Questioni (ancora) aperte sull’obbligo di ripescaggio

Roberto Romei
09 Gennaio 2018

L'obbligo di repechage rinviene il proprio fondamento in un principio meta positivo, e cioè nel principio del licenziamento come extrema ratio. Il repechage esprime un bilanciamento tra libertà di iniziativa economica ed interessi dei lavoratori che vede prevalere il principio (o la regola) di stabilità del rapporto di lavoro rispetto alla libertà dell'imprenditore di dimensionare la propria organizzazione del lavoro. L'Autore del contributo, attraverso alcune pronunce giurisprudenziali, analizza ampiezza e ricadute dell'obbligo di repechage per concludere con la distribuzione dell'onere delle prova.
Esiste un obbligo di repechage?

La risposta è semplice, e negativa, se si guarda solo al materiale normativo a disposizione, dal momento che un tale obbligo nella legge non è mai menzionato.

È invece positiva se si guarda alle posizioni espresse dalla giurisprudenza che da anni ormai non nutre dubbi sulla sua esistenza.

Può sembrare paradossale che si affermi l'esistenza di un obbligo privo di un fondamento di diritto positivo, ma, a ben vedere, meno di quanto non sembri a prima vista.

Il fatto è che l'obbligo di repechage rinviene il proprio fondamento un principio meta positivo, e cioè nel principio del licenziamento come extrema ratio (chiarissimo il nesso in Cass. sez. lav., n. 24037/2013 e Cass. sez. lav., 13116/2015).

Non è qui ora il caso di riprendere le diverse declinazioni che negli anni ha avuto questo principio: è solo sufficiente sottolineare come esso esprima un particolare bilanciamento tra libertà di iniziativa economica ed interessi dei lavoratori che vede prevalere il principio (o la regola) di stabilità del rapporto di lavoro rispetto alla libertà dell'imprenditore di dimensionare la propria organizzazione del lavoro, tanto che il licenziamento deve rappresentare la misura ultima cui ricorrere quando non sia possibile farne a meno.

L'assunto ha (o aveva) ricadute importanti su diversi piani, innanzitutto sulla stessa nozione di giustificato motivo oggettivo, che abbracciava solo quelle modifiche organizzative imposte da accadimenti esterni e che fossero finalizzate a fare fronte a contingenze esterne e impreviste (così ad es. Cass. sez. lav., n. 5173/2015). E poi sull'obbligo di repechage, che veniva attratto nella fattispecie del giustificato motivo oggettivo e dunque assoggettato al regime di cui all'art. 5 della L. n. 604/1966.

L'abbandono da parte della sentenza della Cassazione del 7 dicembre 2016, n. 25021 della tesi del licenziamento come extrema ratio ha avuto però conseguenze importanti.

Innanzitutto sulla nozione di giustificato motivo oggettivo, alla cui base vi possono essere ora anche scelte finalizzate ad una maggiore efficienza dell'organizzazione del lavoro. Ciò vuol dire che ogni scelta del datore di lavoro potrà determinare il licenziamento a condizione che sia effettivamente sussistente, non pretestuosa ed abbia nei fatti determinato una soppressione del posto di lavoro. Il che non equivale a riconoscere la piena libertà di licenziamento, ma semplicemente a circoscrivere il controllo del Giudice su di esso alla reale sussistenza di fatti connessi con l'organizzazione del lavoro o l'attività produttiva. Il “fatto”, per esprimersi nel linguaggio del nuovo art. 18 St. Lav., sarà dunque costituito dalla ragione che ha determinato la soppressione del posto di lavoro, e dunque per fare degli esempi, da una riorganizzazione del lavoro che abbia determinato la soppressione di una posizione di lavoro; da situazioni di mercato sfavorevoli, da spese impreviste, da una ripartizione delle mansioni che abbia causato una razionalizzazione dell'organizzazione del lavoro, ecc.

Quali sono le ricadute sull'obbligo di repechage?

Ma quali sono le ricadute sull'obbligo di repechage, posto che sul punto la sentenza del dicembre 2016 non si è pronunciata?

È vero infatti che l'obbligo di repechage non ha un serio e forte fondamento di diritto positivo e che attraverso la sua elaborazione giurisprudenziale una parte significativa della dottrina ha negli anni proceduto ad una vera e propria integrazione della lettera dell'art. 3 della L. n. 604/1966 senza vagliarne criticamente i presupposti.

Certo, allorché si legge, come infatti si legge nella sentenza della Cassazione del 2016 che il giustificato motivo oggettivo fa riferimento ad una situazione oggettiva, connessa all'organizzazione di lavoro o al suo regolare funzionamento, la cui oggettiva ricorrenza (in termini anche di nesso di causalità) determina la superfluità di una posizione professionale e dunque legittima il licenziamento, sembrerebbe non esservi più spazio per un obbligo di repechage. A rendere legittimo un licenziamento infatti sembra essere sufficiente l'oggettiva ricorrenza della situazione presa in considerazione dall'art. 3 della L. n. 604/1966 senza altro aggiungere.

Ma tutto lascia presumere che sia estremamente improbabile che, dopo decenni di fedeltà, si abbandoni un principio che, a torto o a ragione, è ormai diventato parte integrante del diritto vivente in tema di licenziamento, come del resto dimostrano alcune sentenza recenti della Cassazione (Cass. sez. lav., nn. 26467/2016 e 160/2017).

Ma l'abbandono della tesi del licenziamento come extrema ratio deve contribuire almeno ad un uso più consapevole dell'obbligo di repechage e ad una sua più corretta collocazione nella struttura del processo di controllo sul licenziamento.

Innanzitutto per quanto riguarda la sua ragion d'essere.

Scontata l'assenza di una base espressa nel diritto positivo; privo ormai dell'aggancio con la tesi del licenziamento come extrema ratio, l'obbligo di repechage sembra rispondere all'esigenza di istituire un controllo ulteriore sulle motivazioni del licenziamento, al fine di verificare l'assenza di ragioni ulteriori e nascoste (ad es. una discriminazione o una ritorsione) o misurare la buona fede del datore di lavoro. In tutte queste ipotesi, ed in altre consimili, verificare l'esistenza, o meglio, la inesistenza, di altre posizioni disponibili, può rappresentare un vaglio ulteriore sulla genuinità della scelta imprenditoriale.

In termini più precisi, si potrebbe anche dire che l'obbligo di repechage potrebbe essere ricavato in via di deduzione logica dalla stessa nozione di giustificato motivo oggettivo una volta che esso sia calato nel contesto del rapporto di lavoro e dunque sia integrato alla luce del criterio della buona fede contrattuale: per cui la sussistenza di ragioni oggettive alla base del licenziamento implicherebbe, logicamente, anche la inesistenza di altre occasioni di lavoro cui adibire il prestatore di lavoro.

Ma, se il licenziamento è integrato da una qualsiasi ragione che determini la soppressione del posto di lavoro l'obbligo di repechage non potrà che rappresentare un elemento esterno alla struttura del negozio di recesso, e cioè distinto dal fatto che integra il giustificato motivo oggettivo e dunque tale da non incidere sulla sua idoneità del negozio di recesso a far cessare il rapporto di lavoro.

Insomma l'obbligo di repechage potrebbe al più configurarsi come un limite esterno al potere di licenziamento, distinto dalla modifica organizzativa che determina la soppressione del posto di lavoro. Esso dunque opera dopo che si è individuata la sussistenza dei presupposti che giustificano il licenziamento, ed opera come giudizio sulla esistenza di residui spazi di occupabilità del lavoratore. Opzione questa che sembra trovare un ancoraggio anche nel diritto positivo tenendo conto di come il legislatore abbia distinto tra insussistenza del fatto, più o meno manifesta, e altre ipotesi di mancata giustificazione del licenziamento. Il repechage quindi deve essere tenuto distinto dalle ragioni alla base del giustificato motivo oggettivo, rappresentando cioè un onere aggiuntivo la cui mancanza non priva il licenziamento della sua tipica efficacia estintiva. Vale la pena di sottolineare come la conclusione non muterebbe anche ove, non condivisibilmente, dovesse ritenersi che l'obbligo di repechage, sia invece un elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo. La legge infatti ormai ha frammentato le conseguenze che derivano dalla inesistenza dei requisiti che determinano la illegittimità del licenziamento diversificandone le conseguenze, e riconnettendo la reintegrazione solo alla inesistenza del fatto, e cioè delle ragioni attinenti alla organizzazione produttiva, all' attività del lavoro o al regolare funzionamento di essa (ancora Cass. n. 25021/2016). E l'esistenza di altre posizioni cui adibire il lavoratore non rappresenta il “fatto” alla base del licenziamento, ma qualcosa che si affianca ad esso, cui la legge riconnette una sanzione diversa.

Qual è l'ampiezza dell'obbligo di repechage?

La risposta è che l'ampiezza è funzione di due variabili, da una parte l'art. 2103 c.c. che misura lo spettro e cioè l'estensione di tale obbligo; dall' altra la libertà di iniziativa economica privata che ne delimita a monte la stessa utilizzabilità.

Come è noto, secondo un indirizzo (ad es. Cass. sez. lav., n. 14178/2017; Cass. sez. lav., n. 13379/2017) l'obbligo di repechage dovrebbe estendersi anche alle mansioni inferiori. Posizione condivisa anche da chi, sulla scorta della nuova formulazione dell'art. 2103 c.c., ha proposto una lettura della disposizione che imporrebbe al datore di lavoro di verificare la possibilità di assegnare al lavoratore anche mansioni appartenenti al livello inferiore, anche ove il lavoratore non fosse in possesso delle necessarie conoscenze professionali; postulando così un onere di modificazione dell'organizzazione esistente. Ciò sul presupposto che la nuova formulazione dell'art. 2103 c.c. abbia ampliato l'oggetto del contratto di lavoro.

Ma è il presupposto a non essere condivisibile.

L'art. 2103 c.c. non amplia l'oggetto del contratto di lavoro che è sempre identificato dalle mansioni di assunzione (o da quelle successivamente acquisite). Solo queste ultime rientrano tra gli obblighi contrattuali del lavoratore; naturalmente esse potranno essere modificate, ma in virtù di uno specifico potere riconosciuto dal legge. In altri termini, l' “area del debito del lavoratore”, è identificata dalle mansioni di assunzione o da quelle che siano state successivamente acquisite. È in relazione a queste che si precisa l'oggetto del contratto di lavoro anche rispetto al requisito imposto dall'art. 1346 c.c. Le mansioni comprese nel livello di inquadramento non rientrano nell'oggetto del contratto di lavoro, ma sono il frutto di una sua modificazione come effetto di un potere unilaterale riconosciuto dalla legge. In quanto tali non sono dovute fino a quando non siano richieste per effetto dell'esercizio dello ius variandi del datore di lavoro, che è però eventuale.

E dunque non può ritenersi che la norma imponga al datore di lavoro di modificare l'organizzazione del lavoro. In realtà, pur modificando l'estensione dei limiti, il nuovo art. 2103 c.c. si muove nel solco del precedente quanto alla distinzione tra potere direttivo (connesso alle mansioni di assunzione o a quelle successivamente acquisite) e ius variandi (collegato al mutamento dell'oggetto del contratto). Insomma, l'equazione tra dilatazione dell'oggetto del contratto - esteso a tutte le mansioni inserite nel livello di inquadramento ed anche a quelle di un livello inferiore - e ampliamento dell'obbligo di repechage non tiene, perché non tiene il primo termine della stessa.

Se ne dovrà concludere che lo spettro dell'obbligo di repechage abbracci tutte quelle posizioni lavorative che siano riconducibili allo stesso livello e categoria di quelle possedute dal lavoratore passibile di licenziamento e per le quali però non sia necessario assolvere ad obblighi di formazione il cui onere, come riconosce la giurisprudenza maggioritaria, non può essere accollato al datore di lavoro.

Si è osservato che in tal modo si farebbe aggio sulla nozione di equivalenza che non trova più cittadinanza nel nostro diritto. Ma l'equivalenza rappresenta(va) un limite al potere di modifica unilaterale del datore di lavoro. Il repechage invece è un limite al potere di licenziamento. La delimitazione dell'area occupata da quest'ultimo alle sole mansioni alle quali il lavoratore può essere adibito senza oneri formativi non discende dalla riesumazione della nozione di equivalenza, ma dalla stessa struttura dell'obbligo di repechage. Se, come si è detto dianzi, può ricavarsi in via di deduzione logica dalla stessa nozione di giustificato motivo oggettivo, allora esso non può che abbracciare tutte le posizioni professionali, non necessariamente equivalenti, cui il lavoratore potrebbe essere adibito ad invarianza di obblighi per il datore di lavoro, senza cioè che questi debba procedere ad interventi formativi.

Il che è già molto, solo che si consideri il caso di organizzazioni che siano sparse per il territorio italiano e che siano articolate su diverse unità produttive. A rigore, il datore di lavoro dovrebbe fornire la prova della impossibilità di ricollocare il lavoratore su ognuna delle sedi in cui si articola l'impresa.

Con il che la prova diverrebbe di difficilissima realizzazione, tanto da vanificare nei fatti la possibilità di procedere a licenziamento individuali per ragioni economiche nelle strutture di grandi dimensioni ed articolate in una pluralità di sedi. Per tale ragione sembra ragionevole ipotizzare un seppur lieve temperamento, verificando previamente la disponibilità del lavoratore ad un trasferimento. Ove una tale soluzione sia esclusa, per il rifiuto del lavoratore, l'obbligo di fornire prova della impossibilità di una ricollocazione ne verrebbe di conseguenza ristretto.

L'obbligo di repechage e mansioni inferiori

Può invece escludersi che l'obbligo di repechage possa dilatarsi fino anche a ricomprendere l'offerta di mansioni inferiori.

Ed infatti postulare che in caso di licenziamento, il datore di lavoro debba, come ritiene qualche sentenza di Cassazione (ad es.: Cass. sez. lav., n. 26467/2016; Cass. sez. lav., n. 13516/2015), offrire al lavoratore anche la possibilità di essere assegnato a mansioni inferiori, si risolve in una trasformazione del comma 2 dell'art. 2103 c.c., tramutando quello che la disposizione qualifica come un potere in un vero e proprio obbligo. E in un ampliamento delle mansioni cui può essere assegnato il lavoratore fino a ricomprendervi anche le mansioni inquadrate in un livello inferiore, trascurando però il fatto che queste ultime non sono esigibili in via ordinaria e che dunque non fanno parte dell'oggetto del contratto di lavoro, ma sono il frutto di una sua modificazione.

Lo spostamento a mansioni inferiori, secondo il capoverso dell'art. 2103 c.c. è sempre il frutto dell'esercizio di un potere unilaterale, e dunque è ancorato ad una scelta del datore di lavoro, che tra le altre cose, non è completamente libera, ma è vincolata alla sussistenza di determinati presupposti oggettivi, e dunque non è ad esercizio completamente discrezionale.

Il secondo comma dell'art. 2103, infatti, ancora la possibilità di spostamento a mansioni inferiori alla condizione che si sia verificata una “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore”, espressione questa assai generica che appare suscettibile di abbracciare situazioni diverse anche non coincidenti con quelle che possono integrare il giustificato motivo oggettivo.

Inoltre essa determina una deviazione dagli ordinari principi di corrispettività del contratto, dal momento che il lavoratore si vedrebbe mantenuta la retribuzione percepita nel livello superiore; ed infine scatterebbe un obbligo di formazione ove la professionalità fosse diversa.

Esistono insomma molte e valide ragioni per escludere che, soprattutto alla luce della nuova disciplina del mutamento di mansioni (ma anche della vecchia, in verità), in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro debba offrire al lavoratore anche la possibilità di essere assegnato a mansioni inferiori. E comunque, quanto inferiori? Di un livello, di due o anche più. Appare chiaro che non ponendo un argine all'obbligo di repechage, esso, come già si è osservato finirebbe con il vanificare la possibilità di licenziare per ragioni oggettive.

L'onere della prova

Da ultima, ma non per ultima, vi è la questione della distribuzione dell'onere delle prova.

Questione apparentemente risolta, sembrerebbe, a stare almeno all'indirizzo che sembra oggi prevalente all'interno della Corte di Cassazione e che addossa interamente l'onere della prova al datore di lavoro sia per quanto riguarda i presupposti del licenziamento sia per quanto riguarda l'onere di repechage, ritenendo che il datore di lavoro debba provare non solo i fatti alla base del licenziamento, ma anche l'impossibilità di ricollocare il lavoratore. Poiché, dunque, l'onere della prova ricade interamente sul datore di lavoro, non è ipotizzabile alcun onere di collaborazione in capo al lavoratore, segnatamente per quanto riguarda l'onere di segnalare postazioni di lavoro su cui essere utilmente ricollocato.

La questione della distribuzione dell'onere della prova solleva problemi delicati sulla quali però la Cassazione non sembra soffermarsi più di tanto.

Anche su questo aspetto però l'abbandono della tesi del licenziamento come extrema ratio non sembra essere indifferente. È evidente infatti che se l'obbligo di repechage è considerato alla stregua di un elemento costitutivo della nozione di giustificato motivo oggettivo, le conseguenze sul piano processuale sono poi obbligate: e cioè quelle di attrarlo nell'orbita dell'art. 5 della L. n. 604/1966.

Ove invece si ritenga, come si è osservato sopra, che l'obbligo di repechage sia posto su un piano diverso ed esterno rispetto alle ragioni che integrano il giustificato motivo, la distribuzione degli oneri probatori potrà ben seguire una strada diversa in cui le posizioni reciproche sono scandite non in base ad un principio di cooperazione, ma in base alle ordinarie regole che governano nel processo la prova dei fatti costitutivi di un diritto e dei fatti contrari che ne inficiano la sussistenza.

Invero, se il lavoratore chiede l'accertamento della esistenza di un rapporto di lavoro, il datore di lavoro dovrà dedurre l'esistenza di un fatto estintivo del rapporto e cioè la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo. Una volta che il datore di lavoro dimostri l'esistenza di ragioni serie e sufficienti, tali cioè da giustificare integrare l'esistenza di un giustificato motivo oggettivo, l'inadempimento dell'obbligo di repechage sembrerebbe piuttosto configurarsi come una eccezione del lavoratore cui il datore dovrà rispondere, ma nei limiti dell'eccezione stessa che vale dunque a delimitare l'onere di contro dedurre del datore di lavoro.

Guida all'approfondimento
  • M.T. Carinci, Obbligo di “ripescaggio” nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del jobs act, in RIDL, 2017, pagg. 203 ss.
  • F. Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, in CSDLE it. n. 257/2015
  • Romei, La modifica unilaterale delle mansioni, di prossima pubblicazione in RIDL, 2018
  • R. Del Punta, Sulla prova della impossibilità del ripescaggio nel licenziamento economico, in A, Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Torino, 2013, p. 31 ss.

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