma 5 della legge L. 23 dicembre 1998, n. 448, oggi implicitamente abrogato, disponeva: "La cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni intervenuta con decorrenza successiva al 31 dicembre 1998 non da titolo alla concessione dell'indennità di disoccupazione ordinaria, agricola e non agricola, con requisiti normali di cui al R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 aprile 1936, n. 1155, e successive modificazioni e integrazioni, e con requisiti ridotti di cui al D.L. 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, dalla L. 20 maggio 1988, n. 160, e successive modificazioni e integrazioni". La riportata disposizione, sottoposta al vaglio della Corte delle Leggi, è stata ritenuta costituzionalmente legittima. Ha affermato la Corte che "la q.l.c. dell'art. 34 comma 5 l. 23 dicembre 1998 n. 448, sollevata in riferimento agli art. 3 e 38 cost., nella parte in cui, nell'escludere il titolo all'indennità di disoccupazione in caso di dimissioni, non distingue tra dimissioni per giusta causa e altre forme di recesso del prestatore, in quanto, ancorché la disposizione censurata non contempli espressamente l'ipotesi di dimissioni per giusta causa, una lettura della stessa che voglia dirsi conforme a Costituzione induce a ritenere che la sua formulazione non possa escludere la corresponsione dell'indennità ordinaria di disoccupazione nelle ipotesi in cui le dimissioni del lavoratore non siano riconducibili alla sua libera scelta, perché indotte da comportamenti altrui idonei a integrare la condizione della improseguibilità del rapporto - come detta l'art. 2119 c.c. -, con conseguente stato di disoccupazione involontaria ai sensi dell'art. 38 cost." (Corte Costituzionale, 24 giugno 2002, n. 269).

Il quadro normativo di riferimento, per come autorevolmente interpretato, in relazione al requisito della involontarietà della disoccupazione, è stato fatto proprio dal legislatore attraverso l'inserimento dell'art. 3, comma 2, del D.Lgs. 04 marzo 2015 n. 22. L'indicata disposizione, nell'ambito della riforma generale degli ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria, ha previsto che la nuova prestazione previdenziale correlata alla perdita del posto di lavoro, la c.d. NASpI, (avente la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione) "è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dall'articolo 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012".

Come ben si vede, alle dimissioni per giusta causa è stata normativamente attribuita valenza di involontarietà del recesso del lavoratore.

La giurisprudenza, anche prima dell'indicato intervento della Corte Costituzionale e della modifica normativa di cui si è riferito, era concorde nel ritenere che le dimissioni riconducibili ad una causa insita nel rapporto di lavoro, talmente grave da impedirne la prosecuzione anche provvisoria, sono da considerare integranti un'ipotesi di disoccupazione involontaria ai fini del riconoscimento della correlata prestazione previdenziale (Cass. civile Sez. Lav. 29 novembre 1985 n. 5977; Cass. civile Sez. Lav. 08 febbraio 1999 n. 1074; Cassazione civile, sez. lav., 17 dicembre 2008, n. 29481. Quest'ultima esclude che la malattia sopravvenuta possa considerarsi giusta causa di dimissioni).

Osservazioni

La nozione di giusta causa di recesso nel rapporto di lavoro risulta indicata nell'art. 2119 c.c. la quale, secondo la norma, si realizza e viene ad esistenza "qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto."

In merito, mette conto riferire che l'indicata disposizione rientra nell'ambito delle "norme elastiche", norme, cioè, il cui contenuto, appunto, elastico, richiede la formulazione, in sede applicativa, di un giudizio di valore, attraverso il quale, attesa la genericità delle espressioni giuridiche contenute, il giudice che è chiamato a darvi applicazione provvede a specificarne il contenuto. L'applicazione delle disposizioni formulate in virtù dell'utilizzo di concetti giuridici indeterminati non coinvolge un mero processo di identificazione dei caratteri del caso singolo con gli elementi della fattispecie legale astratta, ma richiede, invece, l'esercizio, da parte dell'interprete, di un notevole grado di discrezionalità al fine di individuare nella specifica fattispecie concreta le ragioni che ne consentano la riconduzione alle nozioni usate dalla norma. Ne consegue che, nell'ambito di detta valutazione, il giudice, oltre a risolvere la specifica controversia, partecipa in tal modo alla formazione del concetto (e, cioè, alla sua progressiva definizione in relazione al valore semantico del termine), con la precisazione che il significato adottato non può prescindere dalle convenzioni semantiche sussistenti all'interno di una data comunità in una certa epoca storica e, sotto concorrente profilo, dai principi generali (specie di rango costituzionale) propri dell'ordinamento positivo. L'operazione valutativa si sostanzia, pur sempre, in un'attività di interpretazione giuridica della norma stessa, attraverso la quale si da concretezza a quella parte mobile ("elastica") della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento venga giudicato conforme o meno ad una "qualsiasi" (cioè "non elastica") norma di legge (Cassazione civile, sez. lav. 28 ottobre 2008 n. 25886).

In questo contesto, si ritiene pienamente condivisibile il principio, affermato dalla sentenza in commento, secondo il quale "ai fini della configurazione della non volontarietà delle dimissioni, la causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro deve consistere in circostanze che si presentino con caratteristiche di obiettiva gravità, e non siano solo valutate soggettivamente tali dal lavoratore, dovendo rendere incompatibile la prosecuzione del rapporto di lavoro. Non di meno, in applicazione degli stessi principi, deve ammettersi che tale obiettiva incompatibilità possa consistere anche nelle sopravvenute condizioni di salute del dipendente, pur a prescindere dall'individuazione di un inadempimento contrattuale o comunque di una condotta colposa del datore di lavoro o di un terzo. L'applicazione degli artt. 3 e 38 Cost. tanto più impone infatti che operi la tutela contro la disoccupazione involontaria, quando le dimissioni siano oggettivamente determinate dalla necessità del dipendente di tutelare la propria salute, a fronte di una condizione lavorativa con la stessa incompatibile, poiché in tal caso la scelta risolutoria del lavoratore non è "libera", ma necessitata dalla tutela di un diritto, quello alla salute, di rango costituzionale."

La giusta causa, obiettivamente grave, che rende incompatibile la prosecuzione del rapporto non deve necessariamente trovare origine nel comportamento del datore di lavoro o di un terzo. È ben possibile, infatti, che la genesi dell'indicata causa non sia imputabile ad alcun soggetto e sia dovuta, come nel caso della malattia, ad un fatto naturale avulso da qualsivoglia comportamento dell'uomo, purché, in ogni caso, l'incompatibilità dello stato di salute con la prestazione lavorativa risulti "da elementi oggettivamente verificabili".

Totalmente condivisibile è anche l'affermazione contenuta nella decisione che si riscontra secondo la quale "non ogni ipotesi di dimissioni per motivi di salute determina il diritto all'indennità di disoccupazione, essendo necessario che le condizioni di salute abbiano determinato, come nella fattispecie che ci occupa secondo la ricostruzione fattuale che ne ha dato la Corte di merito, una causa oggettiva di improseguibilità del rapporto." Nell'affermare tale assunto, i Giudici di legittimità hanno dato atto che "la soluzione della Corte d'appello è stata fondata sul presupposto che l'incompatibilità delle condizioni di salute della S. con il posto di lavoro determinassero una causa oggettiva di improseguibilità del rapporto, circostanza che non era stata utilmente revocata in dubbio dall'Inps; tale argomentazione non viene censurata dall' istituto ricorrente in questo giudizio di legittimità".

Risulta di tutta evidenza che la mancata impugnazione specifica sull'argomento ha impedito alla Corte di Cassazione di argomentare in merito ai limiti da porre alla fattispecie astratta. Non è stata concessa, cioè, la facoltà di esprimere una qualsivoglia valutazione circa il concetto di malattia - giusta causa di recesso attraverso l'applicazione dell'indicato principio di specificazione del contenuto della "norma elastica" di cui si è sopra riferito.

Dalla motivazione in fatto della decisione in commento risulta che il lavoratore aveva presentato le dimissioni perché, un intervento chirurgico al naso subito dallo stesso assicurato aveva determinato nello stesso il verificarsi di uno stato patologico che gli impediva "di lavorare in ambiente con alta concentrazione di polveri e impiego di sostanze coloranti".

Non è dato sapere se l'indicato ambiente lavorativo costituisse l'unico ambiente in cui veniva svolta l'attività dell'impresa datrice di lavoro né se il lavoratore potesse essere addetto a mansioni equivalenti o inferiori che consentivano la prosecuzione del rapporto.

A parere di chi scrive, l'accertamento della giusta causa di dimissioni in caso malattia del lavoratore non può prescindere dall'esame ed il confronto con la disciplina relativa al recesso, per lo stesso fatto, ex parte datore. Ci si riferisce, in particolare, alla regolamentazione riguardante il licenziamento per inidoneità psico-fisica.

È ormai acquisito il principio secondo il quale "La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt.1 e 3 l. n. 604 del 1966 e art. 1463, 1464 cod. civ.), non è ravvisabile nella sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore" (Cassazione civile, sez. un. 07 agosto 1998 n. 7755).

Prima facie, sembrerebbe che lo stesso fatto (infermità fisica del lavoratore) viene considerato giusta causa (ex art. 2119 c.c.) se il recesso dal rapporto viene esercitato dal lavoratore e giustificato motivo oggettivo se il recesso medesimo viene, invece, adottato dal datore di lavoro. Appare di tutta evidenza l'inconciliabilità delle descritte soluzioni. Lo stesso fatto non può avere valenza diversa in merito allo stesso istituto (recesso) a seconda di quale parte contrattuale esercita il diritto medesimo. Ed allora è forse il caso di riconsiderare il principio espresso dalle SS. UU. sopra riferito e ritenere che l'impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa in ipotesi di inidoneità psico-fisica può anche essere fatta valere attraverso il recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c. nelle ipotesi in cui le condizioni fisiche del prestatore si siano aggravate in maniera tale da non consentirgli, tout court, la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, con ogni conseguenza anche in ordine all'indennità di preavviso.

È pur vero che l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori al comma 7, occupandosi del recesso datoriale dovuto ad inidoneità fisica o psichica del lavoratore lo definisce licenziamento per motivo oggettivo. Analoga qualificazione risulta inserita nell'art. 2 u.c. del D.Lgs. n. 23/2015. Tuttavia, si ritiene che le indicate definizioni non impediscono di ritenere possibile il verificarsi di fattispecie in cui il peggioramento delle condizioni di salute del lavoratore, in relazione al concreto svolgimento del rapporto medesimo, sia tale da determinare ex abrupto l'improseguibilità del rapporto.

In siffatti casi, anche il recesso datoriale è da ritenersi fondato su una giusta causa ex art. 2119 c.c. con tutte le conseguenze del caso in ordine all'indennità di preavviso, al risarcimento degli ulteriori eventuali danni ed all'obbligo di repechage (l'inidoneità permanente assoluta del pilota di aeromobile a rendere la prestazione lavorativa integra giusta causa di risoluzione del rapporto che non ne consente la prosecuzione neppure in via provvisoria ai sensi dell'art 2119 c.c., con conseguente esclusione del diritto al preavviso e dell'obbligo di repechage: Cassazione civile, sez. lav., 29/03/2010, n. 7531).

L'impossibilità della prestazione si verifica solo in presenza di "una causa oggettiva di improseguibilità del rapporto" nel suo complesso. Ne consegue che questa valutazione non può prescindere dall'accertamento della inattuabilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte o a mansioni inferiori. Se l'oggettività delle condizioni di salute del lavoratore, in relazione allo specifico rapporto di lavoro in essere, è tale da poter addivenire immediatamente ad un giudizio di impossibilità assoluta di prosecuzione dell'attività lavorativa, il recesso dal rapporto di lavoro, da chiunque esercitato, è da ricondurre nell'alveo di applicazione dell'art. 2119 c.c.

Riferimenti bibliografici

F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro 2. Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2013, pag. 383 e ss.

M. Panci, Licenziamento per inidoneità psico-fisica e per superamento del periodo di comporto, in Diritto e Processo del lavoro e della previdenza sociale a cura di G. Santoro Passarelli, Torino, 2014, pag. 1328 e ss.

R. Voza, Licenziamento e malattia: le parole e i silenzi del legislatore, in WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" .IT - 248/2015, sul sito http://csdle.lex.unict.it/

S. Giubboni, Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero ed il Jobs Act, in WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona" .IT - 261/2015, sul sito http://csdle.lex.unict.it/

O. Mazzotta in Diritto del Lavoro, Milano, Giuffrè Ed. 2005, pag. 630

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