Responsabilità degli amministratori e rilevanza causale della condotta del singolo socio o del terzo

Antonio Franchi
27 Novembre 2017

Ove il terzo alleghi che la propria volontà negoziale sia stata in qualche modo determinata (alterandola) dal fatto che dai bilanci risultassero circostanze non rispondenti al vero che lo abbiano indotto a concludere il contratto, egli è tenuto a provare la specificità di tali circostanze, nonché l'idoneità di esse a trarlo in inganno, importando il riferimento all'incidenza diretta del danno sul patrimonio del terzo danneggiato, quale tratto distintivo della responsabilità in argomento un esame rigoroso del nesso causale...
Massime

“[…] ove il terzo alleghi che la propria volontà negoziale sia stata in qualche modo determinata (alterandola) dal fatto che dai bilanci risultassero circostanze non rispondenti al vero che lo abbiano indotto a concludere il contratto, egli è tenuto a provare la specificità di tali circostanze, nonché l'idoneità di esse a trarlo in inganno (cfr., sul punto, già Cass., 2 giugno 1989, n. 2685), importando il riferimento all'incidenza diretta del danno sul patrimonio del terzo danneggiato, quale tratto distintivo della responsabilità in argomento un esame rigoroso del nesso causale (Cass., 5 agosto 2008, n. 21130), secondo un principio di causalità ancorato al criterio del “più probabile che non””.

“[…] per affermare la responsabilità degli amministratori e dei sindaci, è pur sempre necessario che il socio o il terzo non fossero in grado, utilizzando la ordinaria diligenza, di conoscere le effettive condizioni patrimoniali ed economiche della società al momento della sottoscrizione dell'aumento di capitale o dell'acquisto delle azioni. Deve, infatti, ritenersi che, pur in presenza di bilanci che non rappresentino correttamente la effettiva situazione patrimoniale della società, sia esclusa una responsabilità risarcitoria degli amministratori ove la situazione patrimoniale effettiva fosse facilmente conoscibile aliunde.”

Il caso

Una S.r.l. conveniva in giudizio gli amministratori e i sindaci della S.p.A. delle cui partecipazioni di maggioranza la stessa S.r.l. si era resa acquirente per sentirli condannare ai sensi dell'art. 2395 c.c. al risarcimento del danno direttamente subito dalla S.r.l. in conseguenza delle condotte inadempienti ai propri doveri poste in essere dai convenuti nella redazione del bilancio, così inducendo la S.r.l. ad acquistare le azioni della S.p.A.

Le questioni

La responsabilità degli amministratori per il danno subito dal singolo socio o dal terzo

La sentenza in esame espone alcuni principi sui quali la giurisprudenza si è più volte pronunciata; tra questi: (i) l'ambito di applicazione dell'articolo 2395 c.c., (ii) i requisiti necessari ai fini della sussistenza della responsabilità dell'amministratore verso il socio o il terzo (danno ingiusto direttamente lesivo del patrimonio del socio/terzo, condotta colposa o dolosa dell'amministratore e nesso di causalità) e (iii) l'onere probatorio incombente sull'attore.

Con riferimento alla responsabilità ai sensi dell'art. 2395 c.c., occorre sottolineare che gli amministratori possono essere ritenuti personalmente responsabili per il danno subito dal terzo o dal singolo socio nell'ipotesi in cui questi siano stati direttamente danneggiati e, dunque, specifici comportamenti degli stessi amministratori siano risultati idonei a trarre in inganno la fiducia del terzo o del socio.

In proposito, le questioni di maggiore interesse sono rappresentate dal significato che debba essere attribuito all'avverbio “direttamente” utilizzato dal legislatore nell'art. 2395 c.c. e, di conseguenza, dall'individuazione del nesso di causalità necessario per l'insorgere della responsabilità in parola.

A tale proposito deve condividersi l'opinione della giurisprudenza per cui l'interpretazione dell'avverbio “direttamente” debba essere ampia, non dovendo questo essere inteso quale sinonimo di “personalmente” (nel senso di lesione del diritto soggettivo proprio del terzo), ma andando piuttosto riferito al rapporto di causalità giuridica che si instaura tra gli amministratori ed il danneggiato; derivandone la possibilità per il terzo danneggiato di agire nei confronti degli amministratori anche nel caso in cui tale terzo non abbia concluso alcun contratto con gli amministratori stessi, in applicazione, dunque, dei principi che sanzionano la responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c. (C. Masucci, Sulla responsabilità degli amministratori ex art. 2395 c.c., in Giur. comm., 1984, I, 589; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Trattato delle società a cura di Colombo - Portale, Torino, 1991, 450; F. Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 223; Cass. 2 giugno 1989, n. 2685; Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; Cass. 23 giugno 2010, n. 15220; Cass. 16 febbraio 2016, n. 2986). Né può ritenersi condivisibile l'interpretazione per la quale le prescrizioni dell'art. 2395 c.c. si applichino soltanto nelle ipotesi in cui il comportamento degli amministratori sia intenzionalmente diretto a pregiudicare il terzo (si veda in tal senso App. Bologna, 27 maggio 1995, in Dir. fall., 1996, II, 307), giacché tra le cause di responsabilità l'art. 2395 c.c. contempla non soltanto il dolo, ma anche la colpa.

Ciò posto, deve, tuttavia, considerarsi che un'interpretazione eccessivamente estensiva dell'avverbio “direttamente” amplierebbe enormemente l'ambito di applicazione della norma, legittimando, ad esempio, l'instaurazione di azioni risarcitorie da parte di tutti coloro che abbiano riposto affidamento su un bilancio di esercizio nel quale siano stati riportati dei dati falsi. Conseguentemente, dunque, si deve ritenere che gli amministratori siano responsabili verso i terzi (e i singoli soci) soltanto nell'ipotesi in cui sussista uno specifico nesso di causalità tra il comportamento illecito degli stessi amministratori e il danno subito dal terzo.

Più precisamente, nell'ipotesi della redazione di un bilancio falso, occorre che la falsità dei dati riportati nel bilancio sia stata specifica e idonea a trarre in inganno il terzo (sul quale grava il relativo onere probatorio), inducendolo a contrarre con la società (oltre alla sentenza in commento, si veda Cass. 2 giugno 1989, n. 2685, cit.); non ritenendosi che l'induzione alla conclusione di contratti per effetto della semplice appostazione in bilancio di un dato falso possa configurare un nesso eziologico sufficiente a far insorgere la responsabilità degli amministratori.

Con riguardo, poi, a comportamenti ulteriori rispetto alla preparazione di un bilancio falso, si sottolinea che possono essere utili alla concretizzazione di un valido nesso eziologico tutti quei comportamenti (ad esempio, assicurazioni fornite al terzo circa la solidità finanziaria della società) che siano stati specificamente idonei a trarre in inganno la fiducia del terzo: dovranno, quindi, essere individuati in giudizio precisi soggetti coinvolti, tempi, oggetto e modalità di tali comportamenti (si veda Cass. 2 giugno 1989, n. 2685, cit.; Trib. Milano 20 marzo 2012, in Società, 2012, 6, p. 712; Cass. 8 settembre 2015, n. 17794 in Massima redazionale, 2015).

In merito ai criteri di accertamento del nesso causale, è poi utile sottolineare che la sentenza in commento conferma l'applicazione del principio del “più probabile che non”, secondo cui, se appare più probabile, che improbabile, che l'evento dannoso sia derivato eziologicamente dalla condotta attiva od omissiva di un soggetto, la responsabilità di quest'ultimo sarà fondata ed egli sarà chiamato a risarcire il danno (si veda Cass. 18 marzo 2015, n. 5450; Cass. 8 settembre 2015, n. 17794, cit.). In base a tale principio, infatti, “l'esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice civile anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio (Cass. 26 luglio 2012, n. 13214; Cass. 9 giugno 2011, n. 12686): infatti, la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell'analisi della causalità materiale, l'adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del "più probabile che non"), che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del "50% plus unum"” (Cass. 21 luglio 2011, n. 15991).” (Cass. 22 ottobre 2013, n. 23933).

La rilevanza causale della condotta del singolo socio o del terzo

La sentenza in esame riconosce altresì che anche con riguardo alla responsabilità risarcitoria degli amministratori ai sensi dell'art. 2395 c.c., ai fini della quantificazione (e dell'esistenza) del danno risarcibile, si debba tenere conto della condotta del soggetto che agisce al fine di ottenere il risarcimento di tale danno.

Più precisamente, nel caso esaminato dal Tribunale di Roma, deve ritenersi che il Giudice, pur senza espresso richiamo, abbia fatto applicazione dei principi sanciti negli artt. 1337 (“Trattative e responsabilità precontrattuale”) e 1338 (Conoscenza delle cause d'invalidità”) c.c., stabilendo che in relazione all'acquisto di partecipazioni azionarie, la mancata verifica da parte dell'acquirente (terzo o singolo socio) della reale ed effettiva situazione patrimoniale della società target costituisce una violazione del dovere di diligenza minima, tale da incidere (elidendolo) sul necessario nesso eziologico tra la condotta degli amministratori e il pregiudizio patito dall'acquirente stesso; derivandone, per conseguenza, in tale ipotesi, la preclusione all'accesso alla tutela risarcitoria a vantaggio dell'acquirente.

Ciò in ossequio al principio generale (sotteso, appunto, agli art. 1337 e 1338 c.c.) secondo il quale il danno deve essere sopportato dal danneggiato quando il suo comportamento si ponga quale causa assorbente dell'evento dannoso, non potendosi imputare causalmente al comportamento del danneggiante il danno che il danneggiato avrebbe evitato usando la diligenza minima all'uopo necessaria (si veda M. Bianca, Diritto Civile – il contratto, vol. 3, Milano, 2000, 172). E proprio a questo criterio si è ispirata la giurisprudenza quando ha stabilito che “le norme degli art. 1337 e 1338 c. c. mirano a tutelare nella fase precontrattuale il contraente in buona fede ingannato o fuorviato da una situazione apparente, non conforme a quella vera, […], ma se vi è colpa da parte sua, se cioè egli avrebbe potuto, con l'ordinaria diligenza, venire a conoscenza della reale situazione […], non è più possibile applicare le norme di cui sopra” (Cass., 14 marzo 1985, n. 1987; ugualmente Cass. 26 maggio 2004, n. 10133; Cass. 4 marzo 2002, n. 3103. Si veda, inoltre, A. M. Musy, v. Responsabilità precontrattuale (culpa in contraendo), in Digesto online, Leggiditalia, 1998).

Quanto all'onere probatorio, vista la natura extracontrattuale dell'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 2395 c.c., spetta all'attore dimostrare il nesso causale tra la condotta degli amministratori e/o dei sindaci ed il danno subito e, con riferimento al caso che ci occupa, l'idoneità delle false comunicazioni sociali a trarlo in inganno. Spetta, tuttavia, agli amministratori convenuti dare prova della anzidetta mancanza di diligenza da parte del singolo socio o del terzo, laddove la stessa non emerga dagli atti e non possa, dunque, essere rilevata d'ufficio dal Giudice.

Osservazioni

La sentenza in esame appare particolarmente interessante, poiché riconosce un esonero da responsabilità ai sensi dell'art. 2395 c.c. per amministratori e sindaci, che pur abbiano commesso atti di mala gestio (illecita e falsa rappresentazione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società e violazione dell'art. 2447 c.c.), quando il singolo socio o il terzo che agiscano in via risarcitoria non abbiano verificato con la dovuta (ordinaria) diligenza la correttezza degli atti compiuti dagli amministratori e dai sindaci chiamati in giudizio.

Conclusioni

Nella sentenza in esame il Tribunale di Roma pone in risalto una rilevanza “universale” del principio di diligenza sancito negli artt. 1337 e 1338 c.c., così come anche alla base delle prescrizioni dell'art. 1227 c.c. (quest'ultimo anche richiamato dall'art. 2056 c.c.), stabilendo (in maniera corretta ad avviso dello scrivente) che tale principio debba informare ogni comportamento e, dunque, debba trovare applicazione anche con riguardo alla condotta di singoli soci o terzi in relazione ad ipotesi di responsabilità degli amministratori e dei sindaci ai sensi dell'art. 2395 c.c., laddove i singoli soci o terzi, appunto, non abbiano osservato criteri di diligenza nel rapporto con gli amministratori e/o sindaci convenuti in giudizio e/o la società dagli stessi amministrata o controllata.

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