Responsabilità degli arbitri
07 Novembre 2017
Inquadramento
Le fattispecie e le modalità entro le quali può essere fatta valere la responsabilità degli arbitri sono oggi disciplinate ad opera dell'art. 813-ter c.p.c., norma introdotta dall'art. 21, d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. La disposizione sostituisce la precedente e più restrittiva disciplina dettata dal secondo comma dell'art. 81 c.p.c., in virtù della quale gli arbitri erano tenuti a risarcire i danni subiti dalle parti unicamente sotto i due profili dell'ingiustificata rinuncia all'incarico e dell'annullamento in sede giurisdizionale del lodo pronunciato fuori termine. Dal momento in cui gli arbitri accettano l'incarico essi si obbligano a pronunciare il lodo nel termine stabilito, cui si affiancano gli ulteriori obblighi, connessi e strumentali, di non omettere né ritardare il compimento degli altri atti del procedimento arbitrale e di non rinunciare all'incarico senza giustificato motivo. In dottrina non sussiste unità di opinioni per quanto concerne il generale inquadramento della responsabilità degli arbitri e sulla possibilità di individuare ipotesi di responsabilità diverse da quelle espressamente codificate. Secondo una prima posizione, integrando il rapporto tra gli arbitri e le parti un contratto tipico, gli obblighi e la responsabilità degli arbitri potevano essere desunti in via esclusiva dalle previsioni del codice dedicate all'istituto arbitrale, senza possibilità di estendere loro ulteriori fattispecie di responsabilità mutuate da diverse categorie. Altri autori, invece, riconducono il rapporto che si instaura tra le parti e gli arbitri ora allo schema del mandato ora a quella della prestazione d'opera intellettuale, ritenendo pertanto che gli arbitri, tenuti ad espletare il proprio incarico con la diligenza richiesta, siano chiamati a rispondere del proprio inadempimento rispettivamente ai sensi dell'art. 1218 c.c. ovvero soltanto per dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c.. La giurisprudenza, proiettandosi al di là del dato normativo, ha sempre ritenuto presente la responsabilità degli arbitri nel caso di annullamento del lodo per mancanza dei requisiti minimi richiesti dall'art. 823 c.p.c. e più in generale per causa imputabile a negligenza degli arbitri nell'assolvimento dell'incarico loro conferito (Cass. civ., 17 ottobre 1996, n. 9074; Cass. civ., 4 aprile 1990, n.2800). L'attualedisciplina prevede, invece, che gli arbitri sono responsabili nei confronti delle parti qualora, con dolo o colpa grave, abbiano omesso o ritardato atti del proprio ufficio e siano così stati dichiarati decaduti ovvero abbiano omesso o impedito la pronuncia del lodo entro i termini di cui agli artt. 820 e 826 c.p.c., nonché laddove abbiano rinunciato all'incarico senza giusto motivo. La subordinazione delle canoniche forme di responsabilità degli arbitri alla sussistenza del dolo o della colpa grave (il dolo è in re ipsa nella volontaria rinuncia al mandato priva di un giusto motivo) comporta un'immunità degli arbitri laddove il ritardato compimento di alcune attività sia dovuto a mera colpa lieve. Omesso o ritardato compimento di atti del proprio ufficio e mancato rispetto dei termini per la pronuncia del lodo
Nel considerare le singole fattispecie di responsabilità, rispetto all'omesso o ritardato compimento di atti dell'ufficio, gli arbitri possono essere considerati responsabili soltanto se previamente dichiarati decaduti ai sensi dell'art. 813-bis c.p.c.. Si tratta della positivizzazione di un risultato cui erano già pervenute in via interpretativa dottrina e giurisprudenza, ritenendo, inoltre, che potesse essere chiamato a rispondere dei danni subiti dalle parti anche l'arbitro sostituito a causa della condotta inerte (Cass. civ., 7 aprile 2001, n. 6115, per una fattispecie nella quale l'arbitro aveva rifiutato di partecipare alla deliberazione del lodo). La responsabilità per pronuncia del lodo dopo la scadenza del termine può essere, invece, affermata soltanto in presenza di dolo o colpa grave dell'arbitro. L'aver previsto la responsabilità per omessa emanazione del lodo insieme a quella per pronuncia del lodo fuori termine, si giustifica alla luce dell'odierno secondo comma dell'art. 821 c.p.c., in virtù del quale, nell'ipotesi in cui la parte faccia valere la decadenza degli arbitri, questi ultimi, verificato tale presupposto, devono dichiarare l'estinzione del procedimento arbitrale. Qualora invece sia stato pronunciato il lodo, l'azione di responsabilità può essere proposta soltanto dopo l'accoglimento con sentenza passata in giudicato dell'impugnazione che sia proposta per quello stesso motivo. Per eventuali fattispecie di responsabilità diverse da quelle specificamente enucleate, il comma 2 dell'art. 813-ter c.p.c. precisa che, laddove gli arbitri agiscano con dolo o colpa grave, rispondono nei limiti di cui all'art. 2, commi 2 e 3, l. n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati. Ciò è espressione di una scelta di fondo del legislatore orientata a considerare, a prescindere da qualsivoglia presa di posizione in ordine alla natura privatistica o pubblicistica dell'arbitrato, ciò che gli arbitri concretamente fanno, ovvero giudicare quali soggetti terzi ed imparziali. Il legislatore non si è preoccupato di adeguare il rinvio alla modifica della legge sulla responsabilità. Ne consegue, per un verso, la possibilità di escludere che gli arbitri siano chiamati a rispondere per l'attività di interpretazione di norme di diritto (anche se, in senso contrario, in dottrina, c'è chi ritiene possibile provocare la responsabilità degli arbitri, qualora le parti abbiano espressamente previsto l'impugnabilità del lodo anche per la violazione delle regole di diritto) o di valutazione del fatto e delle prove. Per altro verso, è a loro estesa la previsione (art. 2, comma 3, l. n. 117/1988), secondo cui «costituiscono colpa grave»: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento. La rinuncia degli arbitri
Si è già visto come la rinuncia all'incarico da parte dell'arbitro, che abbia già accettato, determina la necessità della sua sostituzione ex art. 811 c.p.c. e, qualora la rinuncia sia operata senza giustificato motivo, l'arbitro sarà tenuto al risarcimento del danno. Fermo restando che sta evidentemente all'arbitro convenuto nell'ambito di un giudizio di responsabilità offrire dimostrazione della presenza di un giustificato motivo, dalla lettura complessiva delle norme introdotte in seguito alla riforma del 2006 è possibile individuare diverse ipotesi in cui la rinuncia si palesa legittima. Ad esempio, a fronte della sopravvenuta esistenza e/o conoscenza, da parte dell'arbitro che abbia già accettato l'incarico, di circostanze che potrebbero giustificare la ricusazione ai sensi dell'art. 815 c.p.c.; ovvero, in ipotesi del mancato versamento degli anticipi richiesti ai sensi dell'art. 816-septies c.p.c., norma che consente agli arbitri di subordinare al descritto adempimento la prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle spese prevedibili, da effettuarsi entro un termine la cui scadenza toglie efficacia alla convenzione di arbitrato con riferimento alla controversia oggetto del giudizio. Anche il nuovo art. 816-sexiesc.p.c., secondo cui la morte della parte non comporta più la proroga automatica del termine per la pronuncia del lodo (come, invece, disposto dal previgente art. 821 c.p.c.), attribuisce espressamente agli arbitri la facoltà di rinunciare all'incarico, se nessuna delle parti ottemperi alle disposizioni dettate per consentire la prosecuzione del giudizio Inoltre, la giurisprudenza ha individuato un giustificato motivo di rinuncia nellaconcreta emarginazione di un componente del collegio dalla partecipazione al giudizio e alla discussione della controversia (Cass. civ., 9 marzo 2004, n. 4756). In dottrina, invece, sono stati ravvisati motivi di legittima rinuncia degli arbitri all'incarico, nel sopravvenuto impedimento allo svolgimento delle funzioni arbitrali, determinato da una malattia o dall'assunzione di un ufficio che l'arbitro non sia libero di rifiutare, ovvero nell'ampliamento del thema decidendum che impedisca agli arbitri di svolgere compiutamente la funzione loro affidata. Per contro, giova evidenziare come, a differenza del sistema ante riforma, l'eventuale inerzia delle parti nel proseguire il giudizio arbitrale sospeso ovvero il mancato deposito della copia autentica dell'atto di instaurazione del giudizio ordinario sulla questione pregiudiziale non costituiscono più una giusta causa di rinuncia all'incarico da parte degli arbitri bensì, ex art. 819-bis c.p.c., causa di estinzione del procedimento arbitrale, che potrà essere dichiarata dagli arbitri con lodo di rito. Analogamente, è esclusa la legittimità di una rinuncia all'incarico per l'intervenuta scadenza del termine per la decisione, atteso che il nuovo art. 821, comma 2, c.p.c. prevede che gli arbitri, verificatone il decorso, siano tenuti a dichiarare estinto il procedimento; pertanto o emetteranno la citata pronuncia in rito, o, qualora ritengano che il termine non sia decorso, dovranno pronunciare nel merito. Con specifico riferimento alle ipotesi di arbitrato irrituale, la giurisprudenza ha affermato, nel vigore della disciplina previgente che la rinuncia dell'arbitro libero produce necessariamente l'effetto dello scioglimento del mandato anche collettivo (Cass. civ., 13 aprile 1999, n. 3609). L'art. 813-ter, commi 3 e 4, c.p.c. detta due regole in materia di condizioni di proponibilità dell'azione di responsabilità nei confronti degli arbitri. Innanzitutto, si prevede che tale azione sia proponibile anche in pendenza del procedimento arbitrale ma solo nell'ipotesi di responsabilità ricollegata alla decadenza o alla rinuncia dell'arbitro. Tale limitazione risponde allo scopo di evitare l'utilizzo strumentale dell'azione di responsabilità rispetto ad una successiva istanza di ricusazione nei confronti di uno o più arbitri e, più in generale, condizionamenti di qualsiasi natura ed origine che possano compromettere la serenità del giudizio arbitrale. Pericoli che, evidentemente, evaporano di fronte alla decadenza o rinuncia, poiché l'arbitro non è più parte del collegio chiamato a pronunciare il lodo. Più articolata la successiva condizione, in forza della quale, a seguito dellaconclusione del giudizio arbitrale, l'azione di responsabilità può essere proposta, per una qualunque delle ipotesi previste dall'art. 813-ter c.p.c., esclusivamente a seguito dell'accoglimento, con sentenza passata in giudicato, dell'azione di impugnativa del lodo per nullità, fondata sulle medesime circostanze che saranno poste a base dell'azione di responsabilità. Tale previsione sembra disporre una forma di garanzia nei confronti degli arbitri, subordinando la proponibilità dell'azione di responsabilità al definitivo annullamento del lodo e limitando i motivi in essa deducibili. Secondo il dettato normativo, infatti, l'accertamento compiuto nel giudizio d'impugnazione è posto a fondamento del giudizio di responsabilità, che dovrà essere promosso per i medesimi motivi per i quali è stato instaurato e accolto il giudizio d'impugnazione.
In dottrina ci s'interroga sulla possibilità di proporre l'azione di responsabilità: a) indipendentemente dall'esperimento vittorioso dell'azione ex art. 829 c.p.c., qualora si deduca l'inesistenza del lodo ovvero il procedimento arbitrale si sia chiuso in rito senza che sia stata proposta l'azione d'impugnativa per nullità; b) prima del giudizio d'impugnazione, e se la successiva proposizione di quest'ultimo determini la sospensione del primo, in attesa che passi in giudicato la decisione relativa al giudizio d'impugnazione del lodo, ovvero la sua dichiarazione d'improcedibilità (ferma restando la possibilità di riproporre, in seguito all'accoglimento dell'impugnazione, un nuovo procedimento volto a far valere la responsabilità degli arbitri). La responsabilità degli arbitri deve attendere l'esito del giudizio d'impugnazione, dato che dalla definizione di quest'ultimo dipende la possibilità d'instaurare il primo. Allo stesso modo ci si interroga sulla possibilità di ipotizzare una responsabilità degli arbitri, qualora la comunicazione del lodo, prevista dall'art. 824 c.p.c., avvenga con tale ritardo da pregiudicare il diritto della parte interessata ad impugnare il lodo. Fatta eccezione per la responsabilità che si ricolleghi al dolo dell'arbitro, la misura del risarcimento cui quest'ultimo può essere condannato incontra un limite quantitativo, nel senso che non può superare il triplo del compenso dovuto ovvero, in assenza di tale determinazione, della tariffa applicabile. La previsione di un tetto per il risarcimento dei danni dovuti dall'arbitro è una regola mutuata dalla disciplina della responsabilità dei magistrati e funzionale a garantire l'autonomia e la libertà di giudizio degli arbitri. Tuttavia, parte della dottrina ha severamente criticato la previsione di un limite quantitativo alla responsabilità risarcitoria, tenuto conto che rispetto agli arbitri non è consentito alle parti di ottenere un risarcimento illimitato nei confronti dello Stato, destinatario in via diretta dell'azione di responsabilità proposta contro il magistrato. Inoltre, dalla lettera della norma residuano incertezze interpretative legate alla concreta determinazione del limite, e ciò quando: a) l'arbitro appartenga ad una categoria professionale con tariffe legalmente approvate, non essendo chiaro se dovrà farsi riferimento al massimo o rimettere la determinazione alla discrezionalità del giudice; b) si tratti di arbitro non professionista, laddove in mancanza di una tariffa si discute se potranno trovare applicazione i criteri per la determinazione del compenso posti dall'art. 814 c.p.c.; c) nel collegio vi sia un arbitro dissenziente, la cui condotta non ha costituito fonte di responsabilità. In particolare, prevale l'idea che la quantificazione del risarcimento debba rimanere immutata anche in presenza dell'arbitro dissenziente, ma la corresponsione della somma dovuta andrà suddivisa tra i soli arbitri non dissenzienti, atteso che l'ultimo comma dell'art. 813-ter c.p.c. prevede che ciascun arbitro sia chiamato a rispondere soltanto per il fatto proprio. Si tratta di una deroga ai principi generali di cui agli artt. 1294 e 2055 c.c., il cui fondamento va rinvenuto proprio nella possibilità, per il singolo arbitro, tanto di dissentire dalle conclusioni alle quali è pervenuta la maggioranza del collegio quanto di stimolare, nel diverso caso di prolungata inerzia, la celere prosecuzione dello svolgimento dell'attività processuale. In quest'ottica, la responsabilità del singolo arbitro non sussisterà se egli riesca a dimostrare di essersi effettivamente dissociato dalla condotta ovvero dalla posizione assunta dagli altri arbitri. Pertanto, il precedente orientamento dottrinario, secondo cui la responsabilità sarebbe solidale, potrà essere confermato solo nell'ipotesi in cui l'evento che abbia ingenerato la responsabilità consista nell'omissione o nel ritardo nel compimento di unatto collegiale e in assenza della prova di un dissenso dell'arbitro di minoranza. L'accertamento dell'esistenza di una responsabilità in capo agli arbitri esclude, o — in caso di annullamento parziale del lodo, — riduce, il diritto di questi ultimi al corrispettivo ed al rimborso delle spese. In altre parole, all'accertamento della responsabilità dell'arbitro segue, ipso iure, l'estinzione del diritto a percepire il compenso, secondo un principio già accolto prima della riforma (Cass. civ., 27 aprile 2001, n. 6115). Tuttavia, la sua generalizzazione normativa a tutte le ipotesi di responsabilità non convince laddove pare corretto continuare ad escludere la sussistenza di un nesso di pregiudizialità tra il diritto al compenso (ovvero il procedimento instaurato ex art. 814 c.p.c.) e l'esito dell'impugnativa per nullità del lodo (Cass. civ., 26 novembre 1999, n. 13174), confermato, anche a seguito della novella del 2006, dalla persistente assenza di coordinamento tra la disciplina dell'impugnazione del lodo e quella posta in tema di liquidazione del compenso ex art. 814 c.p.c.. Gli arbitri, infatti, non sono tenuti ad attendere l'esito del più lungo e complesso giudizio di impugnativa del lodo per nullità (a proprio volta condizionante la proponibilità dell'azione di responsabilità) prima di dare corso alla procedura sommaria di cui all'art. 814 c.p.c., lasciando presumere che la liquidazione dei compensi arbitrali sarà, verosimilmente, effettuata molto prima dell'affermazione della responsabilità degli arbitri. D'altronde, si tratta di due procedimenti che si caratterizzano per un distinto petitum e una diversa causa petendi. Il primo è promosso contro gli arbitri e volto ad accertarne la responsabilità; di conseguenza, i fatti su cui si fonda il procedimento attengono alla presunta scorrettezza del comportamento tenuto dagli arbitri ed il medesimo è volto ad ottenere la loro condanna al risarcimento. Il secondo è promosso dagli stessi arbitri ed è volto ad ottenere il pagamento delle somme spettanti a seguito dell'incarico conferito e svolto; pertanto, i fatti sono relativi alla prestazione professionale resa dagli arbitri, in virtù della quale questi ultimi avanzano la richiesta dì liquidazione dell'onorario e del rimborso delle spese. Infine, per quanto concerne il diritto a percepire il compenso dell'arbitro privo di responsabilità, sembra da accogliere l'opinione di chi ritiene che esso permanga, laddove resta dubbio se tale diritto dovrà essere fatto valere nei confronti delle parti ovvero degli arbitri riconosciuti responsabili.
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