Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione dicono no al diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino a 70 anni

30 Settembre 2015

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione il 4 settembre 2015, con la sentenza n. 17589/2015, si sono pronunciate sulla contrapposizione giurisprudenziale sorta in merito all'interpretazione dell'art. 24 comma 4 del D.L. n. 201/2011, convertito dalla L. n. 214/2011, ed in particolare sul dibattito esegetico circa l'introduzione o meno, da parte del Legislatore, di un diritto potestativo a favore dei lavoratori subordinati a proseguire il rapporto di lavoro fino ai 70 anni di età unitamente alla tutela contro i licenziamenti illegittimi ex art. 18 L. n. 300/1970, negando il diritto per il lavoratore di rimanere in servizio fino al compimento del settantesimo anno di età.L'articolo, dopo aver analizzato i contrapposti orientamenti della giurisprudenza di merito sul tema che hanno reso necessario un pronunciamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, si sofferma sulla decisione della Suprema Corte e sulle immediate conseguenze di tale sentenza per lavoratori e aziende.
Introduzione

Il Legislatore Italiano, con il Decreto legge del 6 dicembre 2011 n. 201, convertito dalla Legge del 22 dicembre 2011, n. 214 e comunemente denominato “Decreto Salva-Italia”, ha introdotto nel nostro ordinamento una serie di misure finalizzate a consolidare i conti pubblici e a reperire risorse per incentivare la crescita del Paese.

L'art. 24 del D.L. n. 201/2011, rubricato “Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici”, dopo avere fissato al comma 1 i principi generali per il contenimento della spesa pensionistica e per il rafforzamento della sostenibilità del sistema nel lungo periodo, ha disciplinato nei commi seguenti i singoli provvedimenti da adottare per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, fra cui il calcolo della pensione secondo il sistema contributivo a partire dal 1° gennaio 2012, l'individuazione di requisiti più rigorosi per la fruizione della pensione di vecchiaia liquidata sia dall'AGO e dalle forme esclusive e sostitutive della medesima, sia dalla gestione separata e dalle gestioni previdenziali autonome o rientranti nel pubblico impiego, la sterilizzazione della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, recentemente dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 70/2015, etc.

L'art. 24 del D.L. n. 201/2011, al comma 4, ha inoltre espressamente previsto un incentivo alla permanenza in servizio fino al settantesimo anno di età dei lavoratori che hanno maturato i requisiti per fruire della pensione di vecchiaia, da realizzarsi, da un lato attraverso l'applicazione di coefficienti di trasformazione “migliorativi” e dall'altro attraverso l'estensione della tutela reale per i licenziamenti, di cui all'art. 18 della L. n. 300/1970, fino al raggiungimento del predetto limite massimo di flessibilità dei 70 anni di età anagrafica.

Il termine di 70 anni di età come limite di flessibilità in uscita dal mondo del lavoro è un termine che, al pari dei requisiti anagrafici e contributivi necessari per accedere al trattamento pensionistico, è soggetto ad innalzamenti periodici, in base all'incremento della speranza di vita. La riforma del sistema pensionistico (Legge n. 214/2011) ha previsto che tutti i requisiti, sia per l'accesso alla pensione di vecchiaia che per l'accesso alla pensione anticipata, siano flessibili, o per meglio dire in aumento costante per effetto dell'incremento dell'aspettativa di vita. L'aumento riguarda il requisito anagrafico (età del lavoratore) per l'accesso alla pensione di vecchiaia ed il requisito contributivo (contributi versati) per l'accesso alla pensione anticipata. Analogamente aumentano i requisiti di età anche per l'assegno sociale. Il meccanismo di adeguamento è semplice: ogni tre anni l'Istat misura l'aspettativa di vita di un uomo e una donna di 65 anni, stabilendo in termini statistici quale è la loro speranza di vita e se la probabilità aumenta, viene adeguato il requisito anagrafico per l'accesso ai trattamenti previdenziali. La conseguenza è che non si può determinare oggi, con certezza, a che età si andrà in pensione, dato che l'età anagrafica necessaria, sarà legata alla speranza di vita, che è stata aggiornata nel 2013 e sarà aggiornata nel 2016, nel 2019 e poi da allora in poi ogni due anni (e non più ogni tre anni). Il decreto del Ministero dell'Economia del 19 dicembre 2011 ha poi stabilito che l'innalzamento della speranza di vita a partire dal 2013 sarà pari a tre mesi.

In particolare, la norma stabilisce infatti che: “Per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'Assicurazione Generale Obbligatoria (di seguito AGO) e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all'età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dall'articolo 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni e integrazioni. Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”.

L'esegesi della disposizione citata si è rivelata tuttavia alquanto ostica e controversa per gli operatori del diritto lavoristico, conducendo ad una contrapposizione interpretativa fra coloro i quali, analizzando la ratio della norma e il dato letterale, ritenevano che il Legislatore avesse introdotto, a favore dei lavoratori che avessero raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia, il diritto potestativo di proseguire il rapporto di lavoro fino al compimento dei 70 anni di età e di godere della tutela contro i licenziamenti illegittimi ex art. 18 L. n. 300/1970, subordinandolo esclusivamente alla manifestazione di volontà del lavoratore e coloro i quali invece negavano tale diritto, affermando che la possibilità per i lavoratori di rimanere in servizio fino al settantesimo anno di età fosse in ogni caso subordinata al consenso del datore di lavoro e del dipendente.

Orientamenti interpretativi

Ulteriore profilo esegetico della norma in questione che ha dato origine a due orientamenti interpretativi in antitesi fra loro è stato quello relativo all'efficacia o meno della previsione sulla permanenza in servizio fino ai 70 anni di età, anche nei confronti di quei lavoratori iscritti alle Casse di previdenza privatizzate di cui al D.Lgs. n. 509/1994 [Cassa nazionale di previdenza e assistenza avvocati e procuratori legali; Cassa di previdenza tra dottori commercialisti; Cassa nazionale previdenza e assistenza geometri; Cassa nazionale previdenza e assistenza ingegneri e architetti liberi professionisti; Cassa nazionale del notariato; Cassa nazionale previdenza e assistenza ragionieri e periti commerciali; Ente nazionale di assistenza per gli agenti e i rappresentanti di commercio (ENASARCO); Ente nazionale di previdenza e assistenza consulenti del lavoro (ENPACL); Ente nazionale di previdenza e assistenza medici (ENPAM); Ente nazionale di previdenza e assistenza farmacisti (ENPAF); Ente nazionale di previdenza e assistenza veterinari (ENPAV); Ente nazionale di previdenza e assistenza per gli impiegati dell'agricoltura (ENPAIA); Fondo di previdenza per gli impiegati delle imprese di spedizione agenzie marittime; Istituto nazionale di previdenza dirigenti aziende industriali (INPDAI);Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (INPGI); Opera nazionale assistenza orfani sanitari italiani (ONAOSI)].

Queste incertezze interpretative, nonostante la rilevanza per gli operatori economici, non sono state risolte da alcun intervento chiarificatore sulla norma in questione da parte del Legislatore nazionale, dando origine anche ad un contrasto giurisprudenziale.

Il primo orientamento giurisprudenziale, che in breve è divenuto l'orientamento maggioritario in ambito nazionale, ritiene che l'art. 24 comma 4 del D.L. n. 201/2011 non esaurisca la sua efficacia nell'ambito della disciplina previdenziale, in quanto estenderebbe l'efficacia dell'art. 18 Legge 300/1970 ai lavoratori dipendenti, i quali hanno raggiunto l'età prevista per l'accesso alla pensione di vecchiaia, che hanno il diritto di permanere in servizio sino al compimento dell'età di 70 anni (limite massimo di flessibilità previsto dal Legislatore), spingendosi di fatto fino ad affermare che la norma in questione prevedrebbe un incondizionato diritto dei lavoratori alla prosecuzione dell'attività lavorativa che la norma intende incentivare.

La giurisprudenza maggioritaria è giunta ad elaborare tale interpretazione della norma, estensiva della tutela reale contro i licenziamenti fino ai 70 anni, analizzandola sia sotto un profilo letterale sia teleologico.

Sotto il profilo letterale infatti, si è affermato che la presenza nella proposizione in oggetto del verbo “essere”, unito al participio passato del verbo “incentivare”, indica l'intenzione del Legislatore di ritenere dispositiva e immediatamente cogente la previsione relativa, ma anche sotto un profilo logico e di connessione tra il significato dei termini utilizzati, non appare conforme allo spirito della legge il fatto che "l'incentivo" previsto - inteso nel suo significato di "spinta, sprone" - fermi restando "i coefficienti di trasformazione" e il mantenimento delle tutele ex art. 18 l. n. 300 del 1970 "fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità", legato all'utilizzo del termine "proseguimento" che indica la semplice "continuazione" del rapporto, possa essere considerato come un mero invito o essere sottoposto ad un accordo tra le parti. Del resto, la precisazione in tema di garanzia di stabilità del rapporto, in caso di prosecuzione, esclude che il datore di lavoro possa opporsi alla richiesta del lavoratore.

Inoltre, secondo tale orientamento della giurisprudenza di merito, sotto il profilo teleologico, parrebbe chiara la ratio espressa dalla norma e volta ad incentivare il lavoratore alla continuazione dell'attività lavorativa anche alla luce degli intenti espressamente nel comma 1, lett. b) dell'art. 24 in esame ove espressamente si fa riferimento, tra l'altro, al principio della "flessibilità" nell'accesso ai trattamenti pensionistici "anche attraverso incentivi alla prosecuzione della vita lavorativa".

“Tanto chiarito, la norma in esame stabilisce un consequenziale diritto, di fonte legale, alla continuazione del rapporto lavorativo sino al compimento dei 70 anni di età, pur se il lavoratore abbia raggiunto la massima anzianità contributiva prevista dal proprio ordinamento di categoria” (Tribunale di Roma 24 febbraio 2014, Ordinanza).

Tale tesi interpretativa è stata fatta propria, inoltre, dalla Corte di Appello di Torino, Sent. del 24 ottobre 2013 in Giustizia Civile.com 29.5.2014, “Campo di applicazione e limiti di applicabilità del nuovo art. 24, comma 4, d.l. n. 201 del 2011, conv. nella l. n. 214 del 2011” di Angela Bruno e dal Tribunale di Genova Ord. 12 novembre 2013, cit. Corte di Appello di Milano, Sent. n. 1337 del 7 novembre 2013 e dal Tribunale di Milano, Ord. n. 6252 del 14 dicembre 2012.

Inoltre, la Corte d'Appello e il Tribunale di Milano nelle medesime pronunce di cui sopra si sono espressi a favore dell'applicabilità del regime introdotto dall'art. 24 comma 4 del D.L. 201/2011 (diritto di prosecuzione del rapporto di alvoro oltre i 70 anni) ai lavoratori (giornalisti) iscritti all'INPGI, ritenendo che l'INPGI sia da inquadrare fra gli enti che gestiscono una forma sostitutiva dell'AGO gestita dall'INPS e quindi compresi nell'ambito applicativo dell'art. 24 comma 4 (“per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'Assicurazione Generale Obbligatoria (di seguito AGO) e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all'età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell'attività lavorativa …”).

Il secondo orientamento giurisprudenziale, espresso da alcune pronunce del Tribunale di Roma, Sent. 5 novembre 2013, fondando la propria interpretazione sulla rigorosa analisi letterale della norma, giungeva alla conclusione secondo cui “Il tenore letterale della norma ("il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato ... fino all'età di settant'anni ...") non consente in alcun modo di aderire all'interpretazione fornita dal lavoratore opponente secondo il quale la norma porrebbe un vero e proprio diritto potestativo in favore del lavoratore di scegliere se rimanere fino all'età di settant'anni, diritto a fronte del quale vi sarebbe un obbligo del datore di lavoro di consentire la prosecuzione del rapporto fino all'età richiesta dal lavoratore. L'utilizzo del termine "è incentivato" senza alcuna altra indicazione che consenta di affermare sia la sussistenza di un diritto in favore del lavoratore, sia la disciplina dell'esercizio di tale diritto, consente di affermare che la stessa norma ha, sul punto, un valore meramente programmatico, nel senso di costituire un invito alle parti di consentire la prosecuzione del rapporto fino al 70esimo anno di età, questo coerentemente con l'impianto complessivo della riforma del sistema pensionistico che tende all'innalzamento dell'età pensionabile”.

La pronuncia del Tribunale capitolino termina affermando il principio che la possibilità per il lavoratore di rimanere in servizio fino al compimento del settantesimo anno di età, in assenza della previsione di un diritto potestativo in favore del lavoratore, usufruendo degli incentivi indicati dalla legge, sia in ogni caso subordinata al consenso di entrambe le parti, consenso che nella fattispecie esaminata dalla sentenza non vi è stato.

Le Sezioni Unite della Corte

Il contrasto giurisprudenziale descritto è stato recentemente risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dinanzi a cui la RAI aveva impugnato la sentenza della Corte d'Appello di Milano, Sezione Lavoro, n. 1337/2013. La Cassazione con la pronuncia sentenza n. 17589 del 4 settembre 2015 ha sancito che, sulla base di una corretta interpretazione dell'art. 24 comma 4 del D.L. n. 201/2011, non sussiste alcun diritto del lavoratore che ha raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia, alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino a 70 anni.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con un ragionamento condivisibile, dopo avere escluso l'applicabilità dell'art. 24 comma 4 all'INPGI, in quanto ente privatizzato gestore di forma obbligatoria di previdenza e assistenza a cui va applicata la disciplina di cui all'art. 24 comma 24 del D.L. n. 201/2011 (e non quella del comma 4), sanciscono che la disposizione nel prevedere che "il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato ... dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni ..." non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, né consente allo stesso di scegliere tra la quiescenza o la continuazione del rapporto, ma prevede solo la possibilità che, grazie all'operare di coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settanta anni, si creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore. “E' questo il senso della locuzione "è incentivato ... dall'operare dei coefficienti di trasformazione ...", la quale presuppone che non solo si siano create dette più favorevoli condizioni previdenziali, ma anche che, grazie all'incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi”.

Secondo le Sezioni Unite della Cassazione l'art. 24 comma 4 non attribuisce al lavoratore alcun diritto potestativo, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma solo prefigura la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano un incentivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni.

In particolare, la disposizione dell'ultimo periodo dell'art. 24, c. 4, D.L. 201/2011, che sembra prevedere l'estensione dell'applicazione dell'art. 18 L. 300/1970, fino al raggiungimento del limite dei 70 anni di età, consente di ritenere che, ove siano maturate le condizioni previste dalla prima parte del comma (e quindi siano intervenuti i coefficienti di trasformazione ed il rapporto di lavoro sia consensualmente proseguito) la tutela prevista dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori continua ad applicarsi "entro il predetto limite di flessibilità", ovvero entro il periodo massimo consentito per il prolungamento del rapporto di lavoro, costituito dal raggiungimento del settantesimo anno di età, ma solo nel caso che le parti abbiano consensualmente ritenuto di procrastinare la durata del rapporto, in presenza delle condizioni di adeguamento pensionistico fissate dallo stesso comma 4.

In conclusione

In conclusione, la sentenza n. 17589 del 4 settembre 2015 pronunciata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, per comprendere il contenuto di una norma di legge, afferma il principio secondo cui il rapporto di lavoro del dipendente che raggiunge i requisiti per la pensione di vecchiaia continua ad essere caratterizzato dalla “tutela reale ex art. 18 L. 300/1970” solo se il datore di lavoro accetta tale prosecuzione, mentre in caso contrario potrà procedere col licenziamento del lavoratore, che sarà privo della protezione dell'art. 18 L. 300/1970, di fatto eliminando il diritto di opzione che, pur non espressamente previsto dalla norma, ha avuto matrice giurisprudenziale a favore dei lavoratori con i requisiti per la pensione, che aveva provocato un irrigidimento delle dinamiche in uscita ed evidenti ripercussioni anche nell'accesso del mercato del lavoro.

Pertanto, nei confronti dei lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici di vecchiaia, compresi quelli rimasti in servizio sul presupposto di un diritto alla prosecuzione del rapporto, si ritornerà ad applicare la disciplina del licenziamento ad nutum, di cui all'art. 2118 c.c., che prevede la libera recedibilità delle Parti col solo obbligo di dare il preavviso o, in mancanza, di versare una corrispondente indennità sostitutiva.

La ratio alla base dell'applicabilità del regime di recedibilità ad nutum per i lavoratori che hanno maturato i requisiti pensionistici era già stata individuata da numerose sentenze della Corte Costituzionale, la quale ha ritenuto compatibile con la Costituzione la suddetta previsione del recesso "ad nutum", sul principale rilievo secondo cui "in una società come quella attuale, in cui si hanno disoccupazione e sottoccupazione, l'assenza di una piena tutela del diritto al lavoro (per difetto di garanzie di stabilità del posto) per i lavoratori che abbiano già conseguito la pensione di vecchiaia trova ragionevole giustificazione nel godimento, da parte loro, di tale trattamento previdenziale ed una ratio siffatta non solo opera anche rispetto ai lavoratori pensionati per vecchiaia già al momento della costituzione del rapporto, ma legittima altresì la possibilità che di questi, come degli altri che conseguano il pensionamento nel corso del rapporto, sia possibile il licenziamento senza l'osservanza della forma scritta, prevista soltanto in funzione del diritto alla stabilità, non garantita alle teste' menzionate categorie di lavoratori" (si vedano, per tutte: Corte cost. sentenze n. 15 del 1983; n. 309 del 1992; n. 225 del 1994; n. 174 del 1971; n. 45 del 1965, nonché Cass. 26 maggio 2004, n. 10179).

Tuttavia, nel lavoro subordinato privato la tipicità e tassatività delle cause d'estinzione del rapporto escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici, diversamente da quanto accade nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in tema di collocamento a riposo d'ufficio, al compimento delle età massime previste dai diversi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche stesse. Ed infatti, come si può desumere dall'articolo 4 della L. 108/1990, nel lavoro privato, il raggiungimento dei requisiti pensionistici, da parte del lavoratore, determinano soltanto la recedibilità ad nutum dal rapporto di lavoro e, dunque, il venire meno del regime di stabilità, ma non l'automatica estinzione del rapporto stesso, sicché, in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, il rapporto prosegue con diritto del lavoratore a percepire le retribuzioni anche successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età (ovvero della diverse maggiore età necessaria per il conseguimento della pensione di vecchiaia). Ne consegue che, nel campo dei rapporti di lavoro del settore privato, per la risoluzione del rapporto in seguito al raggiungimento dei requisiti pensionistici del prestatore di lavoro, il datore di lavoro ha l'obbligo di dare preavviso (Cass. 6 febbraio 2004, n. 2339; 13 aprile 2001, n. 5576; 28 settembre 2000, n. 12890; 12 agosto 2000, n. 10782; 7 giugno 1995, n. 6396; 27 maggio 1995, n. 5977; 25 luglio 1994, n. 6901).

Preavviso che però il datore di lavoro può decidere di fare effettuare al lavoratore anche poco prima del raggiungimento dell'età pensionabile, facendo invece decorrere il licenziamento a partire dal momento in cui si concretizzerà il raggiungimento dei requisiti pensionistici da parte del lavoratore. La Suprema Corte, infatti, con Cass. 29 dicembre 2014, n. 27425 ha affermato che: ”l'inizio del regime di recedibilità ad nutum del rapporto di lavoro, contemporaneo alla fine del regime di recedibilità causale, attribuisce al datore di lavoro il potere di far cessare immediatamente il rapporto, purché (e salva l'ipotesi di giusta causa) il lavoratore abbia avuto la possibilità di giovarsi del periodo di preavviso grazie a una tempestiva intimazione del licenziamento, valida anche se resa già in regime di recedibilità causale, sicché è legittimo un cosiddetto licenziamento che, sebbene intimato in regime di recedibilità causale e privo di giustificazione, sia destinato a produrre effetto solo al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età del lavoratore e, quindi, in coincidenza del subentrare del regime di recedibilità ad nutum" (cfr. Cass. 29 dicembre 2014, n. 27425).

La sentenza n. 17589/2015 delle Sezioni Unite della Cassazione del 4 settembre 2015, cancellando il diritto di opzione di creazione giurisprudenziale per la prosecuzione del rapporto in tutela reale dei lavoratori con i requisiti per accedere ai trattamenti pensionistici, ha di fatto riesteso l'ambito di applicazione del licenziamento ad nutum anche a questa categoria di lavoratori, che il Decreto Monti (art. 4 D.L. 201/2011) sembrava aver posto sotto la protezione della tutela reale di cui all'art. 18 della L. 300/1970.

Alla luce di queste impostazioni interpretative i datori di lavoro potranno risolvere il rapporto di lavoro con i loro dipendenti che, alla scadenza del periodo di preavviso previsto contrattualmente, raggiungano i requisiti di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia requisiti che, comunque, cresceranno con l'andare del tempo in funzione dell'incremento dell'aspettativa di vita.

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