Condominio e locazione

Regolamento Contrattuale (interpretazione e modifica)

Ferdinando Della Corte
18 Gennaio 2018

La giurisprudenza si è occupata a più riprese dell'interpretazione e della modifica del regolamento di natura contrattuale; sul primo versante, configurandolo come un contratto (anche se peculiare), si è preferito seguire anche nell'àmbito condominiale le regole generali in materia di contratti di cui agli artt. 1362 ss. c.c.; sul secondo versante, si sono distinte le clausole con contenuto tipicamente “regolamentare” e le clausole di natura “contrattuale”, anche se la linea di demarcazione tra i due suddetti tipi di clausole appare alquanto incerta.
Inquadramento

In ordine all'interpretazione del regolamento contrattuale, configurandolo come un contratto - anche se peculiare per quanto concerne il suo contenuto - si preferisce seguire anche nell'àmbito condominiale le regole generali in materia di contratti di cui agli artt. 1362 ss. c.c., conseguendone che la predetta interpretazione, da parte del giudice di merito, rappresenta un giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 28 ottobre 1995, n. 11278; Cass. civ., sez. II, 13 febbraio 1995, n. 1560; Cass. civ., sez. II, 4 giugno 1981, n. 3269), e, trattandosi di contratto, sindacabile solo per l'inosservanza delle regole ermeneutiche fissate dal codice civile per l'interpretazione dei contratti (più di recente, v. Cass. civ., sez. II, 23 gennaio 2007, n. 1406).

Analizziamo, quindi, come la giurisprudenza, in materia di regolamenti di condominio di natura contrattuale, abbia applicato i criteri ermeneutici c.d. soggettivi e oggettivi.

I canoni ermeneutici soggettivi e oggettivi

Sotto il profilo dei canoni ermeneutici c.d. soggettivi (artt. 1362-1365 c.c.), si dovrà prendere le mosse dalla ricerca e messa in luce della concreta comune intenzione dei contraenti, facendo riferimento anche al senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione e non limitandosi necessariamente al senso letterale delle medesime parole (Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 2012, n. 18052; Cass. civ., sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27392; Cass. civ., sez. II, 28 maggio 2007, n. 12400; favorevoli ad integrare il precedente criterio con un'interpretazione logico-sistematica, cui corrisponda il “senso organico” dato dal complesso dei precetti, v. Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2010, n. 21841; Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2002, n. 16022).

In tal modo, la valutazione del comportamento delle parti contraenti, anteriore (si pensi ai bisogni ed alle esigenze emerse in sede di trattative) ma anche successivo alla stipulazione (si pensi al contegno tenuto in fase di esecuzione), e, in genere, il ricorso ai criteri ermeneutici sussidiari - ad esempio, la buona fede di cui all'art. 1366 c.c., ossia il significato che contraenti corretti e leali attribuirebbero alle clausole regolamentari - saranno doverosi quando il contenuto letterale dei patti negoziali non sia idoneo di per sé ad evidenziare inequivocabilmente la comune intenzione delle parti medesime (v., anche se datata, Cass. civ., sez. II, 24 aprile 1981, n. 2453, la quale, riguardo al regolamento che consentiva l'utilizzazione delle singole unità soltanto a “studio professionale privato”, ha opinato che non potesse vietarsi la destinazione ad “agenzia assicurativa”; cui adde Cass. civ., sez. II, 4 giugno 1981, n. 3629,che ha tenuto conto di circostanze “sopravvenute” relative all'utilizzazione del fabbricato; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Napoli 18 dicembre 2000, sull'assegnazione di un posto-auto in favore del “proprietario di ogni unità che la abiti”).

Sotto il profilo dei canoni ermeneutici c.d. oggettivi, nel caso in cui la volontà dei contraenti dia luogo a dubbi o ambiguità (artt. 1366-1370 c.c.), si potrà applicare al regolamento contrattuale il principio secondo cui le espressioni, che possono avere sensi molteplici, nel dubbio devono essere intese secondo il significato più conveniente alla natura e all'oggetto, o in conformità con la funzione economica e sociale del contratto, avuto riguardo alla destinazione conferita all'edificio ed alle precauzioni escogitate per tutelare la convivenza; così opererà anche il principio di conservazione, secondo cui le disposizioni si interpretano nel senso in cui risultino valide ed efficaci, e non in quello in cui sarebbero invalide ed inefficaci (Cass. civ., sez. II, 25 marzo 1987, n. 2888, la quale ha applicato il canone dell'art. 1367 c.c., che impone, nel dubbio, di interpretare le singole clausole «nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché quello secondo cui non ne avrebbero alcuno»).

Le limitazioni alla destinazione degli appartamenti esclusivi

In particolare, ci si è interrogati su come debbano essere interpretate le limitazioni contenute nei regolamenti aventi natura contrattuale, come i divieti di un certo uso o i vincoli di una data destinazione.

Al riguardo, si è affermato che le stesse debbano essere interpretate in modo restrittivo per non limitare ulteriormente la disponibilità ed il libero godimento delle unità immobiliari di proprietà esclusiva garantiti al relativo proprietario (riguardo ai criteri di interpretazione del regolamento condominiale nella parte in cui preveda limitazioni dell'uso delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei condomini, v. Cass. civ., sez. II, 23 dicembre 1994, n. 11126, secondo cui l'accertamento della concreta violazione del divieto comporta un'indagine non censurabile in cassazione se immune da vizi logici; ad avviso di Cass. civ., sez. II, 30 dicembre 1968, n. 4094, l'interpretazione di eventuali clausole limitative dei diritti esclusivi dei singoli condomini, per accertare se esse integrino oneri reali per un loro carattere di oggettività e durevolezza o invece un'obbligazione personale del condomino soggetto alla limitazione dei propri diritti, è rimessa unicamente ai giudici di merito).

Di solito, i divieti ed i limiti di destinazione delle proprietà individuali sono formulati nei regolamenti condominiali sia mediante elencazione delle attività vietate - pensione, locanda, discoteca, cinema, sala da ballo, scuola di canto o di musica, studio medico, postribolo, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, uffici aperti al pubblico, ecc. - sia con riferimento ai pregiudizi che si intendono evitare - turbamento della quiete, dell'amenità e della tranquillità dei condomini, contrarietà all'igiene, alla signorilità ed al decoro dell'edificio, ecc. - non escludendo che si possa anche imporre specifiche destinazioni - attività industriali o commerciali, vendita al minuto o all'ingrosso, ecc. - stabilendo quindi degli obblighi di fare (tra le pronunce di merito, v. App. Milano 27 giugno 1980, secondo cui contrastava con l'uso previsto dei locali, per regolamento da adibirsi “ad ufficio”, la localizzazione negli stessi di una mensa aziendale, anche se per dipendenti di un ufficio esistente all'interno del medesimo stabile).

Nella prima ipotesi, è sufficiente, per stabilire se una data destinazione sia vietata o limitata, verificare se la stessa destinazione sia inclusa o meno nell'elenco tassativo, ritenendosi che, già in sede di redazione del regolamento, siano stati valutati gli effetti come necessariamente dannosi, sicché la semplice indicazione nello stesso di una data destinazione delle unità immobiliari non può precluderne altre diverse (Cass. civ., sez. II, 22 marzo 2001, n. 4125, secondo cui, se il regolamento di condominio vieta di destinare gli appartamenti a dottori specialisti di malattie infettive, non preclude al singolo condomino di svolgervi attività di medico dermatologo), essendo tale risultato, comportante la restrizione della sfera di dominio dei condomini sui beni di loro proprietà esclusiva, conseguibile con necessarie specifiche dichiarazioni di volontà, desumibili in modo chiaro, manifesto ed esplicito (Cass. civ., sez. II, 26 maggio 1990, n. 4905).

Tali clausole, che inibiscono determinati usi delle unità immobiliari, limitano il diritto dominicale, comprimendo facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli, per cui è inammissibile un'interpretazione estensiva (v. la remota Cass. civ., sez. II, 14 marzo 1975, n. 970, per la quale il divieto di adibire un immobile a “recapito professionale” non comprende anche quello di ambulatorio medico; più di recente, Cass. civ., sez. II, 30 giugno 2011, n. 14460, che, a fronte di un divieto di destinare gli appartamenti ad uso di “gabinetto di cura malattie infettive o contagiose”, ha ammesso la possibilità di adibire l'immobile a studio medico dermatologico; in ordine a peculiari fattispecie, tra le pronunce di merito, si segnalano: Trib. Napoli 19 marzo 1994, che ha dichiarato nulla la delibera con cui l'assemblea aveva approvato l'interpretazione da dare al regolamento nel senso di non ammettere la destinazione delle singole unità immobiliari ad esercizio commerciale pur in assenza di qualsivoglia norma specifica in tal senso nel medesimo regolamento; Trib. Milano 6 luglio 1993, secondo cui nella previsione regolamentare che vieta la destinazione dei locali a “sede di circolo e simili” rientra anche la destinazione a bar, giusta l'omogeneità degli inconvenienti che ne possono derivare al condominio; App. Milano 23 luglio 1991, circa la destinazione a centro culturale e di pratica religiosa di un immobile per il quale era vietato un uso commerciale).

Nella seconda ipotesi, siamo in presenza di norme regolamentari che individuano l'attività vietata non in sé, bensì in relazione al danno potenzialmente cagionabile alle parti comuni o ai singoli condomini (tra le fattispecie esaminate dai giudici di merito, si possono richiamare: Trib. Genova 15 giugno 1999, sull'attività medica di ortopedico e di urologo che non comporta particolari assembramenti di persone o altre fonti di disturbo; Trib. Roma 27 ottobre 1980, sul danno alla tranquillità arrecato dall'allocazione in un appartamento di un'emittente televisiva; Trib. Roma 29 marzo 1973, sul divieto di adibire i locali ad uffici o esercizi insalubri o che comportino rumori molesti; Trib. Roma 11 giugno 1969, in ordine all'attività di pensione; Trib. Genova 2 agosto 1968, circa l'uso di un locale a deposito di casse mortuarie contrario al pacifico godimento dello stabile nella misura in cui provocava ingombro al modesto viottolo pedonale di accesso all'edificio; App. Milano 25 novembre 1966, sul divieto di esalazioni nocive riferite ad immissioni di ozono cagionate da attività industriali).

Essendo mancata la valutazione in astratto degli effetti dell'attività, è necessario accertare l'effettiva capacità a produrre gli inconvenienti che si è voluto evitare, ma, al fine di eliminare ogni possibilità di equivoco in una materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, le limitazioni de quibus devono risultare «da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibili di dar luogo ad incertezze» (così Cass. civ., sez. II, 1 ottobre 1997, n. 9564, nel caso di un locale avviato a laboratorio per la preparazione e lo spaccio di prodotti suini, in cui si evidenziava che, dall'intrapresa attività, derivavano vibrazioni, cattivi odori, rumori, gravi disagi, anche per la sporcizia in cui venivano a trovarsi gli abitanti dell'edificio, a fronte del regolamento che proibiva qualsiasi «uso contrario all'igiene ed alla moralità»; cui adde Cass. civ., sez. II, 11 settembre 2014, n. 19229; Cass. civ., sez. II, 10 febbraio 2010, n. 3002; Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20237; Cass. civ., sez. II, 31 luglio 2009, n. 17893; Cass. civ., sez. II, 13 febbraio 1995, n. 1560).

A tal fine, l'interpretazione della clausola regolamentare non può essere condotta con esclusivo riferimento allo stato di fatto esistente alla data della sua formazione, ma occorre tener conto anche di situazioni che, pure inesistenti a quel tempo, debbano ritenersi, per identità di ratio, da essa previste.

La modifica per fatti concludenti

È intuitivo che il regolamento di condominio non può avere un contenuto statico e immutabile, per cui ben può essere oggetto di modifiche nel tempo in relazione ai nuovi interessi di gestione (si pensi all'acquisto di un'area che occorre regolamentare o ad un'innovazione tecnologica che accresca il patrimonio comune).

Preliminarmente, è lecito chiedersi se possa modificarsi il regolamento per facta concludentia, nel senso che tale consenso possa dedursi dal comportamento tenuto dai condomini in assemblea e fuori di essa (si pensi all'ipotesi di una clausola regolamentare che stabilisce una particolare modalità di godimento del cortile, nel tempo disattesa da tutti i condomini, che ne pongano in essere, costantemente, una diversa).

La risposta negativa è, attualmente, imposta alla luce dell'affermazione del Supremo Collegio il quale, nella sua massima composizione, ha escluso la possibilità che le modificazioni del regolamento possano avvenire per il tramite di comportamenti dei condomini, anche se reiterati in modo pacifico, stante la necessità per la formazione del requisito della forma scritta ad substantiam, che deve reputarsi appunto necessario (per l'approvazione e) per le modificazioni del regolamento, perché esse, in quanto sostitutive delle clausole originarie, non possono non avere i medesimi requisiti delle clausole sostituite, dovendosi, conseguentemente, escludere la possibilità di una modifica per il tramite di comportamenti concludenti dei condomini (Cass., sez. un., 30 dicembre 1999, n. 943).

Sono quattro ragioni che hanno indotto il massimo organo di nomofilachia alla predetta conclusione.

Innanzitutto, un argomento a favore era stato trovato nel comma 3 dell'art. 1138 c.c., secondo cui il regolamento approvato doveva essere trascritto nel registro tenuto presso l'associazione professionale dei proprietari dei fabbricati, a poco valendo obiettare l'inapplicabilità dell'art. 71 disp. att. c.c., a seguito del d.lgs. lgt. 23 novembre 1944, n. 369 (argomento, quest'ultimo, che attualmente ha perso di spessore, stante la soppressione della previsione della “trascrizione” ad opera della l. n. 220/2012, la quale ha contemplato soltanto un onere di allegazione nel registro di cui all'art. 1130, n. 7, c.c., ma anche nella nuova prospettiva si può sostenere che può essere allegato solo qualcosa che sia scritto).

Altro argomento può essere rinvenuto nell'ultimo comma dell'art. 1136 c.c. - sostanzialmente invariato anche a seguito della Riforma - che prescrive la redazione (scritta) del processo verbale, da trascriversi in un apposito registro tenuto dall'amministratore, della delibera assembleare di approvazione del regolamento di condominio (che, del resto, andrebbe pur sempre comunicata ai condomini assenti).

Importante, poi, è la circostanza che, in difetto di espressa previsione normativa, non potrebbe riconoscersi rilevanza solo probatoria (forma ad probationem) alla prescrizione documentale concernente il regolamento, poiché, quando sia necessaria la forma scritta, la scrittura costituisce elemento essenziale per la validità dell'atto, in difetto di disposizione che ne preveda la rilevanza solo sul piano probatorio.

Senza considerare, infine, le difficoltà di applicazione e di impugnazione di un regolamento non contenuto nello scritto, ritenendosi, quindi, inconcepibile il rifiuto di un rassicurante riferimento documentale (per quanto concerne il regolamento contrattuale, la forma scritta è apparsa fuori discussione qualora le sue clausole costituiscano oneri reali o servitù, incidendo sui diritti immobiliari che i condomini hanno sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni).

Le clausole regolamentari e contrattuali

Nell'àmbito dei regolamenti contrattuali (di origine sia esterna sia interna), occorre distinguere le clausole con contenuto tipicamente “regolamentare”, dirette a disciplinare la conservazione, l'uso ed il godimento delle parti comuni, nonché l'apprestamento e la fruizione dei servizi comuni - di regola, concernenti il contenuto c.d. necessitato del regolamento di cui al comma 1 dell'art. 1138 c.c. - e le clausole di natura “contrattuale”, che incidono sull'utilizzabilità e destinazione delle parti esclusive o che comportino restrizioni al diritto di proprietà dei singoli sulle cose comuni (v., tra le tante, Cass. civ., sez. II, 31 luglio 2009, n. 17886; Cass. civ., sez. II, 14 agosto 2007, n. 17694; Cass. civ., sez. II, 15 aprile 1987, n. 3733; Cass. civ., sez. II, 18 agosto 1985, n. 5065; Cass. civ., sez. II, 21 gennaio 1985, n. 208; Cass. civ., sez. II, 6 dicembre 1978, n. 5769; Cass. civ., sez. II, 3 aprile 1970, n. 882; sembrano, invece, discostarsi dall'indirizzo dominante Cass. civ., sez. II, 14 giugno 1997, n. 5389, e Cass. civ., sez. II, 28 gennaio 1997, n. 854).

Ad esempio, rivestono natura regolamentare quelle clausole che concernono le modalità d'uso delle cose comuni, e, in genere, l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi condominiali (ad esempio, il divieto di occupare temporaneamente alcune parti comuni dell'edificio, la regolamentazione del gioco dei bambini nel cortile, o l'obbligo di uso turnario del lastrico solare), mentre hanno natura negoziale solo quelle disposizioni che incidono nella sfera dei diritti soggettivi dei condomini (ad esempio, quelle che vietano di adibire l'appartamento a sala da ballo o discoteca).

Orbene, le prime possono essere approvate (e modificate) dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal combinato disposto degli artt. 1136, comma 2, e 1138, comma 3, c.c., in quanto - pur se inserite in un regolamento contrattuale, ossia poste in essere per contratto - non differiscono, nella loro sostanza, da quelle oggetto di autoregolamentazione a maggioranza dell'organo assembleare - è irrilevante, quindi, con quali modalità il regolamento sia venuto ad esistenza - dovendo essere adattate alle molteplici esigenze della vita condominiale, purché sia assicurato il diritto al pari uso di tutti i condomini (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 15 giugno 2012, n. 9877, sull'uso del cortile condominiale a parcheggio di autovetture dei singoli condomini; Cass. civ., sez. II, 4 giugno 2010, n. 13632; Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 1999, n. 1057, Cass. civ., sez. II, 26 settembre 1998, n. 9649; Cass. civ., sez. II, 27 gennaio 1996, n. 642; Cass. civ., sez. II, 12 maggio 1994, n. 4632; Cass. civ., sez. II, 20 febbraio 1974, n. 454; tra le pronunce di merito, Trib. Spoleto 18 aprile 1987, circa la sosta di auto in un‘area circostante il fabbricato).

In dottrina (Peretti Griva), si sottolinea che come un singolo atto di amministrazione, deliberato dalla maggioranza, non vincola questa ad adottare una eguale misura in successive identiche circostanze, così, con la formazione di un regolamento, “l'assemblea non intende abdicare alla facoltà di disciplinare, in seguito, in modo diverso, il sistema e le modalità di amministrazione, ed anzi, è codesta elasticità di funzionamento che assicura l'evoluzione e il perfezionamento dell'istituto, pur restando intangibili i diritti dei singoli sulle parti comuni, quanto al godimento e quanto ai carichi correlativi”.

Le seconde, invece, poiché incidono sull'utilizzabilità e la destinazione delle parti di proprietà esclusiva, hanno carattere convenzionale, e, se predisposte dall'originario proprietario dello stabile, devono essere accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto o con atti separati, mentre, in ipotesi di delibera assembleare, vanno approvate all'unanimità e la loro modifica presuppone il consenso unanime, dovendo, in difetto, considerarsi nulle perché eccedenti i limiti dei poteri dell'assemblea (v., tra le tante, Cass. civ., sez. II, 15 febbraio 2011, n. 3705; Cass. civ., sez. II, 18 aprile 2002, n. 5626, sul divieto di sosta di veicoli nel cortile comune; Cass. civ., sez. II, 18 febbraio 2000, n. 1830; Cass. civ., sez. II, 4 dicembre 1993, n. 12028; Cass. civ., sez. II, 1 giugno 1993, n. 6100; Cass. civ., sez. II, 14 dicembre 1992, n. 13179; Cass. civ., sez. II, 14 novembre 1991, n. 12173; Cass. civ., sez. II, 12 marzo 1976, n. 864).

Non si ritiene, pertanto, condivisibile l'opinione di chi (Corona) ritiene che la fonte si riverbera sulla natura delle norme, condizionandone le vicende, ossia la modifica e l'abrogazione: all'assemblea - cui non si attribuisce il potere di incidere sulle clausole dispositive (sui diritti soggettivi e sugli obblighi dei condomini) - deve, invece, riconoscersi il potere di abolire le norme poste in essere (anche) per contratto qualora riguardino materie astrattamente assegnate alla sua competenza, non essendo sufficiente rilevare che, regolando la gestione delle cose comuni, i condomini hanno inteso conferire maggiore incisività e stabilità, vincolando i partecipanti (e nei modi dovuti anche gli eredi e gli aventi causa) ed impedendo la modifica in virtù di una semplice delibera assembleare.

In evidenza

In buona sostanza, non è tanto la collocazione, quanto piuttosto il contenuto di una clausola che vale a chiarirne la portata e la corretta natura giuridica, con tutte le conseguenze a cascata, tra le quali, nel caso di specie, la revisione; ragionare diversamente significherebbe richiedere il consenso unanime dei condomini (ossia un successivo contratto) per la modifica di clausole, inserite in un regolamento contrattuale, che si limitino a disciplinare, ad esempio, l'uso turnario del terrazzo come stenditoio, l'orario di chiusura del portone di ingresso, la scadenza del pagamento dei contributi condominiali, e quant'altro.

Del resto, significativamente, dell'autonomia privata non si fa menzione in tema di uso delle cose comuni, di tutela del decoro e di amministrazione - essendo prevista espressamente la “diversa convenzione” solo in tema di ripartizione delle spese ai sensi dell'art. 1123, comma 1, c.c. ed in altre disposizioni relative a circoscritti settori della normativa condominiale (ad esempio, artt. 1117, comma 1, e 1118, comma 1, c.c.) - conseguendone che, nelle materie contemplate nel comma 1 dell'art. 1138 c.c., le statuizioni assembleari possono tranquillamente modificare l'assetto degli interessi come in precedenza regolato (anche se posto in essere con lo strumento negoziale).

In realtà, la linea di demarcazione tra i due tipi di clausole appare alquanto incerta, non risultando agevole distinguere tra clausole che - secondo la terminologia adottata dai giudici di legittimità - limitano e comprimono i poteri spettanti, iure domini, ai singoli condomini delle parti comuni e quelle che regolano l'uso ed il godimento delle medesime parti: tutto ciò porta ad una non trascurabile incertezza sulle singole clausole regolamentari e sulle procedure da seguire per la loro modificabilità, con consequenziale ricaduta in termini di possibile contenzioso tra i condomini nonché tra loro e lo stesso condominio.

Casistica

CASISTICA

Laboratorio di pasticceria

L'interpretazione del regolamento contrattuale di condominio da parte del giudice del merito è insindacabile in sede di legittimità quando non riveli violazione dei canoni di ermeneutica oppure vizi logici (nella specie, si era confermata la sentenza di merito che, interpretando nel suo complesso una clausola di un regolamento, aveva escluso la possibilità di ricondurre alla tipologia di utilizzazione “civile, professionale o commerciale”, la destinazione a “laboratorio di pasticceria” di un locale condominiale sito al piano interrato del relativo fabbricato, negando, con ragionamento immune da vizi logici o giuridici, che potessero al contrario rilevare talune circostanze estrinseche alla portata disciplinatoria della clausola contrattuale interpretata, come la preesistenza dell'anzidetta destinazione rispetto alla approvazione del regolamento o la tolleranza manifestata per anni nell'esercizio dell'attività vietata e, infine, il collegamento funzionale tra l'attività di produzione artigianale di pasticcini svolta al piano interrato e quella commerciale di pasticceria esercitata al piano terreno dello stesso fabbricato) (Cass. civ., sez. II, 31 luglio 2009, n. 17893).

Ripartizione delle spese del terrazzo

In tema di regolamento di condominio c.d. contrattuale, la clausola secondo cui i proprietari esclusivi delle terrazze di copertura (equiparabili al lastrico solare) devono contribuire alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria per un terzo mentre i tre quarti sono a carico di tutti i proprietari dei locali in proporzione dei millesimi, deve essere interpretata in base al canone finale dell'equo contemperamento - che va applicato in tutti i casi di assoluta incertezza dell'elemento letterale del testo - in modo da verificare se la quota maggiore posta a carico di tutti i proprietari dei locali in proporzione dei millesimi non abbia avuto proprio l'effetto di compensare la partecipazione soltanto per un quarto dei proprietari esclusivi dei terrazzi facendoli contribuire pro quota anche al residuo, che ai sensi dell'art. 1126 c.c. avrebbe dovuto gravare soltanto sui proprietari delle unità immobiliari sottostanti (nella specie, è stata cassata la sentenza impugnata che, ritenendo di non potere risalire all'effettiva volontà dei contraenti a causa di un evidente errore matematico contenuto nella norma regolamentare, ne aveva privilegiato l'interpretazione conforme alle norme codicistiche, ritenendo ininfluente, ai fini interpretativi, una successiva delibera condominiale, adottata a maggioranza e contenente una diversa ripartizione delle spese nelle misure di un quarto e tre quarti, e rilevando che un comportamento complessivo posteriore al regolamento contrattuale sarebbe stato utilizzabile, ai sensi dell'art. 1362 c.c., solo se riferibile a tutti i condomini uti singuli) (Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2005, n. 15702).

Locale adibito ad alloggio del portiere

In tema di condominio di edifici, la modifica della destinazione pertinenziale dei locali adibiti ad alloggio del portiere, anche se prevista da un regolamento condominiale contrattuale, non richiede l'unanimità dei consensi vertendosi in materia di natura regolamentare, bensì una delibera dell'assemblea dei condomini adottata con la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 5, c.c. (Cass. civ., sez. II, 17 giugno 1997, n. 5400).

Giochi dei bambini

La delibera dell'assemblea del condominio che autorizza la temporanea permanenza dei bambini nei viali condominiali per i loro giochi non modifica la disposizione, contenuta nel regolamento contrattuale del condominio, che vieta ai condomini di occupare gli spazi comuni, e non deve perciò essere approvata all'unanimità (Cass. civ., sez. II, 8 luglio 1981, n. 4479).

Guida all'approfondimento

Izzo, Forma e presupposti per la modifica del regolamento di condominio, in Corr. giur., 2000, 468;

Terzago, La forma prevista per le modifiche al regolamento condominiale, in I contratti, 2000, I, 332;

De Tilla, Modifica del regolamento di condominio e pari uso delle cose comuni, in Giust. civ., 1999, I, 3369;

Accordino, Sulla modificabilità del regolamento contrattuale di condominio, in Arch. loc. e cond., 1993, 788;

Tiscornia, Regolamenti condominiali contrattuali e loro modificabilità, in Arch. loc. e cond., 1985, 306;

Branca, Sui limiti di modificabilità del regolamento contrattuale di condominio negli edifici, in Foro it., 1976, I, 1226;

Salis, Modifica di regolamento contrattuale e conseguenze della mancata verbalizzazione di deliberazione di assemblea, in Riv. giur. edil., 1970, I, 825

Visco, La modificabilità dei regolamenti condominiali, in Nuovo dir., 1965, 119;

Branca, Regolamento contrattuale del condominio e successive modificazioni, in Foro it., 1958, I, 72.

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