Il nesso di causalità tra licenziamento per soppressione del posto di lavoro e ragione organizzativa: irrilevante la comparazione tra più lavoratori
15 Dicembre 2017
Massima
ll licenziamento individuale per soppressione di un determinato posto (nella specie, di un determinato servizio legato alla cessazione di un appalto) richiede, ai fini della legittimità, la prova della sussistenza del nesso di causalità tra recesso del dipendente addetto al servizio soppresso e ragione organizzativa senza che sia necessaria né la comparazione tra tutti i dipendenti dell'azienda che svolgono mansioni fungibili né l'applicazione analogica dei criteri di scelta dettati dall'art. 5 della L. n. 223 del 1991. Il caso
A seguito della cessazione di un contratto di appalto con un Comune per il servizio di traporto pubblico locale, il datore di lavoro (società di trasporti) ha provveduto al licenziamento dei dipendenti (in numero inferiore a cinque) addetti a quel servizio. Uno dei dipendenti licenziati ha impugnato il licenziamento individuale rilevando, in particolare, che il datore di lavoro non aveva proceduto alla comparazione di tutti i dipendenti dell'azienda addetti alle medesime mansioni (conducenti-operatori di esercizio) con conseguente violazione dei criteri di scelta dettati per i licenziamenti collettivi ma applicabili in via analogica; inoltre, non era stata fornita la prova della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti. La questione
La questione in esame è la seguente: il lavoratore licenziato per soppressione del posto può pretendere la comparazione della sua posizione con quella degli addetti ai differenti posti residui che svolgono mansioni analoghe? Le soluzioni giuridiche
La necessità di una valutazione comparativa dei dipendenti in caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo è stata dalla Corte di Cassazione in più occasioni.
Invero, l'esigenza, derivante da ragioni inerenti l'attività produttiva, di ridurne di una o più unità il numero dei dipendenti dell'azienda, quando non dà luogo ad una ipotesi di licenziamento collettivo (che è regolata dalla L. n. 223 del 1991), può di per sé concretare un giustificato motivo obiettivo di licenziamento individuale, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 604 del 1966, la cui legittimità dipende dalla ulteriore condizione della comprovata impossibilità di utilizzare 'aliunde' il lavoratore licenziato, ovvero dal rispetto delle regole di correttezza di cui all'art. 1175 c.c., nella scelta del lavoratore licenziato tra più lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità" (Cass. sez. lav., nn. 7046/2011, 11124/2004, 13058/2003, 16144/2001, 14663/2001). E, quanto all'onere di allegazione e di prova, mentre l'intento discriminatorio, in quanto causa estrinseca di invalidità del recesso, va provato da parte di chi lo deduce, la correttezza o la buona fede costituiscono modalità proprie dell'esercizio del diritto, vale a dire condizioni intrinseche della validità del medesimo diritto la cui dimostrazione - nel caso di recesso datoriale - fa carico a quest'ultimo in quanto onerato (art. 5 della L. n. 604/1966) di fornire la prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento (Cass. sez. lav., n. 11124/2004).
È stato chiaramente affermato che nell'ipotesi di licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo, opera la disciplina dettata per tale tipologia di recesso, e non quella prevista per i licenziamenti collettivi (Cass. sez. lav., nn. 16897/2016, 1526/2003), che impone tra l'altro l'applicazione dei criteri di scelta previsti dalla L. n. 223 del 1991, art. 5.
In particolare, con specifico riguardo ad una ipotesi di cessazione di un appalto, la Corte di Cassazione ha già affermato - seppur incidentalmente, non costituendo, il profilo, oggetto di censura - che nell'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare, il datore di lavoro deve comunque operare in coerenza con i principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio ed il riferimento ai suddetti criteri, pur non costituendo un obbligo, costituisce uno standard particolarmente idoneo a tenere conto degli interessi del lavoratore e di quello aziendale; ha, peraltro, aggiunto che ove siano licenziati tutti i lavoratori addetti all'appalto, viene introdotto un “elemento di oggettivazione della scelta”, che si presenta coerente con il richiamato precetto normativo (Cass. sez. lav., n. 16897/2016). La sentenza in esame sottolinea e ribadisce con chiarezza questo principio, rilevando che ove si sia proceduto al licenziamento di tutti i dipendenti addetti al servizio soppresso non deve effettuarsi una valutazione comparativa con il restante personale impiegato in azienda (e adibito alle medesime mansioni) in quanto la sussistenza del nesso di causalità tra ragione organizzativa e produttiva e posizione lavorativa soppressa è sufficiente a rendere legittimo il licenziamento (impregiudicata la questione della inutilizzabilità in altre mansioni).
Con riguardo alla perdita dell'appalto cui il lavoratore era addetto, è stato inoltre precisato che la prova della inutilizzabilità comprende anche la mancata acquisizione di altri appalti (Cass. sez. lav., n. 14034/2004). Tale prova è ritenuta necessaria anche in presenza della tutela, di fonte negoziale, che impone all'appaltatore subentrante di assumere i lavoratori ivi addetti. La sentenza in esame, invece, non ha affrontato il profilo del c.d. répéchage in quanto concernente un accertamento di fatto che, così come prospettato dal ricorrente, era precluso in sede di legittimità. Osservazioni
La presente sentenza aggiunge un tassello al percorso di progressivo riordino della giurisprudenza di legittimità in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il principio che viene affermato in maniera sempre più chiara è che il giudice deve procedere ad accertare, in maniera rigorosa, l'effettività della scelta organizzativa posta a base del recesso ma non può ingerirsi nelle opzioni di carattere organizzativo che spettano esclusivamente all'imprenditore (in tal senso, esplicitamente, da ultimo Cass. sez. lav., n. 25201/2016).
Invero, il bilanciamento tra diritto al lavoro e libertà di iniziativa economica (artt. 4 e 41 Cost.) viene realizzato dal legislatore mediante l'articolazione di una disciplina che limita i poteri direttivo, di controllo, disciplinare del datore di lavoro al fine di circoscrivere la posizione di supremazia di quest'ultimo e di alleviare la posizione di soggezione del lavoratore. Le scelte del legislatore, mutevoli nel tempo a seconda del contesto socio-economico in cui vengono effettuate, rappresentano il quadro normativo entro cui il giudice deve svolgere le verifiche di legittimità dei comportamenti gestionali dell'imprenditore. Il sindacato giudiziale deve svilupparsi in applicazione di questo quadro normativo, che va interpretato secondo gli usuali canoni esegetici dettati dall'ordinamento (art. 12 disp. prel. c.c.) e coerentemente al sistema di fonti sovranazionali (Costituzione e normativa internazionale e comunitaria). In questa prospettiva, non va dimenticato che il legislatore ha recentemente e ripetutamente sottolineato il principio della insindacabilità delle scelte economiche ed organizzative del datore di lavoro (art. 30, comma 1, della L. n. 183 del 2010, rafforzata dalle integrazioni apportate dall'art. 1, comma 43 della L. n. 92 del 2012).
Va, infine, osservato che il c.d. repechage (principio giurisprudenziale tratto dalla esegesi corretta dell'art. 3 della L. n. 604 del 1966 in base al quale il datore di lavoro deve altresì dimostrare la inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni) non è inciso dalla sentenza in esame, non avendo – la Corte – affrontato la questione, riservata al giudice di merito, delle modalità di offerta di altro posto di lavoro di livello equivalente o inferiore. L'argomento attende, in realtà, una sua definitiva sistemazione giurisprudenziale a fronte delle oscillazioni interpretative relative sia agli oneri di allegazione e di prova incombenti sulle due parti (onere di allegazione e prova, ricadente sul lavoratore, dell'esistenza di posti liberi, anche inferiori, e della disponibilità a ricoprirli oppure oneri a carico esclusivo del datore di lavoro: Cass. sez. lav., n. 21035/2006. Contra, Cass. sez. lav., n. 21579/2008) sia al contenuto dell'obbligo datoriale (necessità dell'offerta, da parte del datore di lavoro, sia di posizioni equivalenti che di quelle inferiori: Cass. sez. lav., nn. 24037/2013, 1471/2013, 11775/2012, 6552/2009. Contra Cass. sez. lav., nn. 21035/2006, 16106/2001). |