Ancora sul dovere di ripescaggio nel giustificato motivo oggettivo di licenziamento

Riccardo Del Punta
10 Gennaio 2018

Nel grande lavoro che, dal 2016, la giurisprudenza della Cassazione è andata facendo (anche) sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento e che è culminato, per adesso, nell'ormai celebre pronuncia n. 25201/2016, la questione del ripescaggio, che è tanta parte della problematica applicativa del GMO, sembra ancora bisognosa di un supplemento di analisi.
Premessa

Nel grande lavoro che, dal 2016, la giurisprudenza della Cassazione è andata facendo (anche) sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento e che è culminato, per adesso, nell'ormai celebre pronuncia n. 25201/2016, la questione del ripescaggio, che è tanta parte della problematica applicativa del GMO, sembra ancora bisognosa di un supplemento di analisi.

Questa valutazione, tuttavia, deve essere giustificata (ed è questo l'obiettivo delle pagine che seguono), perché potrebbe ritenersi smentita dal fatto che la svolta giurisprudenziale che si è prodotta, giusto nel 2016, su un aspetto-chiave del dovere di ripescaggio, sembra essersi consolidata nell'anno in corso.

Proviamo a ripercorrere il filo della complicata vicenda. La pronuncia n. 25201/2016 ha sì superato la tesi del licenziamento come extrema ratio, ma per un aspetto diverso da quello del dovere di ripescaggio, vale a dire per quello delle ragioni oggettive determinanti del licenziamento. Anzi, proprio in considerazione della relativa liberalizzazione patrocinata dalla S.C. su tale versante, il dovere di ripescaggio appare più saldo che mai, a dispetto delle critiche che una parte della dottrina insiste a indirizzargli.

Né possono esservi dubbi sull'essere, il dovere in discorso, parte della fattispecie sostanziale del GMO, per quanto in una posizione distinta da quella della ragione determinante e del relativo nesso causale con il licenziamento (per un'analisi più approfondita, rimando a R. Del Punta, Sulla prova dell'impossibilità del ripescaggio nel licenziamento economico, in A. Perulli, a cura di, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Torino, 2017, 31-48; nello stesso vol., v. anche R. Romei, Natura e struttura dell'obbligo di repechage, 97-109).

Dopo di che, resta il problema, non di dettaglio, di come applicare il meccanismo del ripescaggio, il che coinvolge, a livello processuale, la gestione dei giudizi, ma ancor prima, e dunque a livello sostanziale, la procedura decisionale dell'impresa circa questo tipo di licenziamenti.

Onere della prova: gli orientamenti

Il punto oggetto del revirement del 2016 è stato, segnatamente, il seguente. In precedenza, per non rendere troppo difficoltosa, quando non impossibile, la prova a carico del datore di lavoro circa l'impossibilità del ripescaggio (in aggiunta a quella circa la veridicità della ragione determinante e il nesso di causalità), la giurisprudenza tendeva a ritenere che essa potesse essere ragionevolmente contenuta nei limiti delle contrapposte deduzioni delle parti, id est nei limiti dei posti di lavoro allegati dal lavoratore licenziato come disponibili, o comunque tali da consentire la sua utilizzazione (v. Cass. n. 3224/2014 e 6501/2012, ed ancora, dopo la svolta ma presumibilmente senza esserne a conoscenza, Cass. n. 10018/2016 e 9467/2016).

Di contro, Cass. n. 5592/2016 ha affermato, in consapevole dissenso con il precedente indirizzo, che l'onere della prova a carico del datore di lavoro, ex art. 5, L. n. 604/1966, prescinde dalle allegazioni del lavoratore, il quale non ha alcun onere a tale riguardo, considerato che non può essergli addossato un generico dovere di collaborazione processuale e, soprattutto, che gli oneri di allegazione e di prova procedono necessariamente insieme.

Questo comporta, all'estremo, che il lavoratore può limitarsi a dire “io impugno” e lasciare a sbrigarsela il datore di lavoro convenuto, al quale spetta di censire, a livello di allegazione (e prima ancora, ovviamente, all'atto dell'adozione del recesso), le potenziali possibilità di recupero del lavoratore, per poi offrire di provare, con riguardo a quelle possibilità, che esse erano (e sono) soltanto teoriche, perché in realtà quei posti erano (e sono) già occupati.

Come accennato, questo indirizzo sembra essersi decisamente consolidato in successive pronunce del 2016 (Cass. n. 20436/2016 e 12101/2016) e nella giurisprudenza del 2017 (Cass. n. 27792/2017, 18833/2017, 18506/2017, 17631/2017, 9869/2017, 618/2017, 160/2017).

Alla luce di ciò, non può più parlarsi di un contrasto interno alla Sezione lavoro, quanto di una svolta che si è consumata.

Tale circostanza fa ritenere altresì superati, almeno per il momento, gli argomenti spesi in dottrina in favore dell'indirizzo tradizionale. Per quanto mi concerne, nello scritto già evocato ho provato ad indicarne due: il primo è che chi agisce in giudizio, cioè nel caso il lavoratore, è comunque tenuto a circoscrivere fattualmente l'asserito inadempimento (ove si configuri quella in discorso, secondo il modo processualcivilistico, come un'azione di adempimento) o le ragioni di illegittimità del licenziamento (ove la si configuri, da giuslavoristi, come di impugnativa dell'atto), per cui il convenuto dovrebbe potersi difendere in corrispondenza delle allegazioni dell'attore; il secondo è che l'utilizzabilità aliunde del lavoratore, più che una ragione giustificatrice del licenziamento, ne è piuttosto una ragione ostativa che si inserisce nella fattispecie in via di eccezione, di modo che, pur restando fermo che la prova dell'insussistenza di tale ragione ostativa deve essere data dal datore di lavoro per dettato positivo, essa dovrebbe ritenersi circoscritta alle allegazioni proposte in via di eccezione (in questo ordine di idee, v. anche R. Romei, nello scritto cit.).

Ciò, sebbene debba ribadire, come indicazione di fondo discendente dal principio di vicinanza della prova - e dunque dall'esigenza di non costringere il lavoratore ad allegare quello che non può ragionevolmente conoscere -, che dovrebbero essere ritenute idonee, al fine, anche allegazioni generiche sulle mansioni alternative che il lavoratore si sentirebbe in grado di svolgere.

Niente da fare. Nei più recenti arresti la S.C. ha chiaramente manifestato l'avviso di dare continuità all'indirizzo inaugurato (tralasciando più remoti precedenti) da Cass. n. 5592/2016, ribadendo, di conseguenza, l'aggravamento della prova dell'impossibilità del ripescaggio.

Pertanto, pur continuando a nutrire perplessità sul nuovo orientamento, l'osservatore non può che prenderne atto, e tentare di seguirlo nelle sue implicazioni concrete, per come esse emergono dalla più recente giurisprudenza di legittimità (o meglio, da quella minoranza di casi nella quale i ricorsi sono riusciti a superare il vaglio di ammissibilità, condotto alla luce dei parametri di cui alle Sentenze n. 8053-8054/2014 delle Sezioni Unite).

Ambito logistico-geografico e professionale entro cui il datore di lavoro è tenuto a operare il ripescaggio

Per cominciare, esce confermato, dalla giurisprudenza, che l'accertamento dell'impossibilità del ripescaggio si colloca in un momento logicamente successivo a quello della veridicità della ragione determinante e della sussistenza del nesso di causalità con il licenziamento. Ne segue che se quest'ultimo accertamento dà un esito negativo, ad es. perché l'addotta soppressione del posto è stata smentita dall'assegnazione delle mansioni del licenziato, pochi mesi dopo il recesso, a un dipendente neo-assunto, non si può fare questione di ripescaggio (v. il caso esaminato da Cass. n. 26164/2017; nei medesimi termini, v. Cass. n. 25649/2017).

Per altro aspetto, non si deve confondere il tema del ripescaggio con quello, anch'esso logicamente antecedente, della scelta del lavoratore licenziato rispetto ad altri possibili destinatari del provvedimento, ove professionalmente fungibili con il predetto: v. Cass. n. 14178/2017.

Giungiamo, così, al punto che ci preme. Rispetto a quale, sia pure senza dover creare un nuovo posto di lavoro (esimendoci qui dall'affrontare il sotto-problema dei “ragionevoli adattamenti” da riservare al lavoratore disabile), dunque è richiesto di provare l'impossibilità dello stesso?

Stando alla giurisprudenza più volte evocata, il datore di lavoro non può sfuggire all'onere di fornire tale prova rispetto a tutti i posti disponibili, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati indicati dal lavoratore ricorrente nelle allegazioni introduttive.

Ciò sembra comportare, a rigore, che anche nel caso in cui quelle indicazioni siano state date, la controprova (in senso atecnico) del datore di lavoro, se deve necessariamente appuntarsi sulle mansioni indicate, non può limitarsi a quelle (si v. Cass. n. 618/2017: “Ove peraltro il lavoratore contesti, come nella specie, le allegazioni datoriali mediante l'indicazione di eventuali postazioni disponibili non evidenziate dal datore, l'onere probatorio di quest'ultimo potrà essere correlato anche – corsivo mio - alle indicazioni fornite dal lavoratore”).

In un unico caso, nel novero delle decisioni esaminate, la S.C. (n. 13857/2017) ha salvato una pronuncia di merito che aveva sollevato il datore di lavoro dall'onere probatorio perché nel ricorso il lavoratore non aveva contestato l'insussistenza di collocazioni alternative, addotta nella lettera di licenziamento (va detto, peraltro, che l'unità produttiva in discorso era molto piccola, e contava soltanto due ulteriori dipendenti).

Una volta acquisito che la prova deve concernere tutte le posizioni di lavoro disponibili, ci si deve domandare se essa debba riguardare:

  1. soltanto le posizioni esistenti entro un certo raggio geografico o tutte le mansioni esistenti nelle eventuali, plurime, articolazioni territoriali dell'impresa;
  2. tutte le posizioni del medesimo livello professionale del lavoratore licenziato o anche quelle di livello inferiore;

  3. soltanto le posizioni professionalmente occupabili dal lavoratore licenziato o anche altre, nelle quali egli potrebbe essere professionalmente riconvertito, anche se con un impegno formativo a carico dell'azienda.

Per quanto concerne il profilo sub 1), esso non sembra essersi affacciato nella recente giurisprudenza di legittimità, ma la cruda verità (per le imprese multi-localizzate) è che non esistono virtualmente limiti, alla luce del detto e del non detto della giurisprudenza, all'estensione logistico-geografica del dovere di ripescaggio, in specie nel caso in cui le attività, di produzione o (più spesso) di servizio, svolte presso le unità decentrate, siano le medesime.

Ne deriva che,a rigore, il datore di lavoro è tenuto teoricamente a provare l'impossibilità di ripescare in un'unità della Valle d'Aosta un lavoratore licenziato in Puglia, indipendentemente dal fatto che egli sia veramente disposto a trasferirsi là. Di certo, un'eventuale sentenza di reintegrazione in servizio (oggi possibile, peraltro, soltanto nel regime ante-tutele crescenti) lo costringerebbe a scoprire le carte, ma è facile prevedere che, a quel punto, giungerebbe in suo soccorso l'indennità sostitutiva di 15 mensilità.

Circa il profilo sub 2), l'estensione dell'ambito professionale del possibile ripescaggio a mansioni di livello inferiore sembra ormai acquisita: v. Cass. n. 14178/2017; Cass. n. 13379/2017 (tanto più che, nel caso, era risultato che il lavoratore aveva svolto, di fatto, anche quelle mansioni, in modo promiscuo con quelle principali).

Né essa è stata scoraggiata, tutt'altro, dalla riscrittura dell'art. 2103, c.c., da parte del D.Lgs. n. 81/2015, salvo che essa, a mio avviso, può fornire un argomento per circoscrivere il dovere “unilaterale” di ripescaggio (a parità di trattamento economico) alle mansioni inferiori di un livello, lasciando declassamenti ancora più impegnativi, in senso sia professionale che economico, a eventuali accordi derogatori ex art. 2103, 6° co. (come più diffusamente argomentato in R. Del Punta, op.cit.).

A fronte di queste convergenti spinte all'estensione dell'ambito del possibile ripescaggio, il datore di lavoro può ritenersi sollevato dall'onere probatorio soltanto rispetto a quelle posizioni alternative che abbia offerto al lavoratore prima del licenziamento (non vale, infatti, una proposta successiva, fatta in chiave transattiva: v. Cass. n. 13606/2017), incontrando in lui un rifiuto.

Il datore di lavoro, tuttavia, non può ritenere di aver soddisfatto l'onere probatorio a suo carico offrendo una collocazione in una società collegata ma non costituente un unico centro di imputazione con quella che ha disposto il licenziamento: per casi del genere, nei quali è il datore di lavoro a invocare, insolitamente (ma invano), l'”unicità” aziendale, v. Cass. n. 15872/2017, 13809/2017, 13379/2017.

Venendo al profilo sub 3), il principio che il datore di lavoro sia tenuto a provare “soltanto” l'impossibilità di ripescare il lavoratore in mansioni compatibili con la sua professionalità sembrerebbe imposto dalla logica, oltre che dalla ragionevolezza (per l'accettazione di tale principio, v., in motivazione, Cass. n. 13809/2017, che peraltro ha sconfessato un'azienda che aveva tentato di riciclare un lavoratore in una società collegata – e già questo non andava bene: v. retro –, per poi addurre, con una valutazione meramente potestativa secondo la S.C., che il lavoratore non aveva superato il colloquio di idoneità). Né sembra possibile addossare al datore di lavoro, in questi casi, un generalizzato dovere di riqualificazione professionale.

Resta il fatto che il principio in questione appesantisce ulteriormente l'onere a carico del datore di lavoro, il quale, nel caso in cui non sia in grado di provare l'impossibilità di un reinserimento con riguardo a tutte le posizioni teoricamente esistenti, avendo fatto, per alcune di esse, nuove assunzioni, dovrà provare che quelle posizioni non sarebbero state invece assegnabili, per competenza e/o esperienza professionale, al lavoratore licenziato.

Non si registrano particolari novità, infine, sui modi nei quali il datore di lavoro, nell'ambito come sopra determinato, può fornire la prova in questione,.

La prova da dare, infatti (v. Cass. n. 22720/2017), è sempre quella che i residui posti relativi a mansioni equivalenti erano stabilmente occupati, e che dopo il licenziamento e per un congruo lasso di tempo (i 6 mesi di prammatica) non sia stata effettuata alcuna assunzione in quella qualifica o in altre assegnabili al lavoratore.

Quanto ai mezzi di tale prova, restano aperte le solite due vie del deposito del LUL, anzi degli eventuali numerosi LUL per ciascuna unità (con il conseguente intasamento dei canali del deposito telematico: a chi scrive è capitato di completare un deposito, a causa dei necessari spezzettamenti dell'ampia documentazione da produrre, alle 23:59 del giorno di scadenza), e delle (peraltro più deboli) prove testimoniali. In uno dei casi nei quali la S.C. ha ribadito il nuovo orientamento (n. 9869/2017) la pronuncia di merito è stata cassata anche per aver rigettato la richiesta del lavoratore di esibizione del LUL rilevante: il che, in tutta onestà, pare eccessivo anche a un critico dell'indirizzo qui commentato.

Conclusioni

A commento finale, non si può dire altro se non rimettere alla giurisprudenza, che in una materia come questa può fare e disfare (il dovere di ripescaggio è stata lei a crearlo, per cui ha anche il potere di modularlo senza essere condizionata da dettami superiori), la valutazione se un onere probatorio (e a monte un onere sostanziale) di tale ampiezza sia ragionevolmente addossabile al datore di lavoro, o se invece, quantomeno sotto il profilo logistico-geografico, esso non rischi di varcare la soglia della prova praticamente impossibile.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario