Limiti soggettivi della prova testimonialeFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 246
27 Novembre 2017
Introduzione
La testimonianza, tipica prova costituenda, può essere definita come quella dichiarazione che un soggetto estraneo al giudizio rende circa l'esistenza di un determinato fatto. Nell'ordinamento civilistico, il legislatore disciplina tale mezzo istruttorio attraverso un'ampia regolamentazione, suddivisa tra norme sostanziali contenute nel codice civile (artt. 2721-2726 c.c.) e norme processuali, inserite nel codice di rito (artt. 244-257 c.p.c.). Tra tali norme vengono in rilievo le disposizioni che dettano limiti di ammissibilità alla prova testimoniale sia di tipo oggettivo (dettati dagli artt. 2721–2725 c.c. con riferimento ai contratti), sia di tipo soggettivo. Tali limitazioni si giustificano in quanto il legislatore ha sempre diffidato della prova testimoniale, anche a causa della difficoltà nella sua corretta valutazione. In effetti, per ciò che nello specifico attiene alle limitazioni di tipo soggettivo, si evidenzia come le stesse non consentono a tutti di assumere la qualità di testimone in un giudizio civile, poiché la legge intende garantire la genuinità della prova, escludendo quei soggetti che, per ragioni diverse, possono essere interessati all'esito del giudizio. I relativi riferimenti normativi erano, nella sistematica originaria del codice, principalmente contenuti in tre articoli del codice di procedura civile: l'art. 246 c.p.c., che prevedeva (e prevede) l'incapacità a testimoniare per le persone «aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio»; l'art. 247 c.p.c., che prevedeva un divieto di testimoniare a carico del coniuge nonché di parenti, affini o affiliati; l'art. 248 c.p.c., infine, secondo cui «i minori di anni quattordici possono essere sentiti solo quando la loro audizione è resa necessaria da particolari circostanze». Dei tre limiti, solo il primo sopravvive. Ciò in quanto l'art. 247 c.p.c. è stato caducato dalla scure della Corte costituzionale, che con sentenza n. 248 del 23 luglio 1974 ne ha dichiarato l'illegittimità, salvando peraltro l'art. 246 c.p.c.; parimenti è stata dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 248 c.p.c. con sentenza dell'11 giugno 1975, n. 139. Il testimone è un terzo, e cioè un soggetto distinto dalle parti in causa. L'art. 246 c.p.c. è una disposizione molto importante tra quelle dedicate alla prova testimoniale, in quanto disciplina la fattispecie in cui si sostanzia l'incapacità a rendere testimonianza, disponendo che non è capace a testimoniare il soggetto che abbia un interesse che potrebbe legittimare la propria partecipazione al giudizio; tale regola si rifà al principio secondo cui nemo testis in causa propria. Il legislatore ha, quindi, con questo articolo dettato un criterio basato sulla valutazione a priori della possibilità che il teste chiamato a deporre, per la sua particolare posizione soggettiva, non possa essere considerato terzo rispetto alla causa, venendo a perder conseguentemente il requisito fondamentale perché la deposizione da lui prestata possa rappresentare una versione imparziale dei fatti di propria conoscenza. Non vi è però concordanza in merito alla natura dell'interesse che configurerebbe l'incapacità a testimoniare. Ad avviso di alcuni esponenti della dottrina, l'incapacità a testimoniare graverebbe soltanto in capo al terzo legittimato a dispiegare un intervento adesivo dipendente ex art. 105, comma 2, c.p.c.; mentre coloro che sarebbero legittimati a proporre un intervento principale o litisconsortile ex art. 105, comma 1, c.p.c. non rientrerebbero nell'ambito applicativo della norma de qua. Altra parte della dottrina ritiene, al contrario, che sia proprio il caso dell'interventore principale o litisconsortile a essere oggetto di incapacità e che, invece, l'interventore adesivo dipendente dovrebbe essere considerato incapace a testimoniare solo se partecipasse effettivamente e direttamente per far valere l'interesse a sostenere una delle parti in causa; ne deriva che, mentre coloro che sono legittimati all'intervento principale e adesivo autonomo possono scegliere tra l'agire in separato giudizio e l'intervento nel giudizio vertente tra le parti principali, la situazione del legittimato all'intervento adesivo dipendente sarebbe necessitata, nel senso che non avrebbe altra strada all'infuori dell'intervento per poter agire a tutela del proprio interesse. Secondo tale orientamento, quindi, colui che potendo spiegare intervento adesivo dipendente non lo spiega fornisce la miglior prova del suo concreto disinteresse e ben può dirsi capace a testimoniare; il dubbio di incapacità sussisterebbe invece per chi conserva la possibilità di agire direttamente per la tutela del proprio interesse in un separato giudizio. Vi è poi una terza posizione secondo cui l'ampiezza della disposizione del codice starebbe a indicare la più ampia applicabilità della norma a tutti i casi in cui il teste abbia un seppur minimo interesse nella causa. La Corte costituzionale è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla norma in esame dichiarando sempre la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità; in particolare con la pronuncia n. 143 dell'8 maggio 2009 il giudice delle leggi ha ritenuto razionale la previsione che impedisce a chi sia portatore di un interesse che ne legittimerebbe la partecipazione al giudizio di essere teste nel medesimo, potendo questi, in base alla disciplina sostanziale, giovarsi degli effetti immediati della sentenza. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l'interesse che determina l'incapacità a testimoniare di cui alla disposizione in commento ha carattere personale, concreto ed attuale; di conseguenza, non vale a privare il terzo della capacità di testimoniare un interesse di mero fatto (Cass. civ., sez. II, 23 luglio 2015, n. 15537; Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2013, n. 2075), come quello che ad es. un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la causa in cui egli sia chiamato a deporre. Per la Suprema Corte, l'incapacità a testimoniare, prevista dall'art. 246, si identifica con l'interesse a proporre la domanda o a contraddirvi di cui all'art. 100 c.p.c. e deve, pertanto, essere giuridico, concreto ed attuale (Cass. civ., sez. lav., 12 maggio 2006, n. 11034). Diversa dalla capacità del teste è la sua attendibilità, che il giudice è chiamato sempre a verificare anche in difetto di eccezione di parte, confrontando le dichiarazioni rese con il restante materiale probatorio (cd. coerenza estrinseca), nonché fra loro, valutandone la logicità e la cd. coerenza intrinseca. A tal proposito si rammenta inoltre che «in materia di prova testimoniale, la verifica in ordine all'attendibilità del teste - che afferisce alla veridicità della deposizione resa dallo stesso - forma oggetto di una valutazione discrezionale che il giudice compie alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità» (cfr. Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2016, n. 7623). Si è inoltre precisato che la deposizione può essere ritenuta attendibile anche limitatamente a determinati contenuti, a condizione che tra la parte del narrato ritenuta inattendibile e il resto ritenuto meritevole di credito non sussista un rapporto di causalità necessaria o l'una non costituisca un imprescindibile antecedente logico dell'altro (così Cass. civ., sez. lav., 19 maggio 2016, n. 10347). Circa il momento in cui deve essere compiuto il giudizio in ordine alla capacità a testimoniare la giurisprudenza di legittimità ha affermato che lo stesso deve essere effettuato con riferimento al momento in cui la deposizione viene resa, restando irrilevante, ad esempio, che successivamente il teste medesimo sia divenuto parte per successione mortis causa alla parte originaria (Cass. civ., sez. II, 2 settembre 2008, n. 22030). Si precisa inoltre che colui che è privo della capacità di testimoniare non riacquista tale capacità per l'intervento di una fattispecie estintiva del diritto quale la transazione o la prescrizione in quanto l'incapacità a testimoniare deve essere valutata ex ante, prescindendo dalle vicende che rappresentano un posterius rispetto alla configurabilità dell'interesse a partecipare al giudizio (Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2015, n. 19258). In sostanza, l'interesse la cui presenza rende operante il divieto ex art. 246 c.p.c. va valutato sulla base delle risultanze già acquisite, indipendenti dalla dichiarazione poi resa dal teste (Cass., II, 27 agosto 1990, n. 8840). Infine si evidenzia che, così come avviene per molti altri aspetti legati ai mezzi di prova, il giudizio ex art. 246 c.p.c. e il giudizio sull'attendibilità dei testi e della rilevanza delle loro dichiarazioni sono rimessi al giudice del merito, il quale è tenuto a indicare in modo congruo e logico le ragioni del proprio convincimento, che (ove congruamente motivato) è insindacabile in sede di legittimità (Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2007, n. 1188). La testimonianza resa dal teste incapace configura, ad avviso della dottrina maggioritaria, un'ipotesi di nullità relativa, disciplinata dall'art. 157, comma 2, c.p.c., sanabile se non è fatta valere dal soggetto interessato nel momento immediatamente successivo all'assunzione della prova costituenda, poiché stabilita dalla legge a tutela degli interessi delle parti e non per motivi di ordine pubblico. La giurisprudenza si pone in linea con la dottrina maggioritaria, ravvisando un'ipotesi di nullità relativa; nello specifico si è affermato (cfr. Cass. civ., sez. II, 30 ottobre 2009, n. 23054) che detta nullità, essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come una nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., sez. II, 23 novembre 2016, n. 23896). Nel caso in cui detta eccezione venga respinta, la parte interessata ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi la medesima, in caso contrario, ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (Cass. civ., Sez. Un., 23 settembre 2013, n. 21670). Tale vizio deve essere eccepito tempestivamente (Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2009 n. 20652), subito dopo l'assunzione della prova, eccezion fatta per il caso in cui il difensore della parte interessata sia stato assente all'udienza istruttoria; in siffatta evenienza il rilievo può essere effettuato dal difensore all'udienza successiva o, al più tardi, al momento dell'acquisita conoscenza della nullità stessa se successiva (Cass. civ., sez. I, 3 aprile 2007, n. 8358). Qualora l'eccezione d'incapacità sia stata rigettata, essa deve essere riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, mediante istanza di revoca del provvedimento di rigetto; in caso contrario, si ritiene che sul provvedimento sia stata fatta acquiescenza e la sentenza di merito non potrà più essere impugnata per carenza di motivazione sul punto (Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2012, n. 5643). La giurisprudenza ritiene, altresì, che la sanatoria della nullità di cui al combinato disposto degli artt. 246 e 157, comma 2, c.p.c. - che si realizza quando la parte decade dalla facoltà di eccepire l'incapacità del teste - risponda a un principio di ordine pubblico, rappresentato da esigenze di celerità del processo. Ne deriva come logico corollario che la decadenza della parte dall'eccezione di nullità e la corrispondente sanatoria dell'atto nullo sono rilevabili anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo (Cass. civ., sez. III, 30 ottobre 2009, n. 23054). Segue: casistica
La casistica al vaglio della Corte di cassazione e delle Corti di merito si presenta particolarmente ricca e sfaccettata; di seguito viene proposta una breve sintesi delle fattispecie maggiormente significative:
Il divieto di testimoniare
Il divieto a rendere testimonianza da parte dei soggetti indicati dagli artt. 247 e 248 c.p.c., come detto, è venuto meno ad opera di due sentenze della Corte costituzionale. Tuttavia, il fatto di rivestire quelle determinate posizioni soggettive può comunque avere un riflesso sul giudizio di attendibilità. Infatti, se da un lato il venir meno del divieto di testimoniare sancito ab origine per i parenti dall'art. 247 c.p.c. non consente più al giudice di merito una aprioristica valutazione di non credibilità delle deposizioni rese dalle persone indicate da detta norma (Cass. civ., sez. II, 30 agosto 2004, n. 17384), dall'altro lato è pur vero che l'esistenza di uno dei vincoli indicati può, in concorso con altro ogni utile elemento, essere preso in considerazione ai fini della relativa valutazione, che si deve effettuare in relazione al contenuto delle dichiarazioni, mediante indicazione delle ragioni fondanti il convincimento del giudice del merito, cui è riservata l'interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, senza altro limite diverso dal dovere di dare conto delle ragioni della decisione, che non impone di certo anche di discutere e valutare ogni singolo elemento o di confutare ogni deduzione difensiva, che devono ritenersi disattesi per implicito (Cass. civ., sez. I, 28 gennaio 2008, n. 17059). In conclusione
L'art. 246 c.p.c., pur avendo sempre superato il vaglio di legittimità costituzionale (Corte cost., 23 luglio 1974, n. 248; Corte cost., ord., 10 dicembre 1987, n. 494; Corte cost., 24 febbraio 1995, n. 62; Corte cost., ord., 28 marzo 1997, n. 75), cui è stato in più occasioni e sotto vari profili sottoposto, continua a ricevere aspre critiche da parte della dottrina, a causa della limitazione del diritto alla prova che l'ampia applicazione e interpretazione della norma può implicare. Infatti secondo un autore occorrerebbe eliminare i limiti probatori la cui giustificazione appare troppo debole rispetto al corrispondente limite al diritto delle parti di difendersi provando, così come la Corte costituzionale ha fatto a proposito degli artt. 247 e 248 c.p.c.. D'altro canto, la necessità di interpretare le norme che impongano divieti di testimoniare secondo canoni ermeneutici capaci di garantire il pieno esercizio del diritto alla prova, e quindi in maniera restrittiva, è stata affermata anche dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU, sent. Dombo Beheer B.V. - Paesi Bassi, 27 novembre 1993, serie A, n. 274), che ha giudicato lesivo dell'art. 6, par. 1, CEDU, il fatto che fosse stata negata ad una società, parte di un giudizio, la possibilità di chiamare a testimoniare il proprio legale rappresentante, benché unico presente ai fatti da provare, così collocando tale parte in una posizione di sostanziale svantaggio nei confronti dell'altra, con conseguente violazione della nozione di "equo processo". Peraltro, il principio generale che emerge dalla pronuncia della Corte EDU va individuato nell'obbligo per il giudice nazionale di ammettere, anche in deroga alla normativa interna sui limiti di ammissibilità delle prove, quei mezzi istruttori che rappresentino in assoluto l'unica prova a disposizione della parte richiedente per dimostrare un fatto rilevante ai fini del giudizio. Ciò non di meno, detto principio di matrice europea non è stato recepito dalla giurisprudenza italiana, come comprovato dal fatto che, allorché è stata chiamata a decidere in ordine alla legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c., la Corte costituzionale, pur a seguito della pronuncia della Corte EDU, ne ha ribadito la legittimità, affermando la regola antitetica.
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