Annullabilità delle dimissioni per incapacità naturale: accertamento giudiziale e CTU
01 Aprile 2016
Massima
Ai fini dell'annullamento delle dimissioni per incapacità naturale, benché occorra la prova che l'incapacità sussista al momento del compimento dell'atto, non può comunque prescindersi - specie ove si tratti di una patologia psichiatrica grave - dal complessivo quadro psichico dell'agente, precedente e successivo all'atto stesso, al fine di verificare l'incidenza causale tra l'alterazione mentale del lavoratore e le ragioni soggettive che lo hanno spinto alle dimissioni. Pertanto, deve ritenersi insufficiente la motivazione della sentenza in cui il giudice di merito ha respinto la domanda di annullamento delle dimissioni limitandosi a ritenere non provata l'incapacità naturale al momento dell'atto, pur avendo rilevato nel lavoratore una patologia psichiatrica grave, circostanza quest'ultima che rendeva necessaria l'ammissione della richiesta C.T.U. al fine di verificare se le dimissioni fossero state rese in un momento di alterata percezione della situazione di fatto e delle conseguenze dell'atto che poneva in essere. Il caso
Il sig. S. D. A., assunto come disabile psichico dalla ASL di Genova ed affetto da schizofrenia di tipo paranoide, agiva innanzi al Tribunale di Genova chiedendo che venisse accertata la inefficacia delle sue dimissioni per averle formulate in stato di incapacità naturale.
Il Giudice di prime cure, istruita documentalmente la causa, senza ammettere le prove testimoniali né la consulenza tecnica d'ufficio richiesta dal lavoratore, rigettava il ricorso. Il lavoratore impugnava la pronuncia innanzi alla Corte di appello di Genova lamentando, in particolare, che il Tribunale non avesse adeguatamente valutato le certificazioni mediche prodotte e soprattutto avesse omesso di valutare una di queste in cui si attestava una condizione di schizofrenia paranoide. La Corte di appello rigettava il gravame ritenendo che ai fini dell'annullamento delle dimissioni occorresse dare prova dello stato di incapacità naturale "al momento" del compimento dell'atto, circostanza che, a suo dire, non emergeva in alcun modo dalle certificazioni mediche prodotte. Il dipendente ricorreva allora in Cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 428 comma 1, 2697 c.c. , 116, 421 c.p.c. , ritenendo che per orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, l'incapacità che rende invalido l'atto non debba necessariamente sussistere al momento dell'atto ma possa anche desumersi da un quadro generale anteriore o successivo all'atto che si assume pregiudizievole per l'incapace; conseguentemente, del tutto ingiusta ed erronea doveva ritenersi anche la mancata ammissione della C.T.U. richiesta ma ritenuta superflua dai giudici di appello che pure avevano accertato l'esistenza di una grave patologia psichica.
La Suprema Corte rigetta questo primo motivo di gravame riprendendo la lettera dell' secondo cui l'atto unilaterale è annullabile ove l'agente provi di essersi trovato "al momento" del compimento dell'atto ritenuto pregiudizievole, in uno stato di incapacità naturale, rinvenibile anche nel solo turbamento psichico purché risalente al "momento" della conclusione del negozio e tale da menomare, senza escluderle, le sue facoltà intellettive e volitive. Tuttavia, la Corte non manca di sottolineare che, nella fattispecie concreta, anche il quadro psichico generale del dipendente, precedente e successivo alle dimissioni, non poteva risultare indifferente. In particolare, a detta della Suprema, erano stati allegati in giudizio degli elementi di fatto che non sono stati debitamente tenuti in considerazione dalla Corte territoriale; si fa riferimento, in particolare, ad un certificato medico (riprodotto in sede di giudizio di legittimità) risalente ad appena una settimana prima dell'atto di dimissioni, attestante che il dipendente era in cura presso un centro di salute mentale per "schizofrenia cronica di tipo paranoide" e ad un altro certificato di poco più di un mese prima delle dimissioni in cui veniva richiesto al dipendente un trattamento farmacologico e psicoterapeutico da parte di uno staff specializzato da protrarsi "per diversi mesi". Alla luce di siffatto contesto, il Collegio avrebbe dovuto accogliere la richiesta di ammissione della C.T.U., al fine di verificare proprio lo stato di incapacità al momento delle dimissioni. Pertanto, accolte tutte le restanti censure avanzate dal lavoratore, la Corte cassa la sentenza rinviando ad altro giudice per l'ulteriore esame della controversia. Le questioni
La pronuncia affronta due rilevanti problematiche giuridiche tra loro connesse:
Le soluzioni giuridiche
La Corte di Cassazione nella pronuncia in esame riprende i consolidati principi di legittimità secondo cui lo stato di incapacità naturale rileva al momento dell'atto che si assume pregiudizievole (per tutti, Cass. 1 settembre 2011, n. 17977 in Diritto e Giustizia online, 2011, 274 ; Cass. 30 maggio 2011, n. 11900 in Foro it.2011, 7-8, I, 2029 ; Cass. 8 marzo 2005, n. 4967 , in Giust. civ. Mass. 2005, 3 ; Cass. 15 gennaio 2004, n. 515 , in Dir. lav., 2004, II, 201 ), puntualizzando che nei casi di gravi patologie croniche accertate da documentazione prodotta in giudizio, deve tenersi conto anche del quadro psicologico anteriore e successivo all'atto stesso perché esso può offrire chiare indicazioni sull'alterazione della sfera intellettiva e volitiva al momento dello atto ( ;
Cass. 16 marzo 1990, n. 2212 in Giust. civ.,1990, I,1762 ; Cass. 26 novembre 1997, n. 11833 , in Giust. civ. Mass.,1997, 2269 ).
Pertanto, fermo restando che l'accertamento in ordine alla sussistenza dell'incapacità naturale spetta al giudice di merito e non è censurabile in Cassazione se adeguatamente motivato, la Suprema ha evidenziato che è proprio l'adeguatezza della motivazione che manca nella sentenza gravata, giacché «il giudice, pur rilevando nel lavoratore un quadro psichico connotato da aspetti patologici »non ha poi motivato la mancata ammissione della richiesta C.T.U., nonostante ne sussistessero tutti i presupposti (per i quali si v.Cass. 23 febbraio 2006, n. 3990 in Giust. civ. Mass., 2006, 2 ; Cass. 14 gennaio 1999, n. 321 , in Giust. civ. Mass.,1999, 72 ; Cass., Sez. II, 15 gennaio 1997, n. 342 , in Giust. civ. Mass., 1997, 63 ;Cass., Sez. Lav., 5 luglio 1996, n. 6166 , in Giur. bollettino legisl. Tecnica, 1997, 4056 ;Cass., Sez Lav., 16 marzo 1996, n. 2205 , in Giust. civ. Mass.,1996, 369). Tale accertamento peritale doveva ritenersi indispensabile al fine di verificare l'incidenza causale tra l'alterazione mentale del lavoratore e le ragioni soggettive che lo avevano spinto a dimettersi. Osservazioni
La Suprema Corte analizza ancora una volta la fattispecie delle dimissioni rassegnate in stato di incapacità di intendere e di volere, che, in quanto atto unilaterale, recettizio, avente contenuto patrimoniale ai sensi dell'art. 1324 c.c. , sono annullabili secondo la disposizione generale di cui all'art. 428 c.c. , comma 1, ove il dichiarante provi di trovarsi, al momento in cui sono state rassegnate, in uno stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive tale da impedire la formazione di una volontà cosciente e di aver subito un grave pregiudizio a causa dell'atto medesimo, senza che sia richiesta, a differenza che per i contratti, la malafede del destinatario (Cass. 18.3.08 n. 7292 in Giust. civ.2009, 2, I, 451, con nota di F. Buffa ).
Per giurisprudenza pacifica, fatta propria dalla decisione in commento, l'incapacità naturale che causa l'annullamento dell'atto deve consistere nella impossibilità anche transitoria dell'agente di rendersi conto del contenuto e degli effetti dell'atto giuridico che compie (v. tra le molte, Cass. 28 ottobre 2014, n. 22836 in Foro it.2015, 4, I, 1264 ; Cass. 1 settembre 2011, n. 17977 in Diritto e Giustizia online,2011, 274 con nota di A. Ievolella, v. anche nota di A. Cantilena, in Il Diritto del mercato del lavoro, Napoli, 2012, 389; Cass. 14 maggio 2003, n., 7485 in Riv. it. dir. lav. 2004, II, 136 con nota di R. Altavilla ; Cass. 25 ottobre 1997, n. 10505 , in Giust. civ. Mass. 1997, 2010 ).
Essa è stata intesa come inidoneità ad una "seria" valutazione del contenuto dell'atto (v. Cass. 26 maggio 2000, n. 6999 in Contratti2001, 25, relativa all'annullabilità del contratto ), o, più rigorosamente, come assenza della "capacità di autodeterminazione" ( Cass. 14 maggio 2003, n. 7485 ) e di consapevolezza dell'agente in ordine all'atto che compie; non può invece consistere in dispiaceri anche gravi, quali la consapevolezza di una malattia propria, o di un prossimo familiare, salvo che essa abbia cagionato una patologica alterazione mentale ( Cass. 10 febbraio 1995, n. 1484 , in Foro it., 1995, I, 2499).
Un primo interessante profilo della pronuncia in commento riguarda la prova dello stato di incapacità naturale e, in particolare, l'adeguatezza dell'accertamento giudiziale dell'incapacità del lavoratore, come desumibile dal percorso argomentativo della sentenza impugnata. In proposito, la Corte, dopo aver premesso di aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale seguito dal giudice territoriale, secondo cui l'incapacità naturale deve essere verificata, anche in via presuntiva, al momento in cui è stato compiuto l'atto pregiudizievole, evidenzia, però - e qui sta un primo passaggio rilevante – che ciò non può comunque esimere il giudice dall'esaminare il quadro generale in cui si colloca l'atto, specie se, come nella fattispecie, siano stati dedotti in giudizio degli elementi di fatto quali una certificazione medica risalente a pochi giorni prima delle dimissioni - peraltro riprodotta in sede di legittimità - che accertava uno stato di "schizofrenia cronica di tipo paranoide" e un certificato rilasciato poco più di un mese prima del compimento dell'atto, accertante una "marcata" disabilità del lavoratore che necessitava diversi mesi di cure.
Invero, ribadisce la Suprema, l'incapacità al momento dell'atto si può rinvenire anche da tali elementi indiziari; pertanto, quando siano allegati in giudizio dal lavoratore – che così assolve al suo onere probatorio - e siano tali da certificare l'esistenza di gravi patologie croniche, impongono necessariamente al giudice di effettuare ulteriori accertamenti.
Trattandosi di una malattia cronica , può ben valere il principio, generalmente enunciato per l'incapacità totale (Cass. 28 marzo 2002, n. 4539 , in Giust. civ. Mass., 2002, 543 ), secondo cui, accertata la incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell'incapacità è assistita da presunzione iuris tantum, sicché si verifica l'inversione dell'onere della prova:grava su chi pretende la validità dell'atto dar prova che esso è stato compiuto in un lucido intervallo. Tale principio è stato in particolare ribadito in presenza di situazioni di malattia mentale di carattere permanente ( Cass. 16 marzo 1990, n. 2212 ; Cass. 26 novembre 1997, n. 11833 ). Così la Cassazione, in una fattispecie di disturbi bipolari, ha ritenuto che « potrebbe non essere di per sé decisiva la circostanza che l'atto sia stato posto in essere nell'una o nell'altra fase, considerato che in entrambi i casi potrebbe essere esistita incapacità di intendere oppure di volere, seppure non totale» (Cass. 12 marzo 2004, n. 5159 , in Dir. relaz. ind., 2005, 175 con nota di P. Tessitore ).
Del tutto coerentemente, allora, la Cassazione, nel caso de quo, ritiene che il giudizio sia stato formulato senza l'adozione di adeguati mezzi istruttori, necessari per « verificare se la dichiarazione di dimissioni fosse stata effettivamente frutto di una scelta consapevole o fosse stata invece resa in un momento di alterata percezione sia della situazione di fatto che delle conseguenze dell'atto che andava a compiere » .
Il giudice territoriale, non avendo adeguatamente considerato la portata di tali certificati, erroneamente non ha accolto la richiesta di ammissione della C.T.U., limitandosi a ritenere insussistente la prova dell'incapacità al momento delle dimissioni. Conseguentemente, la Corte accoglie la censura del lavoratore ricorrente relativa al vizio di motivazione della sentenza, vizio risultante direttamente dalla pronuncia censurata e non dal riesame degli atti di causa.
E qui si delinea un altro interessante passaggio della pronuncia, quello in tema di C.T.U. In particolare la Corte, riprendendo la distinzione consolidata in giurisprudenza tra consulente deducente e consulente percipiente, rileva il vizio di motivazione della sentenza per non aver il giudice di merito ammesso la richiesta C.T.U. (cd. C.T.U. percipiente).
Così, la Corte rimarca il ruolo della consulenza tecnica d'ufficio percipiente, che, senza sostituire l'onere della prova dello stato di incapacità naturale, gravante esclusivamente sul lavoratore, tuttavia si rende necessaria per l'accertamento di quei fatti acclarabili solo ricorrendo a cognizioni specialistiche - in questo caso, quelle mediche - indispensabili al fine di accertare la sussistenza o meno dello stato di incapacità del lavoratore all'atto delle dimissioni.
Val la pena ricordare che mentre il consulente tecnico deducente ha il compito di valutare (naturalmente in senso tecnico, non giuridico) i fatti già allegati dalle parti ed accertati, limitandosi a fornire al giudice un proprio parere scientifico e, dunque, la sua attività non produce prova, il consulente percipiente ha anche il compito di accertare i fatti stessi, dunque la sua attività consiste altresì nella ricerca e nella acquisizione della prova, sommando gli elementi acquisitivi con quelli valutativi. L'attività del consulente percipiente, perciò, costituisce fonte oggettiva di prova «ed è utilizzabile al pari di ogni altra prova ritualmente acquisita al processo» (così, Cass. 22 giugno 2005, n. 13401 . 2005, 32, 34 ; si v. anche, tra le molte,Cass. 30 gennaio 2003, n. 1512 , in Giust. civ. Mass.,2003, 235 ;Cass. 21 luglio 2003, n. 11332 , in Zacchia2004, 496 ; tra le più risalenti,v. Cass. 31 marzo 1990 n. 2629 ; Cass. 4 aprile 1989 n. 1620 ; Cass. 19 aprile 1988 n. 3064 ) . Presupposto indispensabile per l'espletamento della C.T.U. percipiente è che i fatti da accertare siano stati almeno dedotti, cioè allegati, dalle parti in causa. Quando ciò sia avvenuto, spetta algiudice decidere se ricorrono o meno le condizioni per ammetterla ( Cass. 4 novembre 1996, n. 9522 , in Giust. civ. Mass., 1996, 1455 ) tuttavia è tenuto a farlo quando essa riguardi situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche, pertanto «viola la legge processuale il giudice di merito che ne rifiuti l'ammissione sotto il profilo del mancato assolvimento, da parte dell'istante, dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 c.c. » (cosìCass. 14 gennaio 1999, n. 321 ; v. anche Cass., Sez. II, 15 gennaio 1997, n. 342 ;Cass., Sez. Lav., 5 luglio 1996, n. 6166 ;Cass., Sez Lav., 16 marzo 1996, n. 2205 ).
Così, in alcuni precedenti giurisprudenziali in tema di dimissioni dell'incapace, la Suprema, concordando con il giudice di merito, ha ritenuto superflua la consulenza tecnica d'ufficio percipiente. Si pensi al caso ( Cass. 30 maggio 2011, n. 11900 ) relativo alle dimissioni di una lavoratrice affetta da disturbi depressivi; allora, il giudice di legittimità aveva ritenuto corretta la mancata ammissione della consulenza tecnica d'ufficio, aderendo alla tesi del giudice territoriale secondo cui dalla verifica peritale ex post dello stato soggettivo della lavoratrice nel periodo antecedente e successivo all'atto, compreso tra due certificati medici comprovanti disturbi depressivi, non potesse derivare la prova presuntiva dello stato di incapacità della lavoratrice alla data delle dimissioni, in quanto, in quel caso, la Suprema aveva ritenuto che la richiesta consulenza tecnica d'ufficio potesse fornire « solo la prova probabilistica circa lo stato psichico della dimissionaria » , ma non la prova dell'esistenza di uno stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive tale da impedire, in quel momento, la formazione di una volontà cosciente.
Si ritiene, però, che la fattispecie in esame riguardi tutt'altro caso: come sottolineato a più riprese dalla pronuncia in commento, i certificati medici prodotti dal lavoratore riguardavano non generici disturbi psichiatrici ma una "marcata" disabilità neurologica e relazionale del lavoratore e una schizofrenia "cronica" di tipo paranoide, tale da far ritenere « non indifferente il quadro psichico generale » . È dunque la gravità e cronicità della patologia, attestata dai certificati medici allegati dal lavoratore che, non adeguatamente esaminati dal giudice territoriale, hanno indotto la Corte a ritenere erronea la mancata ammissione dell'accertamento peritale richiesto e dunque a cassare la sentenza rinviando alla Corte territoriale per l'ulteriore esame della controversia.
La sentenza non affronta, ritenendola assorbita, un'altra ricorrente questione correlata all'annullamento delle dimissioni: quella relativa alla sussistenza del grave pregiudizio di cui all' art. 428, 1 comma c.c. Sul punto, si ricorda comunque che la giurisprudenza di legittimità richiede che si valutino i disagi derivanti nel caso concreto e relativi non solo alle ricadute patrimoniali dell'atto ma anche a quelle psicologiche, familiari e sociali ( Cass. 14 maggio 2003, n. 7485 ; Cass. 5 novembre 1990, n. 10577 in Giust. civ. Mass., 1990, fasc. 11 ; , in Giust. Civ. Mass., 1986, fasc. 3), contrariamente ad un primo orientamento della giurisprudenza di merito (Pret. Ravenna 29 febbraio 1996, in Lav. Giur., 1996, 557) secondo cui le dimissioni dell'incapace costituirebbero ipso facto un grave pregiudizio per il lavoratore data la situazione di crisi occupazionale nazionale. |