TFR: come calcolare la base imponibile spettante al coniuge divorziato

Paola Silvia Colombo
16 Gennaio 2018

L'Autrice approfondisce le tematiche emerse a livello giurisprudenziale relative alle diverse tipologie indennitarie (es. incentivo all'esodo) che possono essere assimilate al TFR e, quindi, sussunte nella disciplina legislativa di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970 e successive modificazioni.
Il quadro normativo

L'art. 12-bis, l. n. 898/1970, stabilisce che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata una sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio abbia diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto titolare dell'assegno divorzile, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto, maturata negli anni coincidenti con il matrimonio e percepita dall'altro coniuge all'atto di cessazione del rapporto di lavoro, anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza. La legge ha fissato nel 40% la percentuale di tale indennità.

Se, quindi, risulta pacificamente riconosciuta l'attribuzione di una quota del trattamento di fine rapporto all'ex coniuge -anche laddove il rapporto di lavoro sia iniziato all'indomani della pronuncia della sentenza di separazione (cfr. Trib Milano, 19 maggio 2017, n. 5680/2017) - risulta assai più arduo individuare se le altre tipologie indennitarie, ovvero le forme di previdenza disciplinate all'art. 2123 c.c., possano essere analogicamente assoggettate alla medesima disciplina normativa.

Altrettanto controversa è la questione relativa all'applicabilità, in caso di divorzio, della citata disciplina alle quote di TFR accantonate in fondi pensionistici.

Le diverse interpretazioni dell'art. 12-bis, l. n. 898/1970 e successive modificazioni

La questione interpretativa che muove dall'analisi della norma in commento ha portato la giurisprudenza a elaborare alcuni criteri sulla base dei quali è possibile dedurre quali indennità rientrino o meno nella citata normativa.

Tuttavia, come per gran parte degli istituti per cui il legislatore non è stato in grado di predisporre una disciplina completa ed esaustiva, si è sul punto sviluppata un'ermeneutica giurisprudenziale che ha elaborato soluzioni interpretative difformi.

Cerchiamo quindi di capire quale criterio abbia guidato la giurisprudenza nell'estendere o meno la disciplina di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970 ad indennità diverse rispetto al TFR.

In linea di principio, la chiave interpretativa rimane nella valutazione dei seguenti fattori: a) natura di tali indennità e momento di maturazione del diritto alla loro percezione; b) funzione giuridica.

Tali criteri vengono di volta in volta esaminati in via combinata, così che l'esito di tale valutazione possa condurre i giudici e gli interpreti a concludere per l'assimilabilità o l'esclusione delle indennità singolarmente considerate alla citata disciplina.

Le pronunce che negli ultimi anni si sono susseguite, tuttavia, non hanno fissato principi uniformi e univoci sull'argomento, lasciando quindi ampio spazio alla incertezza e al lavoro dell'interprete.

Di seguito verrà proposta una breve disamina di alcune delle più importanti fattispecie indennitarie in relazione all'applicabilità della disciplina prevista dall'art. 12-bis, l. n. 898/1970.

La natura del TFR e il suo momento di maturazione: l'indennità di fine rapporto come forma di retribuzione differita

In primo luogo, è opportuno chiarire quale sia la natura del TFR.

L'espressione “indennità di fine rapporto” deve essere intesa nel senso di ricomprendere, nella sua semantica giuridica, tutti i trattamenti di fine rapporto percepiti da un lavoratore subordinato o parasubordinato che possano qualificarsi alla stregua di una quota differita della retribuzione, accumulata durante il periodo di svolgimento del rapporto di lavoro.

Il “differimento del momento retributivo del TFR” implica che quest'ultimo sia sospensivamente condizionato al verificarsi di un evento, ovvero, al momento di scioglimento del rapporto di lavoro.

Per tale ragione, essendo i criteri “natura del TFR” e “momento di maturazione del diritto alla sua percezione” strettamente connessi tra di loro, sono di norma esaminati congiuntamente dalla giurisprudenza.

In modo particolare, la giurisprudenza ha trattato la questione con riguardo alle indennità di buonuscita dei dipendenti statali, alla indennità di fine servizio degli enti locali, alle indennità di anzianità versate dall'ente parastatale al personale di servizio, e alle indennità di mancato preavviso o giusta causa, concludendo, generalmente, per la loro assimilabilità alla disciplina di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970.

Tale conclusione, secondo la scrivente, risulta motivata in modo particolarmente chiaro in Cass. civ., n. 19309/2003 con la quale la Corte di Cassazione, richiamandosi ai principi espressi in Corte cost., 24 gennaio 1991, n. 23 ha affermato che la dizione di indennità di fine rapporto allude, in un'ampia accezione, a «tutti i trattamenti di fine rapporto (sia da lavoro subordinato sia da lavoro parasubordinato), comunque denominati, che condividano la medesima natura di quota differita della retribuzione a riscossione sospensivamente condizionata all'evento dell'estinzione del rapporto di lavoro e che risultino così chiamati a svolgere l'identica funzione», altresì indicando quali emolumenti possano, pertanto, rientrare nella suddetta disciplina.

In particolare, i Giudici di legittimità hanno condiviso il pregresso orientamento dei giudici delle leggi con il quale era stato affermato che «rientrano nelle indennità di fine rapporto ex art.-12 bis, l. n. 898/1970, vuoi l'indennità di cui all'art. 2120 c.c. (ovvero il trattamento di fine rapporto, propriamente detto per i lavoratori privati …omissis…), vuoi l'indennità di buona uscita spettante ai dipendenti pubblici, vuoi le indennità di cui agli artt. 2118 e 2119 c.c. (mancato preavviso e giusta causa), vuoi, financo, i premi, le partecipazioni azionarie e le elargizioni per prassi aziendali».

Si tratta di argomentazioni che, analogamente, sono state mosse nella coeva sentenza Cass. civ., 11 aprile 2003, n. 5720, per escludere dalla disciplina di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970 l'indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai.

Sul punto, la Corte ha infatti puntualmente rilevato che la richiamata disciplina «può estendersi in via analogica alla diversa indennità di buonuscita dei dipendenti dello Stato per i quali non esiste il TFR di cui all'art. 2210 c.c., vigendo, invece, il regime di cui al d.P.R. n. 1032/1973, stante l'identità della funzione retributiva (…). Non può, invece, estendersi ad istituti aventi diversa origine, preminentemente previdenziale e assicurativa, nonché aventi origine in regimi professionali di natura privata, rispetto ai quali non è possibile individuare una retribuzione in senso tecnico, tipica del rapporto di lavoro subordinato».

Come è facile intuire, le valutazioni giurisprudenziali proposte individuano un'interpretazione della nozione di TFR che consente di estenderne la sua disciplina a ulteriori fattispecie indennitarie caratterizzate da connotati simili, indagando sulla natura di tali emolumenti e sul momento di maturazione del diritto alla loro percezione.

Tali criteri, tuttavia, non sono sempre di per sé sufficienti per determinare l'assimilabilità di determinate indennità alla disciplina di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970 e ss. modificazioni.

Per questa ragione, la giurisprudenza ha individuato nella funzione della relativa fattispecie di volta in volta esaminata l'ulteriore elemento che consente di escludere o di includere quest'ultima nella nozione di TFR.

La funzione del TFR: l'indennità di fine rapporto intesa come parte di retribuzione dovuta al lavoratore

Al contrario di quanto previsto per le indennità di cui al precedente paragrafo, la sentenza Cass. civ., n. 19309/2003 ha escluso dalla nozione TFR «le forme di previdenza disciplinate dall'art. 2123 c.c. (in quanto costituiscono figure di integrazioni ulteriori rispetto alla suddetta indennità), (…) le indennità che costituiscono forme di pagamento differito di una parte del proprio reddito non di lavoro subordinato (quali le somme dovute agli agenti per la risoluzione del rapporto di agenzia (…), infine, l'indennità da mancato preavviso per il licenziamento in tronco e l'indennità percepita a titolo di risarcimento del danno per illegittimo licenziamento (…)».

Analogamente, anche gli importi erogati sempre in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma ad altro titolo, quali, ad esempio, l'anticipato collocamento in quiescenza, rimangano esclusi da tale previsione normativa (Cass. civ., n. 3294/1997).

In tale ultimo caso, ove la Suprema Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla riconoscibilità di una quota pari al 40% dell'indennità percepita dall'ex coniuge a titolo di anticipato collocamento in quiescenza, i Giudici di legittimità hanno negato il diritto dell'ex coniuge alla percezione di tale quota.

A dire della Corte, infatti, l'erogazione richiesta sarebbe «del tutto distinta per natura, presupposti, finalità e criteri di determinazione, dall'indennità di fine rapporto».

Del resto, l'emolumento corrisposto al lavoratore in occasione di una messa a riposo anticipata, nell'ambito di una politica aziendale volta alla riduzione del personale, avrebbe per lo più una funzione di compensare il minor guadagno derivante dal pensionamento anticipato, piuttosto che retribuire in via differita il lavoratore anticipatamente collocato a riposo; inoltre, come ha correttamente rilevato la Corte, verrebbe a mancare il requisito che richiede la coincidenza del rapporto di lavoro con gli anni di matrimonio: in tale caso, infatti, la quota richiesta sarebbe rapportata ad un periodo successivo alla sentenza di scioglimento.

Pertanto, come emerge dalle considerazioni condivise dalla citata giurisprudenza, deve essere in linea di principio esclusa l'applicazione della disciplina di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970 agli emolumenti che hanno la funzione di ristorare un danno de futuro da mancato guadagno, in quanto tale funzione, come abbiamo visto, sarebbe totalmente estranea al TFR.

Si tratta di un'argomentazione che la scrivente ritiene abbastanza convincente e che è stata posta dalla giurisprudenza di merito a giustificazione della non equiparabilità dell'incentivo all'esodo al TFR, in termini di liquidabilità pro quota all'ex coniuge che lo abbia richiesto.

Un'ipotesi controversa: l'incentivo all'esodo

La giurisprudenza più recente ha condiviso il principio per cui, nella maggior parte dei casi, sia proprio l'indagine sui criteri esaminati nei paragrafi precedenti l'elemento da cui desumere l'assimilabilità delle varie fattispecie indennitarie alla disciplina di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970.

Tuttavia, ci sono emolumenti che, a causa della particolarità dei loro connotati, risultano ad oggi di difficile inquadramento, al punto che nemmeno la giurisprudenza è riuscita ad indicare una via preferenziale.

Ci si riferisce in modo particolare alla ipotesi di incentivo all'esodo, ovvero a quella forma indennitaria corrisposta quale sollecitazione alla conclusione anticipata del rapporto.

La giurisprudenza pregressa sembra essere orientata a ritenere tale incentivo come una vera e propria forma di reddito da imputarsi alla quota imponibile al pari del TFR, derivandone, del pari, la liquidabilità pro-quota.

Sul punto, infatti, si riportano le pronunce della Suprema Corte Cass. civ., n. 17986/2013 e Cass. civ., n. 14171/2016, le quali, a partire da considerazioni che indagano sul regime fiscale da applicare a tale istituto, hanno ritenuto di poter attribuire al coniuge divorziato anche una quota dell'incentivo all'esodo riconosciuto all'altro coniuge. In modo particolare, i giudici di legittimità hanno rilevato che «le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente, non hanno natura né liberale né eccezionale, ma costituiscono reddito da lavoro dipendente, essendo predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto (…)».

Si tratta, tuttavia, di un orientamento dal quale, con Trib. Milano, 19 maggio 2017, n. 5680, si è discostata la giurisprudenza del Tribunale di Milano ritenendo irrilevante, ai fini dell'assimilazione alla medesima disciplina, il fatto che le due indennità siano sottoposte al medesimo regime fiscale. Piuttosto, i giudici di merito hanno osservato che le due indennità hanno una funzione del tutto differente, essendo l'incentivo all'esodo, diversamente dal TFR, finalizzato a ristorare un danno futuro da mancato guadagno.

Inoltre, come già osservato, il TFR è pacificamente riconosciuto come quota differita della retribuzione, la cui riscossione è condizionata alla risoluzione del rapporto di lavoro; l'incentivo all'esodo, invece, è formato da somme aggiuntive rispetto al TFR, e viene erogato in forza di un accordo tra le parti volto allo scioglimento del rapporto di lavoro.

Si tratta di osservazioni che, a parere di chi scrive, per quanto contrarie agli orientamenti pregressi, ben si attagliano alla ratio ormai pacificamente condivisa dalla giurisprudenza consolidata, la quale indaga sui presupposti sopra descritti (natura, funzione, momento di maturazione del diritto alla percezione) per concludere o meno sull'assimilabilità alla disciplina del TFR delle altre indennità singolarmente considerate.

Le quote del TFR confluite in un fondo pensione

Resta infine da esaminare la questione relativa alla riconoscibilità al coniuge divorziato di una quota del TFR che sia stato fatto confluire in un fondo complementare.

In primo luogo, non si può non rilevare come i criteri poc'anzi individuati (natura e funzione di retribuzione differita dell'indennità analizzata e momento di maturazione del diritto alla percezione della quota) portino a concludere per un'automatica esclusione di tali somme dalla disciplina in commento.

A tale conclusione, è pervenuta anche la giurisprudenza maggioritaria applicando analogicamente la disciplina prevista per i versamenti effettuati in favore del fondo pensione ai versamenti di eventuali quote di TFR alla previdenza complementare: avendo i primi natura non retributiva ed essendo liquidabili solo al momento di maturazione dei requisiti per il pensionamento, anche i secondi, di conseguenza, non sarebbero imputabili al fondo TFR (cfr. Cass., n. 8228/2013; Cass. civ., S.U., n. 4949/2015; Cass. civ., n. 8995/2012).

In modo particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che i versamenti in favore del fondo pensione, avendo una natura spiccatamente previdenziale, non incrementerebbero il patrimonio del lavoratore (Cass. civ., n. 8995/2012).

Tali somme, infatti, come hanno correttamente rilevato le Sezioni Unite con Cass. civ., n. 4949/2015, non possono rientrare nell'ambito di applicazione degli artt. 2120 e 2121 c.c., in quanto il loro ambito applicativo dovrebbe circoscriversi alla retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore durante gli anni di svolgimento del rapporto e non anche a contributi da cui i lavoratori non possono trarre alcun immediato arricchimento.

Inoltre, se ciò non fosse sufficiente, le Sezioni Unite hanno insistito sull'autonomia del rapporto previdenziale rispetto al rapporto di lavoro: in forza del primo, il datore di lavoro è obbligato a versare dei contributi nel fondo pensione e tali somme non saranno mai disponibili prima della maturazione del diritto del lavoratore al trattamento pensionistico.

Da ciò ne deriva, pertanto, che la liquidabilità pro quota delle somme dirottate su un fondo pensione dovrebbe fondamentalmente escludersi per tre ragioni:

a) evitare di trarre la paradossale conclusione per cui i contributi datoriali versati su un fondo pensione avrebbero natura retributiva (del resto, sarebbe come affermare l'esistenza di un sistema di previdenza complementare ad esclusivo carico dei lavoratori);

b) in considerazione della natura di tali versamenti (previdenziale appunto e non retributiva) e del momento di maturazione del diritto alla loro percezione (raggiungimento dell'età pensionabile e non scioglimento del rapporto di lavoro);

c) per la modalità di erogazione, che nella maggior parte dei casi, a differenza del TFR, avviene sotto forma di rendita vitalizia e non di capitale.

Si tratta, tuttavia, di un orientamento che, allo stato, non è immune a teorie di senso opposto.

Si segnala, infatti, una recente ordinanza Cass. civ., n. 12882/2017 con la quale la Corte di Cassazione, sulla scia di alcuni pregressi orientamenti (Cass. civ., sez. V, n. 4425/2010 e Cass. civ., sez. V, n. 8200/2007)ha riconosciuto che il diritto all'attribuzione di una quota dell'indennità di fine rapporto, percepita dall'altro coniuge, in favore del coniuge divorziato possa essere esteso anche agli ulteriori emolumenti che siano in qualche modo correlati all'attività lavorativa dell'ex coniuge, indipendentemente dal fatto che siano stati fatti confluire su un fondo pensione.

A tale conclusione la Corte sarebbe giunta rilevando che le somme confluite nel fondo pensionistico, essendo destinate ad essere corrisposte dopo la cessazione del rapporto di lavoro, troverebbero in quest'ultimo la loro ragione giustificatrice. Inoltre, in quanto finalizzate a compensare la perdita di redditi futuri, radicherebbero in tale funzione la loro natura di “retribuzione differita” tale da giustificare l'applicabilità del regime fiscale previsto per il TFR, nonché della disciplina di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970.

Ad avviso di chi scrive, tale argomentazione non è condivisibile. Pare, infatti, di gran lunga più ragionevole l'opinione condivisa dall'ormai consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui le somme versate sul fondo pensionistico non possano essere riconosciute al lavoratore come forma di liquidazione, ma piuttosto come forma di pensione integrativa che, pertanto, rientrerebbe nella disciplina di cui all'art. 2123 c.c. e non nella previsione di cui all'art. 2120 c.c., cui, invece, farebbe riferimento l'art. 12-bis, l. n. 898/1970.

In conclusione

Attesa la generale condivisione giurisprudenziale della ratio giuridica posta alla base della logica classificatrice delle varie tipologie indennitarie, sebbene non sia possibile suggellare una regola generale, l'unico criterio che possa fungere da guida nel mare magnum dell'art. 12-bis, l. n. 898/1970 risiede, appunto, nella valutazione sulla natura, sulla funzione e sul momento di maturazione del diritto alla percezione di tali indennità: laddove queste ultime possano qualificarsi alla stregua di retribuzioni differite che maturano alla data di cessazione del rapporto, saranno liquidabili pro quota al coniuge divorziato; al contrario, se si tratta di emolumenti che hanno natura risarcitoria, l'ammontare sarà di esclusiva competenza del lavoratore diretto percettore (Cass. civ., n. 19309/2003; Cass. civ., n. 5720/2003; Cass. civ., n. 3294/1997).

Tale principio risulta applicabile anche per il caso di quote di TFR dirottate su un fondo pensione: il momento di maturazione del loro diritto alla percezione, unitamente alla loro natura di pensione integrativa (e non, quindi, di retribuzione differita) nonché le modalità di erogazione porterebbero a concludere per la loro automatica esclusione dalla disciplina di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970.

Fonte: ilfamiliarista.it

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