La disciplina dei licenziamenti collettivi a seguito del D.lgs. n. 23/2015

30 Giugno 2016

A seguito degli interventi legislativi che hanno interessato la disciplina del licenziamento negli ultimi anni, si ritiene opportuno precisare la portata di tali interventi sul licenziamento collettivo con particolare riferimento alle recenti riforme della L. n. 92/2012 e del D.lgs. n. 23/2015.
Licenziamento collettivo e diritto comunitario

La Direttiva 98/59/CE del 20 luglio 1998, emanata a seguito delle direttive 75/129/CEE e 92/56/CEE in tema di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, chiarisce che per licenziamento collettivo deve intendersi ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti la persona del lavoratore, a condizione che il numero di lavoratori licenziati in un arco temporale di 30 o 90 giorni, in base all'opzione degli Stati membri, superi una soglia minima determinata in relazione al numero complessivo dei lavoratori occupati nell'impresa. La causa giustificatrice del recesso collettivo si rinviene in qualsiasi ragione riconducibile, direttamente ed indirettamente, all'organizzazione ed alla gestione economico-produttiva dell'impresa, restando così escluse solo le cause concernenti la persona del lavoratore, sotto un duplice profilo: da un lato quello dell'inadempimento contrattuale, e, dall'altro, quello dell'impossibilità o inidoneità al lavoro, quali connotati che attengono alla posizione personale del dipendente.

Appare evidente la complessità dell'istituto del licenziamento collettivo, teso nella ricerca del giusto contemperamento fra l'interesse dell'impresa, di cui all'

art. 41 Cost.

, e il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, quindi al mantenimento dell'occupazione.

Il motivo posto alla base del licenziamento collettivo, essendo legato alle scelte imprenditoriali del datore di lavoro, riveste carattere essenzialmente economico ed assume una portata particolarmente ampia, così come confermato dall'interpretazione della Corte di Giustizia la quale ha ricompreso nel novero dei licenziamenti collettivi anche quelli conseguenti ad una ristrutturazione dell'impresa indipendentemente dal livello di attività di quest'ultima (

CGUE 8 giugno 1994, C-383/92

), nonché quelli determinati dalla cessazione delle attività dello stabilimento conseguente ad una decisione giudiziaria (

CGUE 3 marzo 2011 C-235/10

, C-

239/10

).

Al fine di rafforzare la tutela dei lavoratori sottoposti alla procedura di mobilità, la Direttiva 98/59/CE specifica che quando il datore di lavoro prevede di effettuare licenziamenti collettivi, deve procedere in tempo utile a consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori al fine di giungere ad un accordo. Questa previsione, ponendo un vero e proprio obbligo di negoziazione, risponde all'esigenza di garantire che siano presi in considerazione gli interessi del contraente debole su cui va ad incidere irrimediabilmente il potere di recesso datoriale. A tal proposito la Corte di Giustizia ha precisato che il datore di lavoro non può procedere a risoluzioni di contratti di lavoro prima della conclusione della procedura di consultazione di cui all'art. 2 della direttiva, nonché della procedura di notifica di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa (

CGUE 27 gennaio 2005, C-188/03

). Le consultazioni sono finalizzate ad esaminare la possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché ad attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento tese, in particolare, a facilitare la riqualificazione o la riconversione dei lavoratori licenziati.

D'altra parte va rilevato che la Direttiva, la cui funzione consiste nel garantire un minimo di tutela ai lavoratori sottoposti al licenziamento collettivo, lascia impregiudicata la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli agli stessi.

Con riguardo all'evento qualificabile come licenziamento, stante la mancanza di una definizione nella direttiva, la Corte di Giustizia ha precisato che lo stesso è rappresentato dalla manifestazione di volontà del datore di lavoro di risolvere il contratto di lavoro. Nella specie, la notifica al lavoratore della risoluzione del contratto di lavoro costituisce l'espressione di una decisione di interruzione del rapporto di lavoro. Tale chiarimento appare funzionalmente orientato ad assicurare l'uniforme applicazione del diritto comunitario ed il rispetto del principio d'uguaglianza i quali esigono che una disposizione di diritto comunitario che non contiene alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata debba dar luogo, nell'intera Comunità, ad un'interpretazione autonoma ed uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e dello scopo perseguito dalla normativa (

CGUE 27 gennaio 2005, C-188/03

).

La disciplina del licenziamento collettivo di cui alla L. n. 223/1991

Il legislatore italiano con la

L. n. 223/1991

, emanata in attuazione dell'originaria Direttiva 129/75/CEE, ora sostituita dalla Direttiva 98/59/CE che ne ripropone il testo coordinandolo con le nuove modifiche ed integrazioni, ha introdotto una disciplina specifica per il licenziamento collettivo. L'istituto, la cui applicazione concerne i licenziamenti che riguardano almeno 5 lavoratori nell'arco di 120 giorni, che siano stati intimati da un datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti, si distingue sia dal licenziamento individuale, sia dalla figura affine del licenziamento plurimo individuale per giustificato motivo oggettivo

ex

art. 3, L. n. 604/66

. Quest'ultima tipologia di recesso, lo ricordiamo, ricorre ove il datore di lavoro ponga in essere più licenziamenti per ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa senza però superare la soglia prevista dall'

art. 4, L. n. 223/91

.

Con riferimento al licenziamento collettivo la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che l'

art. 5 della L. n. 223/1991

nella prima parte dispone che l'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico produttive ed organizzative del complesso aziendale, evidenziando come tali esigenze siano poste anche tra i criteri da seguire per la scelta dei destinatari del provvedimento di mobilità. Questo duplice richiamo si spiega rilevando che, mentre per la disposizione della prima parte tali esigenze delimitano l'ambito di selezione del personale interessato, le stesse concorrono poi nel momento successivo, con gli altri criteri dell'età e del carico di famiglia, all'individuazione del singolo lavoratore (salvo che non operino altri criteri concordati con i sindacati). Conseguentemente, le esigenze tecnico produttive di cui alla prima parte dell'art. 5 rilevano, indipendentemente dal criterio di scelta adottato ai sensi della seconda parte della stessa disposizione (nella specie, in base all'accordo collettivo), come limite dell'ambito in cui detta scelta può essere operata, in relazione al quale va verificato il nesso causale tra il programma di ristrutturazione aziendale e il singolo provvedimento di recesso, considerando, quanto a detto programma, l'enunciazione, con la comunicazione di cui al secondo comma dell'art. 4, dei motivi che determinano la situazione di eccedenza, alla quale va riferita anche l'indicazione dei profili professionali del personale eccedente (

Cass. n. 21300/2006

).

Invero, nella comunicazione di cui all'

art. 4, comma 9, L. n. 223/91

il datore di lavoro deve indicare puntualmente i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e le modalità applicative degli stessi così da rendere agevole la comprensione della propria scelta di recesso e l'eventuale verifica di legittimità della stessa. L'individuazione dei soggetti da collocare in mobilità deve avvenire nel rispetto dei criteri previsti dai contratti collettivi stipulati con i sindacati o, in mancanza di questi, rispettando i criteri, in concorso tra loro, dei carichi di famiglia, dell'anzianità, delle esigenze tecnico-produttive. A riguardo va precisato che i criteri di scelta stabiliti dalla legge, assumono rilievo residuale, dal momento che con un accordo sindacale possono essere determinati criteri di scelta diversi, purché rispondenti al principio di non discriminazione (

Cass.

nn

. 9153/2003

,

21138/2008

). La stessa Consulta, già in precedenza, aveva evidenziato che i criteri di scelta previsti dagli accordi sindacali devono rispettare il principio di non discriminazione sancito dall'

art. 15, L. n. 300/70

, nonché il principio di razionalità alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità e devono essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori (

Corte Cost. n. 268/94

).

E' opportuno inoltre sottolineare che ai sensi dell'

art. 5, comma 1, L. n. 223/91

la scelta dei lavoratori da licenziare deve avvenire nell'ambito del complesso aziendale, inteso quale intero complesso organizzativo e produttivo, in modo che vi concorrano tutti i lavoratori con professionalità analoghe e simile livello. Ciò risponde all'esigenza di evitare l'ipotesi di licenziamenti surrettiziamente finalizzati, sotto le mentite spoglie delle scelte tecnico-produttive, all'espulsione di dipendenti non graditi, concentrati, con precedenti spostamenti, in un particolare settore. In proposito la giurisprudenza ha recentemente precisato che qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, le esigenze di cui all'

art. 5, comma 1, L. n. 223/91

, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione di cui all'art. 4, comma 3 della stessa legge, sia le ragioni che limitano i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad un'unità produttive geograficamente vicine, in modo da consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Nel caso in cui invece il datore di lavoro, nella comunicazione da ultimo citata, faccia riferimento in modo generico alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione alle unità produttive che intende sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione della specifica indicazione delle esigenze tecnico-produttive e organizzative nella comunicazione (

Cass. n. 4678/2015

).

L'indagine sulla legittimità del licenziamento impone di verificare la sussistenza del presupposto attinente l'effettiva ricorrenza della riduzione o trasformazione dell'attività e del lavoro, nonché della denunciata eccedenza di personale e la riconducibilità del singolo recesso ai fatti dedotti a giustificazione della procedura. Ferma restando l'autonomia delle scelte imprenditoriali di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale, il giudice deve accertare la sussistenza dell'imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso (

Cass. n. 8364/2004

).

Alla luce dell'articolazione della procedura di programmazione dei licenziamenti collettivi, distinta in una prima fase sindacale, al cui esito negativo delle trattative segue una fase amministrativa in cui le parti sociali, entro un periodo di 30 giorni, cercano di trovare un accordo attraverso la mediazione dell'Amministrazione competente, la giurisprudenza ha evidenziato che la

L. n. 223/1991

ha introdotto un elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto normativo, ad un controllo sull'iniziativa imprenditoriale devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali. Conseguentemente i residui spazi di controllo devoluti al giudice non riguardano più i motivi della riduzione del personale, a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ma la correttezza procedurale dell'operazione; onde non possono trovare ingresso in sede giudiziale le censure riguardanti l'eventuale difetto di esigenze effettive di riduzione del personale o trasformazione dell'attività produttiva. Dunque, il controllo del giudice riguarda sì l'effettiva sussistenza delle ragioni di cui all'

art. 24 L. n. 223/91

, ma solo laddove il lavoratore riesca a fornire la prova di una discriminazione o di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali (

Cass. n. 19576/2013

).

Il licenziamento collettivo così come modificato dalla L. n. 92/2012

La

Legge n. 92/2012

, c.d. Legge Fornero, ha parzialmente modificato la disciplina dei licenziamenti collettivi con riferimento alla procedura di informazione e consultazione, nonché riguardo il termine di impugnazione del licenziamento.

Con un primo intervento l'art. 45, comma 1 della

L. n. 92/2012

ha modificato la fase iniziale della procedura di informazione e consultazione, inserendo nell'

art. 4, comma 12 della L. n. 223/1991

la possibilità di sanatoria di eventuali vizi della comunicazione di apertura della procedura, vizi di cui si abbia consapevolezza e che si intenda espressamente superare. In particolare parte della dottrina (Cester) evidenzia che l'accordo non ha efficacia sanante di per sé, in quanto la norma precisa che i vizi sono sanati “nell'ambito di un accordo”, lasciando intendere che la sanatoria trovi applicazione solo laddove vengano discussi e trovino la sintesi nell'accordo stesso.

Anche la fase finale della procedura è stata interessata dalla novella con la previsione di un termine, non più contestuale, bensì di 7 giorni dalla comunicazione del licenziamento per effettuare la comunicazione ai soggetti individuati degli elementi prescritti dall'

art. 4, comma 9 della L. n. 223/91

. Suddetto termine decorre dall'intimazione dei licenziamenti ma, ove i licenziamenti non avvengano in un'unica soluzione, si pone un problema interpretativo, risolto dalla dottrina (Tatarelli) nel senso di attribuire rilievo al primo licenziamento.

Queste modifiche hanno inciso sulla fase sindacale della procedura, caratterizzata dal fatto che la tutela dei lavoratori è demandata alla rappresentanza sindacale e può risultare effettiva solo laddove i sindacati siano concretamente posti in grado di conoscere le ragioni produttive e organizzative che legittimano il licenziamento. Ne consegue che il diritto di informazione dei sindacati può efficacemente essere esercitato solo laddove l'obbligo datoriale che fa da contraltare a tale diritto sia adempiuto fornendo informazioni sorrette dai caratteri della veridicità e della correttezza, caratteri che, sebbene intesi da parte di alcuna dottrina (Garofalo, Chieco) quali requisiti formali, sembrano invece assurgere a connotati sostanziali data l'incidenza che sono capaci di esplicare.

Per quanto concerne la disciplina sanzionatoria in caso di licenziamenti collettivi illegittimi l'

art. 5, comma 3, della L. n. 223/1991

, così come modificato dall'

art. 1, comma 46, L. n. 92/2012

, dispone che in caso di violazione dei criteri di scelta del lavoratore da porre in mobilità trova applicazione la tutela reintegratoria c.d. “attenuata” di cui all'

art. 18, comma 4 della L. n. 300/70

. Inoltre sussiste la facoltà per il lavoratore di optare per un'indennità sostitutiva in luogo della reintegrazione.

Nelle ipotesi di violazione delle norme relative alla procedura di cui all'

art. 4, comma 12 della L. n. 223/91

è invece prevista un'indennità risarcitoria compresa fra 12 e 24 mensilità

ex art. 18, settimo comma, terzo periodo, della L. n. 300/70

, laddove prima della riforma Fornero a tale licenziamento, considerato inefficace, si applicava,

ex art. 5, comma 3, ultima parte L. n. 223/91

, la tutela reale di cui all'originario testo dell'

art. 18 L. n. 300/70

.

Qualora il licenziamento collettivo sia intimato senza l'osservanza della forma scritta, resta ferma la tutela della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed il pagamento di un risarcimento del danno pari a tutte le mensilità che avrebbe dovuto percepire dalla data del licenziamento fino all'effettivo reintegro.

Infine è opportuno notare che la

L. n. 92/2012

ha previsto l'applicazione del doppio termine di impugnazione del licenziamento in base al quale il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla comunicazione con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, al fine di rendere nota la volontà del lavoratore, ed entro i 180 giorni seguenti è necessario depositare il ricorso al giudice del lavoro o inviare la richiesta di conciliazione alla controparte, pena l'inefficacia dell'impugnazione stessa. A riguardo la giurisprudenza ha evidenziato che l'impugnazione del licenziamento, così come legislativamente strutturata a seguito dell'ultimo intervento di riforma, costituisce una fattispecie a formazione progressiva, soggetta a due distinti e successivi termini decadenziali, rispetto alla quale risulta indifferente il momento perfezionativo dell'atto di impugnativa vero e proprio; ed infatti il termine di decadenza di cui all'

art. 6, comma 2, della L. n. 604 del 1966

, come modificato dall'

art. 1, comma 38, della L. n. 92 del 2012

, decorre dalla trasmissione dell'atto scritto d'impugnazione del licenziamento, di cui al comma 1, e non dal perfezionamento dell'impugnazione stessa per effetto della sua ricezione da parte del datore di lavoro (

Cass. n. 20068/2015

).

Le modifiche introdotte dal D.lgs. n. 23/2015: profilo sanzionatorio e ruolo del sindacato

L'

art. 10 del D.lgs. n. 23/2015

, recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della

L. n. 183/2014

, c.d. Jobs Act, nel disciplinare il licenziamento collettivo dispone una modifica delle sanzioni previste in caso di licenziamenti collettivi dichiarati illegittimi.

In particolare, nelle ipotesi di licenziamento intimato senza l'osservanza della forma scritta trova applicazione il regime sanzionatorio di cui all'art. 2 del decreto che utilizza la formula “licenziamento intimato in forma orale”, vale a dire la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed il pagamento di un risarcimento del danno pari a tutte le mensilità che avrebbe dovuto percepire dalla data del licenziamento fino a quella dell'effettivo reintegro. La medesima disciplina opera altresì per il licenziamento discriminatorio e per quello nullo.

Invece, in caso di violazione delle procedure richiamate all'art. 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all'

art. 5, comma 1, della L. n. 223/1991

, si applica il regime di cui all'art. 3 del decreto, consistente in un'indennità risarcitoria quantificata fra il limite minimo di 4 e quello massimo di 24 mensilità in misura pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione per ogni anno di servizio.

La disciplina dettata dal

D.lgs. n. 23/2015

si applica ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dopo l'entrata in vigore del decreto, avvenuta il 7 marzo 2015, mentre per i lavoratori assunti prima dell'entrata in vigore del decreto restano valide le norme precedenti. Inoltre la nuova disciplina si applica anche nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.

In ordine al regime di tutele così delineato, secondo gran parte della dottrina (Ballestrero, Scarpelli, Speziale, Carati, Colombo), potrebbero sorgere problemi di legittimità costituzionale con riferimento all'

art. 3 Cost.

a causa della diversificazione delle tutele applicate ai lavoratori coinvolti nella medesima procedura di mobilità, in ragione della sola data di assunzione. La presenza di un doppio regime sanzionatorio per i lavoratori assunti prima e per quelli assunti dopo l'entrata in vigore del decreto sul contratto a tutele crescenti comporta che, in caso di violazione dei criteri di scelta, per coloro che sono stati assunti sotto il vigore dell'

art. 18, L. n. 300/1970

, come modificato, si profila la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna dell'azienda al risarcimento del danno subito in termini di mancata percezione della retribuzione, mentre per gli assunti con il nuovo regime del Jobs Act scatta soltanto una tutela indennitaria. A ciò si aggiungono, come rilevato da una parte della dottrina (De Angelis), i problemi derivanti dalla duplicità del rito, questione rispetto alla quale non possono che sorgere dubbi di costituzionalità sotto il profilo della ragionevolezza.

In ordine alle soluzioni predisposte dal legislatore della novella nell'ambito del licenziamento collettivo, parte della dottrina (Topo) ha rilevato una specularità con quelle prospettate per il licenziamento individuale che, se privo di comunicazione della motivazione, rimane valido producendo il suo effetto estintivo, così come resta fermo il recesso a fronte della mancata comunicazione delle ragioni del licenziamento collettivo, cui consegue solo un ristoro economico.

In conclusione

A conclusione della disamina è opportuno evidenziare come con le modifiche legislative sul licenziamento intervenute negli ultimi anni si sia assistito ad un consistente affievolimento delle tutele per il lavoratore sottoposto a licenziamento collettivo. Invero, dapprima con la

L. n. 92/2012

il legislatore ha circoscritto le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro ai soli casi in cui il licenziamento collettivo sia dichiarato illegittimo per violazione dei criteri di scelta, o intimato in assenza di forma scritta, prevedendo la condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria non inferiore a 5 mensilità nella prima ipotesi, e non superiore a 12 nella seconda. Con riferimento alla violazione delle procedure di consultazione sindacale la

L. n. 92/2012

ha apprestato la tutela indennitaria, prevedendo soltanto la corresponsione di un risarcimento compreso fra le 12 e le 24 mensilità, liquidato dal giudice valutando l'anzianità di servizio, le dimensioni aziendali e la condotta tenuta dalle parti. Su questo assetto è intervenuto nuovamente il legislatore con il

D.lgs. n. 23/2015

limitando la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro solo alle ipotesi di licenziamento intimato in forma orale, ovvero dettato da motivi discriminatori, così come analogamente disciplinato per il licenziamento individuale. Mentre nel diverso e più frequente caso in cui ricorra una violazione della procedura sindacale, o dei criteri di scelta, si prevede l'estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento nonché la condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

Dunque, dal regime sanzionatorio così scaturito si evince un drastico ridimensionamento della tutela reintegratoria a favore di quella indennitaria. Tuttavia ciò che preme sottolineare è la notevole importanza che continua a rivestire il sindacato nelle procedure volte alla riduzione del personale. Del resto la sufficienza ed adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura vanno valutate proprio in relazione alla finalità di corretta informazione delle organizzazioni sindacali, alla quali è affidato il ruolo di coogestore della crisi aziendale. A riguardo è opportuno rilevare come la giurisprudenza di legittimità ha precisato che le eventuali insufficienze della comunicazione non sono sanate ex se dal successivo accordo sindacale, cioè non perdono rilievo per il solo fatto dell'accordo, risultando altrimenti frustrata l'esigenza di trasparenza del processo decisionale datoriale nonché l'effettività del ruolo svolto dal sindacato (

Cass. n. 5582/2012

). Il diritto all'informazione e consultazione previsto dalla Direttiva 98/59/CE è destinato infatti ai rappresentanti dei lavoratori, e non ai lavoratori considerati individualmente. In questo senso si è affermato che tale diritto presenta natura collettiva (

CGUE 16 luglio 2009, C-12/08

, Mono Car Styling SA c. Dervis Odemis e altri). Invero le organizzazioni sindacali possono tutelare la lesione del proprio diritto di informazione esperendo l'azione di repressione della condotta antisindacale di cui all'

art. 28 della L. n. 300/70

. Tuttavia è opportuno sottolineare che, sebbene il lavoratore non sia il destinatario immediato della comunicazione di avvio della procedura, ciò non di meno, in qualità di destinatario finale, poiché gli effetti si producono nella sua sfera giuridica, è legittimato a far valere l'incompletezza dell'informazione. In tal senso la giurisprudenza ha evidenziato l'importanza assunta dalla procedura di informazione e consultazione sindacale precisando che la comunicazione rituale, completa della mancanza di alternative ai licenziamenti, rappresenta, nell'ambito della procedura, una cadenza legale che, se mancante, è ontologicamente impeditiva di una proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato (

Cass. n. 5582/2012

). Ne consegue, come rilevato da parte della dottrina (Topo), che il potere rappresentativo e negoziale degli organismi sindacali che opera legittimamente ed utilmente in funzione di temperamento del potere imprenditoriale (

Corte Cost. n. 694/1988

) subisce un ridimensionamento sul piano pratico della tutela concretamente apprestata in caso di violazione delle procedure di consultazione sindacale. Invero, la disciplina introdotta dall'

art. 4, comma 12 della L. n. 223/1991

, applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, prevedeva che, nel caso di omissione o incompletezza delle comunicazioni ai sindacati, il licenziamento fosse inefficace. Oggi, invece, alla violazione della procedura di consultazione sindacale consegue solo un ristoro economico. A riguardo ci si domanda se la sanzione meramente indennitaria, in proporzione all'anzianità di servizio, prevista nelle ipotesi di cui sopra risponda al principio dell'efficacia delle sanzioni poste a presidio dell'effettività della tutela dei lavoratori. In proposito si pensi alla precisazione della Corte di Giustizia secondo la quale l'art. 5 del Trattato impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l'efficacia del diritto comunitario, dunque, pur conservando un potere discrezionale quanto alla scelta delle sanzioni, essi devono vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva (

CGUE 21 settembre 1989, C-68/88

).

Da ultimo, merita una notazione il particolare regime di tutela dei dirigenti che, a seguito dell'entrata in vigore del

D.Lgs.

23/15

, risulta differenziato rispetto a quello delle altre categorie di lavoratori (operai, impiegati e quadri) assunti con contratto a tutele crescenti. Invero, il

D.Lgs.

n. 23/2015

non si applica ai dirigenti, per i quali, invece, opera l'

art. 16, L. n. 161/2014

, c.d. legge europea 2013-bis. In base a quest'ultima normativa, che in passato ha modificato gli

art. 4

e

24 della L. n. 223/1991

ricomprendendo anche i dirigenti nel computo dei 5 licenziamenti che l'azienda intende effettuare nell'arco di 120 giorni, è prevista un'indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 12 mensilità ed un massimo di 24, alla luce della natura e della gravità della violazione, laddove per gli altri lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, la tutela è limitata ad una indennità pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità.

Guida All'approfondimento
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    , MGL, 2015, p. 134 ss.
  • L. De Angelis, Il contratto a tutele crescenti. Il giudizio. in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona”, n. 250/2015, 6.

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