Tributario

Abuso del diritto ed elusione fiscale: gemelli diversi

30 Novembre 2017

L'abuso del diritto consiste nell'abuso di forme negoziali per aggirare il trattamento impositivo dovuto. Le valide ragioni economiche di un'operazione non consistono nella validità giuridica dei negozi, ma nella loro apprezzabilità economico-gestionale. L'articolo 10-bis della L. n. 212/2000 disciplina finalmente, con norma espressa e a valenza generale, tale fenomeno, superando la dicotomia rispetto all'analogo concetto di elusione fiscale.
Premessa

La tendenza all'elusione, intesa come perseguimento del minor onere da pagare, è un atteggiamento (economico) naturale dell'uomo.

Dal punto di vista fiscale (e giuridico), però, l'elusione è un fenomeno che non può essere consentito, perché, pur non violando apertamente una specifica norma, aggira comunque i principi dell'ordinamento tributario, al fine di ottenere uno scopo illecito.

Attraverso la normativa antielusiva il legislatore cerca dunque di fare emergere la sostanza (illecita) sulla forma (lecita).

L'elusione consiste infatti nell'abuso del concetto di legittimo risparmio d'imposta.

L'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 rappresentava dunque, fino a poco tempo fa, la norma antielusiva (seppur limitata a fattispecie predeterminate e alle imposte dirette) adottata dal nostro ordinamento al fine di contrastare i comportamenti patologici più rilevanti e diffusi.

Come evidenziato anche nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 32/E del 23 marzo 2001: “… L'art. 37-bis citato colpisce dunque gli atti:

  • diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento;
  • privi di valide ragioni economiche;
  • cui consegue un risparmio d'imposta”.

Nulla vieta pertanto al contribuente di porre in essere attività di pianificazione fiscale, ossia di scegliere, tra più comportamenti consentiti dall'ordinamento, quello fiscalmente meno oneroso.

Tale attività però non deve portare a risparmi d'imposta “patologici”.

Abuso del diritto e nullità civilistica

Oltre però al concetto di inopponibilità (ai fini fiscali) di cui all'art. 37-bis citato, la Corte di Cassazione, con le sentenze n. 20398 e 22932 del 2005, ha cominciato a parlare di abuso del diritto come principio immanente dell'Ordinamento e a riconoscere la possibilità di sostenere anche la nullità civilistica di quei contratti che, perseguendo un obiettivo di mero risparmio fiscale, risultavano in realtà privi di causa ai sensi degli artt. 1418, comma 2, e 1325, n. 2), del codice civile.

Con la sentenza n. 20816/2005 era stata così affermata la possibilità per l'Amministrazione Finanziaria, di dedurre la nullità di tali contratti per frode alla legge, ai sensi dell'art. 1344 del codice civile.

L'art. 1344 del c.c. poteva dunque già assumere la valenza di principio generale antifrode, applicabile ogni qual volta venissero posti in essere negozi o operazioni che, pur rispettando la lettera della legge, ne violavano lo spirito nella sostanza.

Ciò che comunque non era più rinviabile era l'introduzione (espressa) di un principio di abuso del diritto.

Art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 e imposta di registro

Oltre al citato art. 37-bis, sempre in tema di elusione e abuso del diritto, va segnalata peraltro anche la norma (tuttora vigente) in materia di imposta di registro, contenuta nell'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, la quale dispone che "L'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente".

L'esigenza è anche in questo caso quella di pervenire al prelievo d'imposta in base al principio del substance over form.

Il prelievo pertanto deve attuarsi sulla base del fine pratico unitario perseguito dai contraenti, evidenziando il collegamento funzionale esistente tra i diversi e distinti negozi, laddove la Suprema Corte di Cassazione, sez. trib., con la sentenza n. 14900 del 23 novembre 2001, ha a tal proposito affermato la funzione antielusiva dell'art. 20 del testo unico, osservando che "… la funzione antielusiva … sottesa alla disposizione in esame, emerge dunque con chiarezza, mentre l'insistito richiamo all'autonomia contrattuale ed alla rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi (e non anche di quelli economici, riferiti alla fattispecie globale), restando necessariamente circoscritto alla regolamentazione formale degli interessi delle parti, finirebbe per sovvertire gli enunciati criteri impositivi".

La prassi e la giurisprudenza

L'applicazione operativa della disciplina in materia di elusione, frode ed abuso deve tenere conto anche delle interpretazioni della Prassi e della giurisprudenza.

La Circolare n. 67 del 13 dicembre 2007 aveva già chiarito per esempio che doveva ravvisarsi ormai l'esistenza di una clausola generale antiabuso nel nostro Ordinamento, laddove l'immanenza di norme anti-abuso, sia ai fini IVA che IIDD, poteva far sì che potesse riconoscersi da parte dell'Amministrazione Finanziaria la presenza di comportamenti elusivi, anche senza la necessità di una norma positiva che sancisse tale potere.

Ad orientare l'attività dell'amministrazione fiscale e del Giudice dovevano essere dunque i seguenti elementi:

  • le operazioni controverse devono procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni.
  • deve altresì risultare, da un insieme di elementi oggettivi, che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l'ottenimento di un vantaggio fiscale.

Le operazioni relative a tale comportamento dovevano quindi essere riqualificate in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato.

In materia di abuso ed elusione si sono poi succedute una serie di sentenze che affrontano il lato probatorio della questione in esame.

La sentenza n. 1057 del 18 gennaio 2008 della Corte Cass., sez. tributaria (cfr. le sentenze della Cassazione n. 22938 del 30 ottobre 2007 e n. 21953 del 19 ottobre 2007) disponeva per esempio che “in caso di riscontrata simulazione delle cessioni soggette ad IVA …, finalizzata in ipotesi ad evadere od eludere l'IVA, occorre dimostrare - anche per via di semplici presunzioni, ricavate da indizi ritenuti dal giudice di merito, con motivazione adeguata, gravi, precisi e concordanti - l'esistenza e le caratteristiche del disegno fraudolento, attraverso il quale si realizza l'evasione o l'elusione, nonché la non corrispondenza al vero della contabilità aziendale formalmente regolare …”.

Sempre sul lato probatorio si segnala infine la sentenza n. 10257 del 21 aprile 2008 della Corte Cass., sez. tributaria, la quale dispone che “l'attività economica svolta dal contribuente riconducibile all'essenziale ed esclusivo obiettivo del conseguimento di un vantaggio fiscale costituisce fattispecie di abuso del diritto ed i relativi effetti giuridici sono irrilevanti nei confronti dell'Amministrazione finanziaria. Spetta al contribuente l'onere di dimostrare le ragioni economiche a suffragio del suo contegno, le quali devono rivelarsi sostanziali e concrete e non meramente marginali o teoriche”.

Casi operativi tra evasione, elusione e nullità

Vari fenomeni, tra loro diversi, sono comunque al confine tra evasione, elusione e nullità; vediamone di seguito alcuni esempi “operativi”.

Caso operitivo n. 1: Interessi su finanziamenti infragruppo

Spesso, in contesti di Gruppo i prestiti concessi alle società controllate sono gratuiti, senza cioè applicazione di interessi attivi sulla somma data in prestito.

A tal proposito è opportuno però sottolineare come, ai sensi dell'art. 1815 del c.c., il mutuatario è sempre tenuto alla corresponsione degli interessi al mutuante, "salva diversa volontà delle parti" (laddove però tale diversa volontà deve essere anche economicamente e fiscalmente giustificata, pena il suo disconoscimento).

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 21540/2005, ha quindi affermato che i versamenti effettuati dai soci si presumono sempre fruttiferi di interessi.

Qualora, quindi, vengano conferite delle somme ad una società del Gruppo, si può parlare di una sorta di presunzione di finanziamento.

Nel caso in cui, dunque, le operazioni di finanziamento rispondano esclusivamente a logiche di gruppo, sarà possibile riqualificare anche i versamenti a fondo perduto, o apporti di altro genere, in finanziamenti fruttiferi di interessi attivi.

Ai fini fiscali, infatti, l'art. 45, comma 2, del TUIR, dispone che, per i capitali dati in prestito, gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto; se le scadenze non sono stabilite per iscritto, gli interessi si presumono percepiti nell'ammontare maturato nel periodo d'imposta e se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale (art. 89, comma 5).

Una fattispecie speculare a quelle sopra evidenziata e che ne rappresenta anzi spesso la fase successiva, è poi quella in cui, a fronte della mancata pretesa degli interessi attivi sui finanziamenti alle controllate, la capogruppo risulti magari anche fortemente indebitata verso il sistema bancario.

Anche in questo caso gli interessi di gruppo saranno prevalenti (e quindi illegittimi) laddove quei finanziamenti, ottenuti (a titolo oneroso) dalle banche, vengano poi “girati” (a titolo gratuito) alle proprie controllate.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7292, depositata il 29 marzo 2006, ha stabilito infatti che, ai fini della deducibilità degli interessi passivi dal reddito d'impresa, si deve sempre dimostrare un collegamento fra reddito d'impresa e componente negativo deducibile.

Nella medesima sentenza, la Cassazione ha anche affermato che l'art. 75, comma 5, del TUIR (oggi art. 109, comma 5) non sancisce una generale deducibilità degli interessi passivi, ma la società dovrà “sempre e in ogni caso” dimostrare un collegamento tra reddito imprenditoriale e componente negativo, poiché quest'ultimo non può rivolgersi ad un reddito “ontologicamente” estraneo all'attività d'impresa.

Gli interessi passivi pagati dalla capogruppo per finanziamenti a favore del fine di gruppo sono dunque da ritenere indeducibili se a giustificazione del suo specifico indebitamento non vi sono ragionevoli motivi di convenienza economica (come sarà appunto nel caso in cui poi tali risorse finanziarie vengano girate a titolo gratuito alle proprie controllate).

Non bisogna dunque mai confondere i vantaggi economici delle singole società del Gruppo che sono e restano soggetti giuridicamente distinti.

Caso operitivo n. 2: Sconti e provvigioni infragruppo

Questo è, potremmo dire, l'esempio “tipico” di transfer pricing.

Sul prezzo base potrebbero essere concessi alle controllate degli sconti, laddove l'applicazione di sconti, non correlati alle specifiche condizioni di mercato, rappresenta in realtà una vera e propria forma di finanziamento per le controllate.

L'analisi della formazione del prezzo di vendita e del margine di utile conseguito potrebbero dunque testimoniare una netta diversità tra l'utile ottenuto da una transazione con una società controllata e quello ottenuto da una medesima transazione con imprese indipendenti.

Se pertanto risultasse che nella transazione con le imprese controllate estere la capogruppo (italiana), visti i forti sconti applicati, non percepisce alcun utile, in quanto la vendita avviene sottocosto, magari, addirittura, con una perdita, allora sarebbe difficile negare l'avvenuto transfer pricing.

Se d'altra parte risultasse che nelle transazioni dello stesso tipo con imprese indipendenti, la controllante ricava un utile netto positivo, l'accertamento fiscale sarebbe inevitabile.

Lo sconto potrebbe però per esempio essere giustificato dalla controllante con il fatto che la controllata agisce, in sostanza, quale intermediario nella vendita dei prodotti sul mercato estero e che dunque per tale attività avrebbe comunque diritto a delle provvigioni.

Il problema però allora riguarderebbe l'incidenza (e il relativo rapporto) della “quota” provvigioni sullo sconto.

Anche in questo caso si dovrebbe dunque appurare cosa accade in condizioni di libera concorrenza, cioè nel caso di rapporti con imprese non facenti parte del Gruppo.

Dal controllo del conto provvigioni passive potrebbe dunque anche risultare che la società controllante, nei Paesi dove non ha società controllate, corrisponde delle provvigioni e quindi potrebbe anche risultare economicamente ragionevole che la controllante conceda uno sconto alla controllata per l'attività di vendita diretta sul territorio estero.

Tale ragionevolezza però verrebbe meno laddove, per esempio, alla stessa controllata siano già riconosciute delle provvigioni per le vendite direttamente effettuate sul mercato di riferimento.

Caso operitivo n. 3: La lettera f) quater dell'articolo 37-bis del d.P.R. n. 600/1973

L'articolo 1, comma 65, della Finanziaria 2007 aveva aggiunto la lettera f-quater all'articolo 37-bis del d.P.R. n. 600/1973.

Tale previsione era vicina in qualche modo alla sopra vista logica del transfer pricing.

In forza della nuova norma, l'Amministrazione Finanziaria disconosceva i vantaggi tributari conseguiti mediante "pattuizioni intercorse tra società controllate e collegate ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile, una delle quali avente sede legale in uno degli Stati o nei territori a regime fiscale privilegiato, individuati ai sensi dell'articolo 167, comma 4, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, aventi ad oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale".

Con operazioni quali quelle indicate dalla lettera f-quater, in sostanza, si realizzavano duplicazioni di costi.

Il pagamento di somme a titolo di caparra tra imprese dello stesso gruppo può infatti realizzare manovre elusive che si concretizzano quando, a seguito del mancato rispetto degli accordi contrattuali, la caparra versata viene persa o la caparra ricevuta viene restituita nella misura del doppio.

In tali contesti è assai probabile che il versamento della caparra infragruppo rappresenti solo uno dei vari illeciti vantaggi fiscali (potremmo dire, la punta dell'iceberg).

Può infatti accadere che con tali tipi di operazioni si realizzino contestualmente vari illeciti, sia ai fini delle imposte dirette, che ai fini IVA.

Il versamento della caparra, ad esempio, ben si potrebbe inserire nell'ambito di una cessione infragruppo di un contratto preliminare di vendita.

Tale circostanza sarà del resto tanto più grave laddove, oltre all'illecita duplicazione di costi, legata al versamento della caparra, il contratto preliminare venga in realtà ceduto solo fittiziamente, con meri giri contabili infragruppo e con la formazione di illeciti crediti IVA.

Per contrastare queste operazioni illecite, sarà allora opportuno valutarle nel loro complesso.

Ogni passaggio è, infatti, strettamente connesso al successivo, rappresentandone la causa e il presupposto. Si può parlare in questi casi di negozio indiretto con effetti simulativi.

Anche questo argomento è stato già affrontato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 8098 del 6 aprile 2006.

I giudici, richiamandosi a precedenti pronunce (cfr sentenze n. 12401/1992 e n. 5917/1999), hanno in particolare ribadito che "l'accertamento dell'esistenza dell'elemento causale - definito come scopo economico sociale - deve essere effettuato sul negozio o sui negozi collegati, nel loro complesso, e non con riferimento ai singoli negozi o alle singole prestazioni. Pertanto, per verificare l'esistenza della giustificazione socio-economica del negozio occorre valutare le attribuzioni patrimoniali conseguite dai due negozi nella loro reciproca connessione …".

Ciò che, dunque, caratterizzerà operazioni come quelle in esame sarà, di solito, l'assenza di giustificazione economica del negozio di cessione del preliminare (e del versamento della connessa caparra), chiara manifestazione di simulazione del contratto.

Caso operitivo n. 4: Cessione di azienda elusiva

La messa in atto di diverse operazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo, come visto, comporta, per espressa previsione dell'articolo 20 del Testo unico del registro, una sola qualificazione giuridica dell'operazione complessiva e la sottoposizione a imposta in base alla natura dell'effetto giuridico finale.

In un caso affrontato dalla CTP di Firenze (sentenza, n. 150/20/2007, depositata il 5 novembre 2007), per esempio,ciò che contestava l'ufficio era il fatto che la cessione di un ramo di azienda fosse stata in realtà realizzata mediante un (preordinato) conferimento dello stesso.

Il ramo di azienda era stato infatti conferito ad una società appartenente allo stesso gruppo della “contestuale” cessionaria delle azioni emesse in contropartita del conferimento.

Infatti, a seguito del conferimento del ramo di azienda, la conferitaria aveva provveduto all'aumento del proprio capitale sociale, mediante l'emissione di 50mila nuove azioni ordinarie, con sovrapprezzo.

I titoli, assegnati come corrispettivo del conferimento, erano stati, però, contestualmente ceduti dalla conferente a un altra società del gruppo della conferitaria (con sede in Cipro).

La cessione veniva, cioè, attuata attraverso la realizzazione di operazioni, tutte contestuali e tutte tra loro collegate:

  • sottoscrizione da parte della conferente di un aumento di capitale della conferitaria, mediante conferimento del ramo di azienda;
  • emissione di azioni privilegiate della conferitaria;
  • contestuale cessione, da parte della conferente, delle azioni della conferitaria ad altra società del gruppo, con sede in Cipro.

Data la sostanza degli eventi, la qualità dei soggetti e la scansione temporale delle operazioni, l'ufficio applicava l'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, norma, come detto, prevista proprio al fine di impedire operazioni del genere, poste in essere per camuffare da conferimento un vero e proprio atto di cessione di azienda.

Il contribuente, da parte sua, sosteneva invece che:

  • l'articolo 20 non poteva applicarsi, in quanto relativo solo agli effetti giuridici delle operazioni e non a quelli sostanziali ed economici delle stesse;
  • le conseguenze accertative dovevano comunque essere limitate dalla volontà negoziale delle parti come manifestata negli atti stessi;
  • non si poteva tenere conto degli eventuali scopi ulteriori indirettamente perseguiti;
  • non si poteva tenere conto dei vari collegamenti negoziali, dato che il collegamento tra più atti distinti è irrilevante ai fini della determinazione dell'imposta di registro.

L'ufficio invece sosteneva che:

  • il prelievo dovesse attuarsi sulla base del fine pratico perseguito dai contraenti e l'indagine dovesse spingersi anche agli atti precedenti e successivi, sì da individuarne il fine pratico unitario;
  • l'ufficio, nell'applicazione dell'imposta di registro, non soltanto poteva, ma doveva ricostruire la causa reale, risultante dal collegamento funzionale della pluralità di negozi posti in essere dai contraenti.

Come riconosciuto dall'evoluzione giurisprudenziale della Cassazione l'interprete è dunque vincolato, nella individuazione della struttura del rapporto tributario, ad esaltare il dato giuridico reale, indicativo della capacità contributiva, laddove, ad esempio, la Suprema Corte, nella sentenza 10273/2007, ha ribadito che, in caso di applicazione dell'articolo 20 citato, "il tema dell'indagine non consiste nell'accertare cosa le parti hanno scritto ma cosa le stesse hanno effettivamente realizzato con il regolamento negoziale adottato e tanto non discende assolutamente dal contenuto della dichiarazione delle parti".

La sola cosa che, perciò, il contribuente, in tali fattispecie, può cercare di fare per “smontare” la ricostruzione dell'ufficio e le relative conseguenze giuridiche, è dimostrare che il fine pratico, la causa reale, al di là del “sospetto” derivante dalla ricostruzione e dai collegamenti negoziali evidenziati dagli accertatori, sia un altro o comunque non sia quello evidenziato dall'ufficio e abbia una sua giustificazione economica.

In conclusione

Tanto premesso, alla fine di questo lungo percorso di prassi e giurisprudenza, come si è evoluta la disciplina in materia di abuso del diritto?

Intanto si è ormai chiarita definitivamente la differenza rispetto all'evasione.

L'oggetto della contestazione, in casi di abuso del diritto, non è l'evasione di imposta, rispetto alla quale dimostrare dove e come è stato occultato il presupposto di imposta, ma un'operazione, oggetto di riqualificazione secondo la natura fisiologica che l'Ordinamento esige in base al principio di capacità contributiva, alla luce della dimostrazione:

  • da parte dell'Ufficio, degli indizi che fanno dubitare della motivazione economica sottesa all'operazione e dei vantaggi fiscali con essa perseguiti;
  • da parte del contribuente, viceversa, delle valide ragioni economiche sottese all'operazione contestata; valide ragioni economiche che dunque dovrebbero giustificare anche i vantaggi fiscali ottenuti, da inquadrare, a quel punto, se giustificati, non come illecito vantaggio, ma come legittimo risparmio di imposta.

Il perno dell'abuso del diritto consiste dunque nell'individuazione del vantaggio fiscale illegittimamente raggiunto solo grazie all'aggiramento delle norme, o meglio, solo grazie alla formale predisposizione di operazioni non “fisiologiche” (vedi Cass. civ., n. 1465/2009).

Onere dell'Amministrazione Finanziaria sarà allora in questi casi individuare quale sia la corretta operazione fisiologica che il contribuente avrebbe dovuto porre in essere e quali sono gli effetti fiscali (di vantaggio) che il contribuente ha illegittimamente ottenuto grazie alla predisposizione di un'operazione non fisiologica, in quanto non sorretta da valide ragioni economiche.

In tale direzione, frutto dell'evoluzione giurisprudenziale di Cassazione, si è mosso infine anche il legislatore nazionale (L. 11 marzo 2014, n.23, art.5), che, nel delegare al Governo l'attuazione della disciplina dell'abuso del diritto e dell'elusione fiscale, ha indicato tra i principi e i criteri direttivi quelli di: "definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d'imposta"; "garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale"; "considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell'operazione abusiva" (rectius "scopo essenziale"); "escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l'operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali"; "stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell'operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda del contribuente" (v. Cass. civ., n. 4604/2014 e 1372/2011).

In attuazione di tali principi è stato infine introdotto l'art. 10-bis dello Statuto del contribuente, laddove si stabilisce che "configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti" (comma 1) e che si considerano:

  • operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali;
  • vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario, precisando che sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato (comma 2).

Il medesimo legislatore poi chiarisce che, "ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale" (comma 4), "non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente" (comma 3).

La realizzazione di una disciplina normativa sull'abuso del diritto, nell'ambito del decreto non a caso chiamato “Certezza del diritto”, è stata quindi di un'importanza fondamentale.

Per rendere tutto più trasparente e consapevole era doveroso emanare una legge, che a tali principi desse finalmente voce positiva, superando peraltro, con l'abrogazione del citato art. 37-bis, la dicotomia, non sempre ben distinguibile, tra elusione ed abuso del diritto.

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