Responsabilità dei componenti del Collegio Sindacale e accertamento dell’elemento soggettivo

15 Gennaio 2018

In caso di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per affermare la responsabilità a titolo di concorso nel reato dei componenti del Collegio Sindacale, devono ricorrere puntuali elementi sintomatici, dotati di necessario spessore indiziario, in forza dei quali l'omissione del dovere di controllo esorbiti dalla dimensione meramente colposa
Massima

In caso di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per affermare la responsabilità a titolo di concorso nel reato dei componenti del Collegio Sindacale, devono ricorrere puntuali elementi sintomatici, dotati di necessario spessore indiziario, in forza dei quali l'omissione del dovere di controllo - e, pertanto, l'inadempimento dei poteri/doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso a impedire le condotte distrattive degli amministratori - esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di compartecipazione dolosa, sia pure nella forma del dolo eventuale.

Il caso

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione torna ad affermare la necessità di un solido impianto motivazionale alla base dell'accertamento dell'elemento soggettivo doloso in capo ai componenti del Collegio Sindacale di una società, dichiarata fallita, in caso di condanna per il reato di «bancarotta omissiva» ex artt. 110, 40 cpv. c.p., 216, comma 1, n. 1 e 223 l. fall.

Nella vicenda in esame veniva contestato ai componenti del Collegio Sindacale di una s.r.l. di aver omesso di rilevare, all'esito della verifica trimestrale loro demandata, alcuni prelievi dai conti correnti della società di ingenti somme corrispondenti al ricavato della vendita di quote di una società controllata dal medesimo gruppo imprenditoriale.

In particolare, il verbale del Collegio Sindacale immediatamente successivo alle date in cui erano stati effettuati tali prelievi di denaro dichiarava la «mancanza di problemi» e non svolgeva alcuna osservazione in merito alle operazioni a mezzo delle quali le somme uscite dal patrimonio della società erano state contabilizzate, né della causale «restituzione finanziamento soci» riportata negli estratti bancari.

Al riguardo, a sostegno della tesi dell'accusa vi era l'evidenza documentale di come, dal libro delle delibere del Consiglio di Amministrazione, non risultasse né tale richiesta di finanziamento, né che del medesimo fosse stata autorizzata la restituzione.

La condotta degli sindaci veniva ritenuta penalmente irrilevante dal giudice di primo grado che pronunciava sentenza assolutoria in ragione della carenza di prove della partecipazione dolosa degli imputati alle condotte degli amministratori.

Il giudizio di appello, viceversa, valorizzando gli argomenti dell'Accusa, affermava la responsabilità dei sindaci sottolineando la sussistenza di un inequivoco nesso causale tra la condotta omissiva di questi e il fallimento della società.

La Corte di legittimità, tuttavia, non ritenendo sufficiente le argomentazioni addotte dalla sentenza di secondo grado in tema di accertamento dell'elemento soggettivo del reato, ne disponeva l'annullamento e il conseguente rinvio del giudizio ad altra sezione per una nuova valutazione di merito.

La questione giuridica

La sentenza offre lo spunto per richiamare i tratti principali della responsabilità penale degli organi di controllo per omesso impedimento degli illeciti societari. Essa si articola dalla combinazione della generale c.d. clausola di equivalenza prevista dall'art. 40 cpv. c.p. (in base al quale, non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo) con la disposizione di legge assunta violata dalla condotta del soggetto proprio del reato (di norma, nei casi di bancarotta societaria, si tratta dell'amministratore della fallita).

Tale schema si articola attraverso:

i) l'individuazione di una posizione di garanzia in capo all'organo di controllo e, conseguentemente, di un obbligo giuridico d'impedimento e dei poteri impeditivi ad esso correlati;

ii) la prova del nesso causale tra la mancata attivazione dei poteri impeditivi e il fatto di reato contestato in principalità all'amministratore, secondo lo schema del concorso di persone previsto dall'art. 110 c.p.;

iii) la prova del dolo e, quindi, della rappresentazione e volizione del fatto storico medesimo.

Quanto al primo aspetto, come noto, si parla di responsabilità concorrente dei sindaci con gli amministratori che abbiano cagionato un danno alla società ogniqualvolta le omissioni dei sindaci abbiano costituito una violazione degli obblighi di controllo legalmente imposti dal dovere di garantire l'osservanza della legge ed il rispetto dell'atto costitutivo, oltre che l'accertamento della regolarità della tenuta contabile.

In particolare la fonte di tale obbligo viene ricondotta alla disposizione di cui all'art. 2403 c.c., a mente del quale il Collegio Sindacale vigila sull'osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e in particolare sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo corretto funzionamento.

Tale potere-dovere, difatti, non esaurendosi nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori – e pur non potendo investire in forma diretta le scelte imprenditoriali – si estende al contenuto della gestione sociale, a tutela non solo dell'interesse dei soci, ma anche di quello concorrente dei creditori sociali (cfr. Cass. pen., sez. V, 14 gennaio 2016, n. 18985).

Circa la sussistenza del nesso causale, poi, i sindaci possono essere chiamati a rispondere penalmente per aver omesso di impedire l'evento distrattivo dell'amministratore qualora sussistano puntuali elementi di riscontro secondo cui l'attivazione dei poteri-doveri di vigilanza - che ineriscono alla loro funzione - sarebbe valsa ad impedire le condotte distrattive degli amministratori.

Venendo infine al terzo aspetto, è necessario che tale omissione esorbiti dalla dimensione meramente colposa per essere, invece, ricondotta ad una forma di dolosa compartecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, nel senso della consapevole accettazione del rischio che l'omissione del controllo dovuto avrebbe potuto consentire la commissione degli illeciti posti in essere dagli amministratori.

In ossequio a tale percorso logico, pertanto, la responsabilità dei sindaci non può essere fondata sulla mera posizione da essi rivestita (si tratterebbe infatti di una inammissibile declinazione oggettiva della stessa), né potrà essere affermata, sotto il profilo dell'elemento soggettivo qualora l'omissione contestata sia da attribuire a mera negligenza, che non implichi alcuna accettazione del rischio di fatti distrattivi.

Al riguardo, la giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare che il giudizio di responsabilità dei sindaci ex art. 40 cpv c.p. impone di distinguere due momenti, tra loro complementari, ma idealmente distinti seppure entrambi essenziali:

(i) il primo postula la rappresentazione dell'evento (i.e.: la condotta degli amministratori) nella sua portata illecita;

(ii) il secondo richiede la consapevole volontarietà dell'omesso impedimento (appunto l'elemento soggettivo del dolo, quantomeno eventuale).

È in tale ottica, infatti, che si è andato formando l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che ha sottolineato l'importanza probatoria dei c.d. «segnali di allarme», cioè il manifestarsi di quegli elementi la cui peculiarità avrebbe imposto, in capo al sindaco, l'accertamento del loro grado di anormalità ovvero, a fronte della inequivocabilità di tali segnali, l'immediata attivazione dei doveri di impedimento del fatto illecito.

In definitiva, alla luce della elaborazione giurisprudenziale in materia di art. 40 cpv. c.p., per reprimere le condotte omissive ascritte ai sindaci è necessaria la dimostrazione della precisa rappresentazione dell'evento nella sua portata illecita e la consapevole omissione nell'impedirlo.

Come infatti affermato dai giudici di legittimità, «sussiste la responsabilità dei sindaci, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, qualora ricorrano puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l'omissione del potere di controllo - e, pertanto l'inadempimento dei poteri doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso ad impedire le condotte distrattive degli amministratori - esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole accettazione del rischio che l'omesso controllo avrebbe potuto consentire la commissione di illiceità da parte degli amministratori» (Sez. 5, n. 26399 del 05 marzo 2014).

Osservazioni

Alla luce di queste seppur brevi considerazioni, si comprende come la sentenza della Corte di merito annullata dai giudici di legittimità si caratterizzasse per l'alterazione dello schema di accertamento della responsabilità penale appena richiamato poiché: i) ha accertato solo apparentemente la rilevanza causale dell'omissione contestata; ii) ha esaurito la prova del dolo nella mera violazione delle regole di diligenza.

Anzitutto, come stigmatizzato dalla Corte di legittimità, il percorso argomentativo seguito dalla Corte d'appello non spiega come i predetti sindaci avrebbero potuto prevenire o impedire l'evento, posto che al momento del controllo loro demandato le operazioni "distrattive" erano state già compiute.

Nel caso di specie, invero, il dato temporale assumeva particolare significatività posto che la verifica svolta dai sindaci (e oggetto di contestazione) aveva luogo il giorno immediatamente successivo all'ultimo dei prelievi contestati, quando, ormai, ogni possibilità di evitare la condotta decettiva degli amministratori sarebbe risultata vana.

Inoltre, secondo la Corte di legittimità, l'accertamento dell'elemento psicologico del reato configurabile a carico degli imputati svolto dalla sentenza di merito risultava del tutto carente, quando non anche omesso.

La Corte territoriale, infatti, non ha adeguatamente argomentato in ordine agli elementi di prova sulla base dei quali la condotta omissiva dei sindaci, quand'anche causalmente rilevante, dovesse essere ritenuta dolosa anziché ascrivibile a negligenza od imprudenza.

La sentenza di merito, omettendo una compiuta indagine in ordine alla consapevolezza, in capo ai sindaci, della volontà dismissiva/distrattiva degli organi amministrativi, ha invece fondato la condanna sulla dilatazione del dolo eventuale mediante una impropria equivalenza con la violazione delle regole di diligenza (così, di fatto, a parere di chi scrive, sovrapponendo indebitamente la prova del nesso causale con la prova dell'elemento soggettivo).

Così operando la sentenza di secondo grado ha altresì violato il principio ormai pacificamente affermati a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite 12 luglio 2005, n. 33748, secondo la quale il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo (i) di delineare le linee portanti del proprio ragionamento probatorio alternativo e (ii) di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.

In altri termini, la riforma della sentenza assolutoria non può fondarsi su argomentazioni che si limitino ad affermare una differente valutazione del compendio probatorio senza affrontare un esplicito confronto con le diverse valutazioni proposte dalla sentenza riformata.

Conclusioni

In conclusione, la sentenza in commento è meritevole di particolare apprezzamento per la chiarezza con cui riafferma lo schema «ortodosso» di accertamento della responsabilità penale per omesso accertamento, soprattutto a fronte delle ancora troppo frequenti derive giurisprudenziali verso forme di accertamento che «appiattiscono» il rimprovero soggettivo penale sugli schemi propri della responsabilità civile di amministratori e sindaci, ad esempio attraverso la sostanziale (non infrequente) equiparazione tra conoscenza e mera conoscibilità o che esauriscono la prova del dolo nella esclusiva violazione della regola di diligenza professionale.